Franco Chiarenza: “Dopo Draghi nulla sarà come prima”
Il sistema partitico è in crisi. Se si devono fare delle riforme istituzionali, occorre farle adesso. Ma è necessario anche organizzare un’offerta politica per chi non si riconosce né in questa destra né in questa sinistra.
Su internet è Il Liberale Qualunque, che è il nome del suo blog di analisi e commenti. Nella vita reale (ma anche internet ormai è vita reale) è Franco Chiarenza, classe 1934: un passato da giornalista Rai e docente di storia della comunicazione, un presente da acuto osservatore della realtà italiana e non solo. Lo abbiamo intervistato per I Liberali.
Come vede un “liberale qualunque” l’Italia del 2021?
Questa è l’Italia all’insegna di Draghi: lo è stata in questi ultimi mesi del 2021 e lo sarà presumibilmente per tutto il 2022. Ma il discorso va oltre la sua persona, che imprevedibilmente continua a riscuotere la fiducia della maggior parte degli italiani. Il problema è istituzionale: le istituzioni repubblicane, per come sono arrivate fino ad oggi, non sono adeguate a governare delle realtà complesse e difficili come quelle che ci troviamo di fronte adesso e ancor più domani. Questo, secondo me, è il nodo che si deve in qualche modo sciogliere; anche per evitare che venga risolto in modo traumatico dagli eventi.
Cioè, bisogna affrettarsi a fare le riforme istituzionali prima che sia troppo tardi?
Ho letto una cosa che ha scritto Enrico Cisnetto e che condivido. Se si devono fare delle riforme istituzionali – senza le quali non si riesce a sbloccare la situazione – occorre farle adesso. Non bisogna aspettare che si crei una situazione di ingovernabilità. Quando si cambiano le strutture istituzionali, cambia tutto, anche il modo di votare della gente. Non è vero che la cosiddetta ingegneria istituzionale non serve a nulla. Ne abbiamo la dimostrazione se pensiamo a come è cambiato il governo degli enti locali dopo che è stata introdotta l’elezione diretta del sindaco.
A tuo avviso il governo Draghi è una parentesi oppure può essere l’inizio di una nuova fase della nostra vita politica?
Penso che nulla dopo Draghi sarà come prima, proprio perché è stata messa in luce la fragilità del sistema partitico. Il problema è esattamente quello della riforma istituzionale, a cominciare dai poteri del capo dello Stato. È vero che i poteri presidenziali sono come una fisarmonica, tutto dipende da chi occupa il Quirinale, ma, come dice Ainis, anche la fisarmonica ha dei limiti oltre i quali non può andare. Per questo bisogna mettere mano a una vera riforma costituzionale che, insieme ad altre cose, ridisegni i poteri del presidente. Siamo di fronte ad una svolta importante.
Secondo molti commentatori, alle ultime elezioni amministrative ha vinto chi si è presentato come più ragionevole e moderato. Il messaggio è che il paese è stanco di inutili baruffe? È ancora vero, persino nell’era del populismo, che si vince al centro?
A mio giudizio, le amministrative vanno lette in un altro modo. Si conferma un dato, che non vale solo per il nostro paese: l’elettorato più consapevole e informato, quindi meno sensibile al richiamo del populismo, è concentrato nelle città grandi e medio-grandi. La forza del populismo, basato sugli slogan e sulle approssimazioni, viene da quell’immensa periferia che è costituita dai piccoli centri. Lo dimostra se non altro il fatto che la destra non riesce nelle grandi città nemmeno a trovare dei candidati credibili.
Dicevi che questo non vale solo per il nostro paese…
Sì, nel senso che anche in altri paesi europei c’è una spaccatura profonda tra l’elettorato delle grandi città e quello arroccato nelle piccole realtà locali. Vale anche per i paesi dell’Est. Non a caso, nelle grandi città polacche o ungheresi governano partiti che sono all’opposizione nel parlamento nazionale. Vale per Varsavia e vale per Budapest. Abbiamo avuto in questi giorni la sorpresa della vittoria dell’opposizione di centrodestra contro il governo sovranista della Repubblica Ceca: e già prima a Praga c’era un sindaco che era su posizioni diverse da quelle del governo centrale. C’è questa spaccatura profonda, che è soprattutto culturale ma si riflette anche nelle scelte politiche.
Tornando all’Italia, parlavi dei candidati poco credibili della destra. Da dove nasce questa inadeguatezza?
La debolezza della destra, da quando è venuta meno l’egemonia democristiana, è che riesce ad avere dei leader più o meno carismatici ma non una classe dirigente in grado di governare realmente il paese. La Lega fa eccezione, ma solo in parte: nel nord Italia – e quindi dove sicuramente è più forte l’asse Giorgetti-Zaia – ha un radicamento territoriale e un’esperienza di governo che ormai risale a decenni fa, e questo fa la differenza con Fratelli d’Italia. Nel centro sud è vero il contrario; il partito di Giorgia Meloni ha ereditato dall’esperienza dei quadri di Alleanza Nazionale una presenza articolata in grado di assorbire i sentimenti populisti man mano che emergono.
Perché allora hanno perso a Milano e in altri centri importanti?
Perché una parte dell’elettorato della Lega è disorientata e si è rifugiata nell’astensione. D’altronde all’interno della Lega si sta consumando una profonda spaccatura tra la vecchia Lega Nord, che ha imposto alla leadership di appoggiare il governo Draghi (se Salvini fosse stato libero di scegliere avrebbe preferito probabilmente attestarsi su una linea simile a quella della Meloni) e la nuova Lega nazionale rifondata nel 2020. C’è nella Lega una dialettica interna molto vivace che un unanimismo di facciata non riesce a nascondere. Non sappiamo come andrà a finire, ma non ha molta importanza. Se anche vincerà Salvini – che ha i numeri per prevalere – resterebbe comunque una contraddizione interna tra posizioni inconciliabili destinata prima o poi ad esplodere.
Vale anche per le alleanze europee del suo partito?
Sì. Salvini preferisce essere il primo in un’alleanza sovranista piuttosto che l’ultimo in un partito popolare europeo dove verrebbe emarginato, come a suo tempo lo è stato Orbán; la sua riluttanza ad accogliere la proposta di Giorgetti è quindi comprensibile, ma anche nel parlamento europeo quella parte della Lega di governo che oggi appoggia fortemente Draghi non può riconoscersi in una coalizione di sovranisti.
Le posizioni della cosiddetta Lega moderata resteranno in minoranza?
Giorgetti sperava che una Lega che si riportasse verso delle posizioni moderate potesse raccogliere l’eredità di Berlusconi, almeno per quanto riguarda il centrodestra. Salvini non ci vuole stare e anzi teme questa prospettiva, perché sa che non sarebbe lui l’uomo in grado di condurre la Lega in quella direzione. Salvini ha fiuto: se non ce l’avesse, non sarebbe lì. Lui è l’uomo del populismo, della Lega di lotta, non di governo. E quindi farà di tutto affinché il progetto di Giorgetti non prevalga.
Come si risolverà, a tuo avviso, il gioco del Quirinale? Ultimamente si è fatto anche il nome di Giuliano Amato. Non è la prima volta che si parla di Amato come presidente della Repubblica.
Oggi Giuliano Amato ha maggiori possibilità che in passato, quando il suo nome veniva inesorabilmente associato a quello di Craxi. La damnatio memoriae su Craxi, sancita da una parte importante dell’opinione pubblica, coinvolse anche lui: in politica, molto spesso, le impressioni e i falsi ricordi contano più della realtà. Oggi tutto questo non esiste più, e quindi Amato potrebbe anche farcela; sarebbe un’ottima soluzione perché si tratta di un uomo di grande intelligenza ed esperienza e il ticket con Draghi funzionerebbe molto bene.
Si è parlato anche del ministro Cartabia. Ha delle possibilità?
Secondo me, la Cartabia ha delle carte da giocare: anche perché è donna, e oggi questo conta. C’è poi l’ipotesi che Mattarella, sia pure all’ultimo momento, accetti una riconferma, con l’intenzione di dimettersi quando lo riterrà opportuno: sicuramente non prima del 2023, in modo da consentire a Draghi di completare il suo percorso.
In questo scenario, si andrebbe a elezioni alla scadenza della legislatura. E potrebbero anche formarsi le condizioni per un nuovo governo Draghi, sostenuto dal parlamento rinnovato. Ma la domanda è: può reggere una soluzione politica di questo tipo senza un partito di Draghi o comunque senza una coalizione di forze che chiaramente ed esplicitamente, durante la campagna elettorale, si richiamino all’agenda Draghi?
Il problema, come sempre, è quello del centro. Esiste una vasta fascia di elettorato che non si riconosce negli estremismi di Salvini e men che meno in quelli della Meloni e che d’altra parte diffida profondamente del Partito democratico. E ne diffida, in buona sostanza, perché è fallito il tentativo di Veltroni di costruire attraverso il Pd uno schieramento di centro-sinistra, e non di sinistra-centro. Il partito democratico americano – che era un po’ il suo riferimento – parte dal centro e arriva poi a comprendere tutte le frange di sinistra, ma nel senso che esse diventano complementari rispetto alla centralità del partito (centralità sociale, economica ecc.). Il partito democratico italiano non è riuscito ad essere questo. Ci ha provato con Renzi (e non a caso aveva raccolto il 40%). È andata a finire come tutti sappiamo e al fallimento del suo progetto ha contribuito lui stesso con atteggiamenti arroganti, personalismi, una presunzione smisurata. Ma non era sbagliata l’idea su cui si basava il suo progetto: trasformare un partito di sinistra aperto al centro in partito di centro che comprende la sinistra.
Come vedi il progetto di Enrico Letta?
Quando ha preso in mano il Pd, il primo problema che si è posto Letta non è stato quello di recuperare al centro, bensì un’identità forte di sinistra su cui poi il centro fatalmente – non avendo altre opzioni possibili – si sarebbe aggregato. Anche questo è stato un errore di calcolo gravissimo, perché c’è un elettorato di centro che non si riconosce nella politica un po’ sloganistica e un po’ demagogica di Letta e cerca uno spazio che nell’attuale composizione parlamentare non trova. E non trovandolo si rifugia nell’astensionismo andando ad aumentare l’esercito dei non votanti che ha ormai raggiunto e talvolta superato la metà dell’elettorato.
Però oggi il centro sembra piuttosto affollato. Più leader che voti?
Eh, sì. Da destra a sinistra è tutto un fiorire di gente che si auto-promuove per guidare una forza di centro. È un affollamento di partitini e movimenti che non superano l’1 o il 2 percento ciascuno. E che quindi non rappresentano mai una massa critica in grado di rappresentare davvero un momento di aggregazione che possa distinguersi rispetto alla destra e alla sinistra, che sia in grado di far propria la strategia di Draghi come punto di riferimento sia di contenuti che di metodo di governo. Di tutti questi, a me pare che il movimento di Calenda sia quello che ha le carte migliori da giocare.
Anche alla luce del risultato romano…
Ha avuto il coraggio di correre da solo nelle elezioni romane contro i collaudati apparati di destra e di sinistra ottenendo un risultato di tutto rispetto. È importante capire se Calenda riuscirà a creare delle aggregazioni in grado di renderlo un soggetto politico di dimensioni tali da essere determinante nel prossimo parlamento. Vale comunque anche in politica la fondamentale legge che regola il mercato: dove c’è domanda si crea l’offerta mentre non è vero il contrario. La domanda di un centro liberal-democratico c’è, l’offerta è scarsa e ancora poco convincente.
Non abbiamo parlato ancora dei Cinque Stelle. Quale sarà il loro destino politico?
Il movimento Cinque Stelle, col suo elettorato potenziale del 15%, costituisce un elemento indispensabile della strategia di Letta per rovesciare i rapporti di forza nel futuro parlamento consentendo al centrosinistra a guida Pd di arrivare a raggiungere la maggioranza parlamentare. I Cinque Stelle devono scegliere tra la dissoluzione in uno schieramento socialista democratico (italiano ed europeo) oppure l’occupazione di uno spazio elettorale ambientalista oggi poco e male rappresentato. Conte, per la sua storia e la capacità di mediazione che ha dimostrato, è la persona adatta per facilitare la riuscita del progetto di Letta ma non per guidare una rifondazione del movimento che lo porti a sintonizzarsi con i partiti verdi sempre più influenti nello scenario europeo. Sarà una scelta dolorosa nella quale è probabile che Grillo giocherà ancora un ruolo determinante.
In che modo?
Secondo me, il futuro dei Cinque Stelle è sempre nelle mani del suo fondatore. Il suo attuale silenzio potrebbe preludere alla tempesta; non credo affatto che Grillo si sia ritirato dalla scena. E non credo nemmeno che si sia rassegnato all’idea che il movimento Cinque Stelle si trasformi in una sorta di partito di complemento del partito democratico, sostanzialmente integrato in una strategia unitaria di centrosinistra. Io non credo affatto che la base dei militanti pentastellati sia su queste posizioni e penso perciò che Grillo stia aspettando l’elezione del presidente della Repubblica per uscire di nuovo allo scoperto e suscitare nuovi conflitti all’interno del movimento.
Intervista a cura di Saro Freni
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