Hong Kong

I primi europei che misero piede nel “porto profumato” (questa la traduzione letterale di Hong Kong) furono i portoghesi nel XVI secolo; ma ne furono cacciati. Due secoli dopo si affacciarono gli inglesi tramite la leggendaria Compagnia delle Indie e questa volta ci restarono. Anzi nel 1841 l’isola (che corrisponde alla parte centrale dell’attuale megalopoli) fu occupata militarmente e annessa come colonia alla Gran Bretagna, Negli anni successivi la colonia si allargò tramite concessioni del regime imperiale indebolito dalle “guerre dell’oppio” fino a raggiungere le attuali dimensioni: 1.100 kmq in cui si stipano sette milioni e mezzo di abitanti.
Il modello politico ed economico di Hong Kong, fondato su un innesto della cultura giuridica anglosassone su un contesto storicamente e socialmente molto diverso da quello dei colonizzatori, ha avuto un successo incredibile; pure quando i rapporti con la Cina comunista erano inesistenti (anche a causa dell’economia rigidamente pianificata imposta dal partito comunista di Mao Zedong) Hong Kong aveva sviluppato un’economia fiorente e un tenore di vita molto superiore a quello cinese. Quando nel 1997 la Gran Bretagna decise di restituire la colonia alla Cina molte furono le preoccupazioni; ma il governo di Pechino accettò di mantenere lo status di Hong Kong nella sua specificità facendone una “regione amministrativa speciale” dotata di piena autonomia politica, economica e giuridica. La Hong Kong Basic Law, sottoscritta in quella occasione, consentiva elezioni libere, libertà di stampa, il mantenimento del sistema giuridico modellato sulla Common Law britannica; il controllo politico del governo di Pechino si limitava alla politica estera, militare e a un sistema di nomina del governatore (Chief Executive) che di fatto garantisce ai cinesi un potere di veto. Gli scettici pensavano che non sarebbe durato a lungo e che rapidamente il partito comunista avrebbe assunto ogni potere omologando l’ex-colonia britannica al resto del continente. Ma ebbero torto, almeno in parte, perchè la questione è molto più complicata e la “rivoluzione degli ombrelli” scoppiata per contestare i tentativi del governo di Pechino di allargare la sua influenza dimostra tutta la fragilità del compromesso del 1997.

Uno stato due sistemi
L’accordo con gli inglesi era stato possibile perchè nel frattempo in Cina il regime aveva cambiato profondamente aspetto (e sostanza) sotto l’impulso delle riforme economiche di Deng Xiaoping, che avevano introdotto il sistema capitalistico riducendo fortemente la pianificazione socialista che, in coerenza coi principi marxisti, Mao Zedong aveva imposto dopo avere assunto il potere nel 1949. Per rendere possibile la riunificazione dei territori perduti dove ormai si erano sviluppati con successo modelli politici ed economici assai diversi da quelli della madrepatria, Deng aveva elaborato la teoria conosciuta come “Uno Stato due sistemi”. In sostanza Deng proponeva in cambio della riunificazione con Hong Kong, Macao (ex colonia portoghese) ma soprattutto con Taiwan (la cui sostanziale indipendenza era protetta dagli Stati Uniti) il riconoscimento della loro peculiarità politica, economica e giuridica. Il problema però era sempre quello delle garanzie; posto che Pechino (anche per un comprensibile orgoglio nazionale) rifiutava qualsiasi controllo internazionale nulla assicurava che un regime autoritario, il cui gruppo dirigente si rinnovava sostanzialmente per cooptazione, potesse improvvisamente cambiare orientamento vanificando le autonomie concesse. Il patto sottoscritto all’atto del rientro di Hong Kong nella sovranità cinese rappresentava quindi qualcosa di più di un semplice trattato, era la prova che il sistema “uno stato due sistemi” poteva funzionare e che il governo centrale cinese lo avrebbe rispettato. Un intervento repressivo a Hong Kong, come quello che si profila dopo mesi di disordini, farebbe perdere al regime (e al suo attuale leader Xi Jinping) ogni credibilità e dimostrerebbe l’intrinseca fragilità della teoria di Deng. Senza contare il danno economico prodotto dalla probabile fuga da Hong Kong di ingenti capitali internazionali e il ridimensionamento di quella che oggi è una piazza finanziaria tra le più importanti del mondo.

Taiwan
La grande isola (36.000 kmq, diecimila in più della Sicilia, tanto per intenderci) ha quasi 25 milioni di abitanti, un’economia fiorente, un sistema politico democratico. In linea di principio si riconosce parte integrante della Cina (anche perchè molti suoi abitanti discendono dalle truppe sconfitte di Ciang-Kaiscek che vi si rifugiarono nel 1947) ma non intende sottomettersi al regime comunista totalitario di Pechino. I tentativi cinesi di occuparla con la forza sono sempre falliti un po’ perchè Taiwan dispone di un armamento difensivo di tutto rispetto ma soprattutto per la protezione americana sancita da una esplicita e solenne dichiarazione del Congresso. Anche per i suoi abitanti dunque ciò che avviene a Hong Kong rappresenta la cartina di tornasole della credibilità della teoria di Deng Xiaoping; esiste infatti, e si fa sentire, un movimento radicato nell’opinione pubblica disponibile ad aprire trattative col governo cinese per togliere Taiwan dal relativo isolamento internazionale a cui la Cina l’ha costretta. Una stretta autoritaria sul “porto profumato” al di là del mare scoraggerebbe forse in maniera definitiva una possibile riunificazione con la Cina dell’”isola bella” (chiamata Formosa dagli spagnoli quando vi approdarono nella prima metà del secolo XVII).

Franco Chiarenza
26 agosto 2019

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