Federalismo all’italiana
Tra i tanti motivi di contrasto tra i partner della maggioranza, forse determinante per la caduta del governo Conte, spicca quello delle cosiddette “autonomie differenziate”, frutto avvelenato dei precedenti governi che pensavano in tal modo di contenere le spinte autonomistiche del “Lombardo-Veneto”. Era prevedibile che il movimento Cinque Stelle, poco sensibile alle istanze autonomistiche e radicato principalmente nel centro-sud, avrebbe colto l’aspetto implicitamente anti-meridionale del pacchetto delle deleghe che peraltro sono figlie della sciagurata riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra nel 2001. Ultima conferma di un tira e molla tra centralismo e federalismo che dura da settant’anni.
La falsa partenza del 1945
Il ripudio del centralismo, considerato erroneamente un’eredità del fascismo (mentre risaliva ai governi liberali dell’800 e in particolare alla riforma amministrativa promossa da Crispi), portò dopo la guerra i principali partiti (e soprattutto i cattolici di sinistra e i socialisti) a comprendere nei loro programmi un regionalismo più o meno accentuato che poi trovò nell’originario titolo V della Costituzione un ragionevole compromesso. Ma una redistribuzione dei poteri era più facile da dire che da fare; ci vollero venticinque anni perchè finalmente le Regioni diventassero operative, dotate di una relativa autonomia di spesa ma sostanzialmente prive di poteri nella destinazione dei propri introiti fiscali. Il centralismo, rifiutato a parole, era tornato ad essere la prassi di governo a cui i partiti della maggioranza (ma anche quelli dell’opposizione in vista di un eventuale ricambio) non volevano rinunciare; anche perchè dove il federalismo era stato realizzato con le Regioni a statuto speciale i risultati erano stati quanto meno problematici.
Aveva cominciato la Sicilia, scossa subito dopo l’occupazione anglo-americana da una ventata separatista, la quale aveva ottenuto nel 1945 (prima ancora dell’avvento della Repubblica) un’autonomia speciale molto avanzata ma che nella sua realizzazione concreta si era dimostrata in gran parte inattuabile; di fatto, al di là di qualche orpello formale, essa si è appiattita sugli stessi poteri delle Regioni ordinarie e comunque ha dimostrato di non riuscire a utilizzare in maniera efficiente i cospicui fondi messi a sua disposizione dallo Stato. Seguirono altre Regioni a statuto speciale, alcune delle quali (come il Trentino-Alto Adige) giustificate da differenze etniche e linguistiche presenti sin dalla loro annessione nel 1919, altre da specificità insulari (come la Sardegna), altre ancora – Friuli Venezia Giulia e Val d’Aosta – da problematiche frontaliere molto pretestuose. La loro specificità consisteva sostanzialmente nella possibilità di affiancare all’autonomia di spesa una certa disponibilità delle proprie entrate fiscali (anche sotto forma di cospicue integrazioni da parte dello Stato come avviene per le province autonome di Trento e Bolzano). In conclusione: una politica disorganica fatta di inseguimenti delle pressioni locali, strattonata tra l’esigenza di non disturbare le prassi clientelari e parassitarie diffuse in alcune regioni soprattutto meridionali e la domanda di maggiore dinamismo che proveniva da quelle settentrionali.
Regionalismo e Mezzogiorno
In realtà il regionalismo si incrociava con l’irrisolta questione meridionale. Per il Mezzogiorno infatti la permanenza di uno Stato centrale in grado di redistribuire le risorse era considerata di fondamentale importanza per la diffusa convinzione che una maggiore autonomia delle regioni settentrionali avrebbe accentuato le differenze strutturali tra le due parti del Paese, facendo venir meno un principio di solidarietà che (almeno a parole) nessuno voleva rinnegare. Era prevalente nella cultura politica l’idea che il gap esistente tra centro-nord e sud potesse essere ridotto soltanto con un massiccio intervento pubblico dello Stato; una concezione che risaliva a Nitti e che fu anche parzialmente realizzata a partire dalla legge speciale per Napoli del 1885 fino alla Cassa per il Mezzogiorno nel 1952, ultimo intervento organico per superare il deficit infrastrutturale prima che le Regioni se ne appropriassero e imponessere logiche clientelari e spartitorie che hanno fatto perdere ogni razionalità alle politiche meridionalistiche.
L’avvento delle Regioni ha messo invece in risalto le differenze tra le diverse parti del Paese nella capacità delle loro classi dirigenti di gestire in maniera efficiente le risorse pubbliche; basti pensare agli esiti assai diversi della regionalizzazione della sanità pubblica. Per contro quella che doveva essere nelle intenzioni una riforma amministrativa basata sul decentramento di molte competenze si è tradotta in una complicazione burocratica per l’assenza di confini netti tra le competenze regionali e quelle statali, le cosiddette “competenze concorrenti”, le quali oltre a generare un contenzioso giudiziario e costituzionale senza fine, hanno anche consentito la permanenza di una burocrazia romanocentrica molto invasiva che, sovrapponendosi a quella delle Regioni, ha determinato una rete di vincoli e ostacoli che non sono l’ultima delle ragioni della scarsa attrattività per gli investimenti produttivi. A questo stato di cose le Regioni settentrionali hanno sempre reagito chiedendo maggiore autonomia, non soltanto nella destinazione della spesa pubblica, ma anche nella gestione delle entrate fiscali; ed è questo il punto che naturalmente preoccupa le Regioni meridionali, le quali, peraltro, invece di proporre un progetto costituzionale alternativo, si limitano a difendere lo status quo.
Autonomie generalizzate
Non da oggi sostengo che, essendo il problema più di mancanza di una cultura politica che non di scarsità di risorse disponibili, la soluzione, anche nell’interesse dei meridionali, sta nel portare avanti per tutti l’autonomia regionale e non di proseguire sulla strada sbagliata delle differenziazioni che la classe politica si ostina a percorrere da settant’anni a questa parte. Lo Stato centrale si occupi della politica estera, della difesa, della giustizia e (in parte) della sicurezza, della politica economica, del commercio estero. Tutto il resto può essere lasciato alle autonomie regionali (un po’ come accade per i lander tedeschi) con un patto nazionale di solidarietà che destini una parte delle risorse delle Regioni più ricche al superamento delle precarie condizioni infrastrutturali di quelle più povere. A questo scopo si potrebbe costituire un’Agenzia nazionale che faccia capo al governo centrale, controllata dal Parlamento, e dotata di risorse sufficienti per invertire la tendenza alla desertificazione del Mezzogiorno che costituisce un danno per tutto il Paese e per l’intera Europa. Autonomie forti anche nelle regioni meridionali significa tentare una rivoluzione culturale liberale che riproponga il principio di responsabilità nella competizione politica, colpisca a morte le pigrizie assistenziali, favorisca la meritocrazia e la competitività, aumenti la produttività, consenta al Sud di diventare attrattivo anche attraverso forme differenziate delle normative fiscali e sindacali. Si tratta di un’utopia? Sostenerlo vuol dire abbandonarsi alla rassegnazione, alla subordinazione, all’emigrazione dei migliori. La verità è che molti non vogliono cambiare perchè difendono con le unghie le pigrizie e i privilegi che una tradizione ancora borbonica consente nell’ambito di una comoda dipendenza da uno Stato centrale al quale si chiede soltanto di erogare misure assistenziali a pioggia quando la tensione sociale diventa eccessiva.
Franco Chiarenza
12 agosto 2019
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!