C’è un po’ di comprensibile sconcerto tra quelli che non hanno votato e comunque non si riconoscono nelle posizioni dei Cinque Stelle e della Lega. Mi ricorda un po’ un analogo sgomento che accompagnò la vittoria di Berlusconi nel 1994. Ma con una aggravante: che Salvini e Di Maio appaiono come protagonisti di una “rivoluzione” anti-sistema assai più di quanto potesse essere Berlusconi (che peraltro era alleato con due partiti come la Lega di Bossi e Alleanza Nazionale di Fini ancora percepiti, per le loro origini, anch’esse come forze anti-sistema). E più Di Maio e Salvini pongono enfaticamente l’accento sul governo di “cambiamento” più la preoccupazione cresce. Fin dove si intende portare il “cambiamento”? Fino a mettere in discussione le alleanze tradizionali dell’Italia? Fino a uscire dall’Unione Europea? Fino a trasformare la democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione in una “democrazia illiberale” come quella propugnata dal leader ungherese Orban? Lega e Cinque Stelle dicono di no, ma se davvero sono sinceri sanno che all’interno di quei paletti i margini di manovra sono strettissimi e del tutto insufficienti non soltanto a realizzare cambiamenti epocali ma anche a mantenere tutte le promesse fatte in campagna elettorale.

Che fare?
Non resta che aspettare. Tutto ruota intorno a Salvini, sia dal punto di vista tattico che per quanto riguarda l’azione di governo. Se infatti il leader della Lega, con i favorevoli risultati delle elezioni amministrative e con l’esibizione muscolare della chiusura dei porti alle navi cariche di immigrati, ritiene di avere raggiunto il massimo livello di consenso oltre il quale gli inevitabili compromessi di governo potrebbero invece logorarlo, non c’è dubbio che alla prima occasione – probabilmente in autunno – provocherà una crisi di governo; col rischio però che Mattarella, pur di evitare lo scioglimento delle Camere, rimetta in campo l’ipotesi di un accordo tra Cinque Stelle e partito democratico reso possibile da una comprensibile riluttanza del movimento di Grillo ad affrontare nuove elezioni che difficilmente potrebbero ripetere il successo del 4 marzo.
Ma per riesumare la teoria dei due forni (magari sostituendo Fico a Di Maio) occorre che il secondo forno (cioè il PD) sia disponibile, il che al momento attuale non è affatto scontato.
Se invece Salvini ritiene di potere giocare la partita in tempi lunghi riducendo le pretese dei Cinque Stelle (soprattutto per quanto riguarda il “reddito di cittadinanza” assai poco popolare nell’elettorato leghista settentrionale) e spingendo invece l’acceleratore sugli immigrati e su altre riforme (come quella pensionistica) che porterebbero il Paese in rotta di collisione con Bruxelles, il governo, magari con qualche rimpasto, potrebbe durare almeno fino alle elezioni europee del 2019 quando, incassato un forte dividendo elettorale, una sua candidatura alla presidenza del Consiglio diventerebbe possibile. Soprattutto se, nel frattempo, riuscisse anche a fare approvare dal Parlamento una legge elettorale più maggioritaria di quella attuale.

PD?
Nel frattempo il partito democratico deve urgentemente fare i conti con sé stesso, anche a costo di una scissione che sarebbe comunque preferibile alla confusione strategica che lo contraddistingue. Il problema non è quello di una virata a sinistra alla ricerca di un elettorato che non c’è (altrimenti si sarebbe riversato sulla LeU di Grasso) ma invece di rappresentare quell’elettorato di centro che è diviso tra astensione e movimento Cinque Stelle e che potrebbe non condividere l’azione di governo di Salvini e Di Maio man mano che verranno al pettine le conseguenze della loro linea politica nelle grandi scelte economiche e finanziarie (Eurozona, banche e risparmio, fisco, investimenti, occupazione, ecc.). Uno spazio elettorale che potrà essere colmato indifferentemente da un nuovo partito democratico (se cambia nome è meglio), da Forza Italia (se emargina Berlusconi è meglio) o da una nuova formazione sul modello di “En Marche” di Macron o di “Ciudadanos” di Albert Rivera.

Al momento non resta che aspettare. I tanti “liberali qualunque” valuteranno gli atti del governo “consolare” di Di Maio e Salvini senza pregiudizi nella speranza che alcuni di essi contribuiscano a rimuovere incrostazioni corporative e ideologiche che da parte liberale sono sempre state inutilmente denunciate.
Non è tempo di mobilitazioni improvvisate. Finché i capisaldi della democrazia liberale (libertà di comunicazione, indipendenza della magistratura, rispetto della Costituzione e dei trattati che ci consentono di far parte a pieno titolo dell’Unione Europea e dell’ Alleanza Atlantica) non saranno messi in discussione ciò che è avvenuto potrebbe anche rivelarsi come uno strappo utile a fare uscire il Paese dall’immobilismo.

Franco Chiarenza
12 giugno 2018

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