I sessanta giorni di Draghi
E’ presto per fare un primo credibile bilancio? Forse sì, ma considerati i tempi stretti di una politica che deve fare i conti con tante emergenze si può tentare una prima riflessione soprattutto per capire cosa è cambiato rispetto al governo precedente.
Emerge innanzi tutto una diversa modalità di esercitare la funzione di capo del Governo. Mario Draghi ascolta tutti rispettosamente ma poi decide sulle cose essenziali assumendosene la responsabilità e soprattutto facendo attenzione che le inevitabili discrasie connesse alla natura stessa di un governo tanto composito vengano rapidamente ricomposte. Per ora il metodo ha funzionato abbastanza bene e le insofferenze di una parte della maggioranza (soprattutto Salvini) sono state tenute fuori dalla porta. La prova del nove si avrà quando si conoscerà in dettaglio il Recovery plan da sottoporre a Bruxelles; il presidente ha concentrato il potere reale di scelta in poche mani di tecnici di sua fiducia estromettendone di fatto i partiti, ma in sede parlamentare le tentazioni assistenziali pre-elettorali potrebbero riemergere. Draghi si è mostrato però molto duttile sul condono fiscale, ed è quello probabilmente il terreno su cui sarà possibile negoziare con i partiti ulteriori margini di flessibilità.
Sul contrasto alla pandemia la svolta impressa da Draghi è stata netta: superare le dispute sulle precedenze nella somministrazione dei vaccini e concentrare gli sforzi nelle forniture, entrando anche in polemica con la Commissione dell’UE per come è stata gestita la campagna acquisti. Tanti vaccini da distribuire e somministrare ovunque e comunque coinvolgendo soggetti privati (farmacie, ambulatori, studi dentistici, ecc.) inspiegabilmente rimasti esclusi dai piani precedenti. Anche i rapporti con le Regioni hanno subito una svolta; Draghi ha rivendicato allo Stato ogni potere decisionale che vada oltre l’ordinaria amministrazione.
Sui problemi della giustizia che laceravano il governo Conte la scelta di Marta Cartabia al ministero di via Arenula si è dimostrata appropriata e si va verso una soluzione “europea” che di fatto supera i contrasti sulla prescrizione che agitavano da tempo i rapporti tra PD e Cinque Stelle. Si spera adesso che si possa andare oltre mettendo a fuoco l’indispensabile riforma del CSM che, dopo le rivelazioni di Palamara, ha perso ogni credibilità. Servirebbe di più, soprattutto nella velocizzazione della giustizia civile, ma intanto bisogna partire da una radicale riforma nella composizione del CSM facendo entrare aria fresca nel palazzo dei Marescialli.
Novità importanti vanno registrate nella politica estera la cui direzione, come era prevedibile, è rimasta nelle mani di palazzo Chigi, almeno per le questioni essenziali. Draghi ha imposto una linea fortemente filo-atlantica, facilitato anche dalla svolta impressa da Biden alla politica estera americana. In Europa, in attesa degli esiti elettorali in Germania e in Francia, Draghi ha intanto rafforzato una stretta cooperazione con la Francia in modo da trasformare, almeno in prospettiva, l’asse Parigi – Berlino in un triangolo che comprenda anche Roma. Non è una strada facile per il contenzioso che si è accumulato con la Francia dal respingimento degli immigrati in poi, ma è l’unica che al momento si può percorrere. E che si tratti della giusta direzione lo dimostra il deciso sostegno al nuovo governo libico che Draghi ha voluto condividere con Francia e Germania superando la logica conflittuale che in passato ha contribuito a rendere instabile la situazione politica in Libia; un monito anche per Turchia ed Egitto perchè non contino in futuro sulle divisioni europee. Il duro attacco di Draghi ad Erdogan si muove nel solco di quello sferrato da Biden a Putin: sui diritti umani non si fanno sconti, anche se le convenienze economiche interverranno inevitabilmente a raffreddare i toni.
E, a proposito di immigrati clandestini, qualcuno ha notato come l’opera silenziosa ed efficace della ministra Lamorgese abbia dato risultati migliori delle roboanti declamazioni di Salvini quando dal Viminale brandiva in una mano la spada e nell’altra il rosario?
Tutto bene, dunque?
Le ombre ci sono e se ne vedono le tracce. Cominciando proprio dalle inquietudini di Salvini che disperatamente cerca visibilità in un contesto che non è nelle sue corde. Il leader della Lega deve affrontare due pericoli: quello interno al suo partito dove l’asse Giorgetti – Zaia sembra configurarsi sempre più come un’alternativa moderata, e quello esterno della Meloni, la quale, forte anche della sua posizione di “opposizione costruttiva” che Draghi abilmente incoraggia, mostra ancora una volta capacità tattiche che il suo concorrente di destra non possiede. Del suo disagio è prova evidente il goffo tentativo di creare un comune fronte anti-europeo con i leader di Ungheria e Polonia, destinato a infrangersi con interessi molto divergenti e con il nodo dei rapporti con la Russia di Putin, il cui legame con Salvini non è visto di buon occhio nell’Europa orientale.
Il punto di svolta per capire quanto potrà durare Draghi è rappresentato dalle elezioni amministrative di ottobre, soprattutto a Roma dove la destra gioca la sua carta decisiva. E’ qui che Letta dovrà dimostrare le sue capacità politiche costringendo Zingaretti a presentare la sua candidatura. Soltanto così sarà possibile fare ritirare dalla corsa la sindaca uscente Virginia Raggi e il suo accanito oppositore Carlo Calenda, e avere quindi qualche speranza di vincere al ballottaggio con il candidato della destra.
Franco Chiarenza
12 aprile 2021
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