Fondamenti della liberal-democrazia nell’era di internet. A proposito delle considerazioni di Pondrano e Scala

Gianmarco Pondrano d’Altavilla, storico e umanista, e Antonio Scala, fisico e ricercatore (ovviamente di formazione scientifica) si sono messi insieme (e già questa è una lodevole eccezione) per analizzare una interessante ricerca che quest’ultimo, insieme a Walter Quattrociocchi, ha condotto in ambito accademico con un campione molto esteso e articolato sugli effetti di polarizzazione indotti dall’uso dei social-network e sulle conseguenze che le cosiddette “echo chambers” – già descritte nel 2001 da Cass Sunstein – possono avere su un corretto funzionamento dei sistemi politici liberal-democratici.
Non riassumo in questa sede le interessanti considerazioni degli autori del saggio (che è stato integralmente pubblicato su Micromega) ma mi limito a suggerire qualche integrazione, ferma restando la mia condivisione con le conclusioni di Pondrano e Scala.

Io credo che vada fatta una netta distinzione tra la realtà presente e i “rimedi” futuri.
Il presente si evolve ormai in termini talmente veloci da avere scavalcato non soltanto i tradizionali passaggi generazionali ma limiti temporali fino a poco tempo fa considerati insuperabili; per tale ragione la dinamica dei cambiamenti sociali e politici influenzati dai nuovi mezzi di comunicazione non può essere affrontata allo stesso modo – soprattutto volendo suggerire qualche rimedio – nel breve e nel lungo periodo.
La “chiave” del futuro infatti, in una visione liberale dell’evoluzione sociale che faccia i conti con le trasformazioni globali del XXI secolo (che riguardano la comunicazione ma non soltanto) sta, a mio avviso, in una parola magica: educazione. Che ovviamente non va intesa nel senso di comportamenti corretti (come viene oggi quasi sempre utilizzata) ma nel suo senso originario e letterale di processi di conoscenza che consentano ad ogni essere umano di comprendere, almeno nei suoi fondamenti, il mondo che lo circonda. Parliamo dunque ovviamente di scuola, aggregazioni sociali spontanee, ricerca di regole etiche condivise fondate sul principio di responsabilità.
La scuola non può continuare a ignorare la nuova realtà di internet; ma non per aggiungere un insegnamento tecnico ai programmi già sovrabbondanti (le nuove generazioni arrivano all’età scolare già conoscendo quanto meno le modalità di utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione) ma le regole etiche che devono accompagnarne l’impiego fondate sul principio di responsabilità. Responsabilità per ciò che si fa ma anche per ciò che si dice o si scrive. Ogni progetto formativo di qualsiasi genere e grado deve insegnare prima di ogni altra nozione quali sono i principi etici che regolano uno stato di diritto perchè su di essi si fonda la cittadinanza. Un concetto valido da almeno due secoli ma che oggi assume una pregnanza ancora maggiore se si vuole che internet cessi di essere – per le democrazie liberali – un problema e diventi invece un’opportunità. Da una corretta definizione della cittadinanza liberale scaturisce quasi naturalmente la capacità del confronto (la cui mancanza è giustamente rilevata nella ricerca citata), il principio socratico del dubbio e della contestabilità di ogni verità rivelata, fosse anche dalla scienza accademica, purchè lo si faccia adottando un metodo di confronto scientifico fondato su dati e fatti dimostrabili. Alla base del rifiuto pregiudiziale (e spesso infondato) che pervade talvolta (non sempre) l’infinito chiacchiericcio universale dei “social” c’è l’ignoranza e la paura generata dalla consapevolezza di non essere in grado di capire e interpretare le complesse realtà che avvolgono l’umanità in una nebbia di dubbi e di diffidenza per tutto ciò che appare come “istituzionale”. E’ una nuova versione del contadino di una volta, analfabeta e ignorante, che diffidava di ogni ragionamento che proveniva dalle “istituzioni” (padroni, preti, funzionari dello Stato) per il timore di esserne raggirato. E magari si fidava di più del consiglio della fattucchiera o dell’amico – spesso ignoranti come lui – ma sentiti come più vicini al proprio mondo di valori e certezze ereditati dalla tradizione. E come allora il primo rimedio fu la scuola elementare oggi bisogna ripensare l’intero processo formativo fondandolo non sui contenuti ma sui metodi di apprendimento.

Ma si tratta di tempi lunghi e alla fine di quel percorso noi contemporanei (io certamente) saremo morti – come diceva Keynes – o quanto meno avremo già subito gli effetti negativi delle polarizzazioni dogmatiche dilagate nelle contrapposizioni politiche, con buona pace di quella dialettica improntata all’ascolto e al confronto che non dovrebbero mai mancare in una società liberale.
Che fare dunque oggi? La mia risposta (del tutto compatibile con le conclusioni di Pondrano e Scala) è che occorre servirsi con maggiore convinzione di quegli stessi strumenti che oggi favoriscono la polarizzazione. Si dovrebbe disegnare una strategia liberale di contrattacco fondata su gruppi diversificati che operino sistematicamente in rete offrendo puntuali contestazioni alla cultura “fake” cercando di penetrare nelle “tribù” delle certezze pregiudiziali, seminando dubbi da opporre alle certezze (evitando le certezze contrapposte) nella speranza che dal ragionamento germogli la curiosità del confronto e con essa l’affermazione di un metodo dialettico che costituisce la principale eredità delle democrazie liberali del secolo scorso. Vedo con piacere che gli autori del saggio citano Stuart Mill che nel suo celebre saggio “On the liberty” fissò in modo inequivocabile la superiorità del metodo liberale nella politica, nella conoscenza, nei comportamenti quotidiani; alcuni amici che si definiscono liberali affermano che Stuart Mill fu più socialista che liberale per avere egli compreso che la riduzione delle diseguaglianze rappresentava (e costituisce tuttora) una condizione di sopravvivenza per gli stati liberali. Ma se per tale convinzione Stuart Mill va considerato un socialista dichiaro di esserlo anch’io.

Sarebbe utile tuttavia anche mettere mano ai meccanismi procedurali della democrazia parlamentare. Non si può non prendere atto che la disintermediazione politica è irreversibile e che – come appunto dimostra la ricerca diretta da Quattrociocchi – la nascita delle aggregazioni sulla rete interattiva non sostituisce la dialettica “ideologica” dei vecchi partiti ma favorisce invece una contrapposizione tra gruppi monolitici e settari, infrangibile al dialogo e al confronto. In tale contesto le procedure parlamentari tradizionali restano inevitabilmente travolte dalla prevalenza di sentimenti irrazionali ed emotivi che generano tifoserie insensate alimentate da verifiche di popolarità registrate puntualmente giorno per giorno, come dimostra anche l’esperienza recente che stiamo vivendo in Italia. E ogni volta che si propongono soluzioni che almeno in parte potrebbero rilegittimare la funzione fondamentale della rappresentanza si contesta che il problema non si risolve con l”ingegneria istituzionale”. Eppure tante degenerazioni nascono anche dalle forzature istituzionali che – soprattutto nella elaborazione delle leggi elettorali – hanno caratterizzato l’azione di forze politiche poco lungimiranti, di destra e di sinistra. Invece io credo che qualcosa si possa fare.
Parlarne diffusamente significherebbe andare fuori tema; un vizio che mio vecchio professore di italiano nelle medie mi rimproverava sempre. Ma in conclusione mi permetto di suggerire uno studio sulle conseguenze che potrebbero avere varie forme di democrazia deliberativa (ampiamente trattate dalla pubblicistica soprattutto americana) in un contesto che vede la prevalenza di internet su ogni altro strumento di formazione dell’opinione pubblica. Senza cadere nelle utopie della “democrazia diretta” alcuni correttivi al principio del mandato irrevocabile potrebbero probabilmente essere adottati – soprattutto nell’ambito di un sistema elettorale uninominale – senza travolgere i fondamenti della costruzione della democrazia rappresentativa. Forse sarebbe il caso di parlarne evitando arroccamenti tanto insensati quanto quelli di chi si propone di ridurre il parlamento a “un’aula sorda e grigia” chiamata soltanto a ratificare le decisioni dei partiti di governo. Dejà vu.

 

Franco Chiarenza
10 Gennaio 2019

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