In occasione del 75° anniversario della liberazione di Milano dalla dominazione nazi-fascista, anche a chiarimento di alcune strumentalizzazioni del mio pensiero, ripropongo quanto ho scritto in proposito ne “Il Liberale Qualunque” e che, a distanza di anni, pur avendo preso atto dei tanti modi di interpretare la Resistenza, non modificherei in alcun modo.

Antifascismo

Dopo la caduta del fascismo nasce il concetto di anti-fascismo, inteso come fondamento di convergenza tra diverse posizioni ideologiche da porre alla base del nuovo patto di convivenza nazionale.

Finita la guerra e sconfitto il fascismo, il concetto di “antifascismo”, per i profondi equivoci e le contraddizioni che in esso si riscontravano, non poteva più bastare. L’antifascismo era costituito da due orientamenti fatalmente destinati a scontrarsi: quello democratico e liberale (comprendente anche la maggior parte dei cattolici e una quota consistente di socialisti) che puntava alla costruzione di uno stato che rappresentasse un allargamento di quello risorgimentale nel segno della continuità e della difesa del pluralismo politico, e l’altro – fatto proprio da comunisti e una parte dei socialisti – distante dalla concezione di democrazia liberale e che – come scrive Giovanni Orsina – comportava “una trasformazione profonda della cultura, dell’economia, della società, della politica italiane, identificando come proprio avversario – e perciò come ‘fascista’ – chiunque a quella trasformazione si opponga, pure se fascista in senso stretto non era stato mai, e anzi al fascismo storico si è magari opposto”.

Lotta partigiana

Giorgio Napolitano, quando era presidente della Repubblica, ha sostenuto che “la libertà su cui poggiano le nostre istituzioni, la libertà di cui gode nel nostro Paese ogni forza politica, sociale e culturale di ogni cittadino viene da quei lunghi venti mesi di lotta partigiana e di movimento di liberazione”.

Vorrei che fosse così, ma così non fu. La libertà su cui poggiano le nostre istituzioni viene dagli inglesi e dagli americani che occuparono il nostro Paese liberandolo dai nazisti e imponendo, anche a chi non li condivideva, i principi liberali e democratici su cui si è costituita la Repubblica. Se al loro posto ci fossero stati i russi dubito fortemente dei destini della nostra democrazia, come dimostra l’esperienza dei paesi dell’Europa orientale, e la stessa vicenda di Trieste e dell’Istria. Dove, non dimentichiamolo, nei giorni terribili dell’occupazione da parte delle truppe jugoslave nel 1945, i comunisti italiani si schierarono con la dittatura comunista di Tito contro i diritti di auto-determinazione dei triestini e degli istriani e contro gli interessi nazionali del proprio Paese dove si stava faticosamente costruendo una democrazia pluralista; pro memoria per i tanti che sostengono ancora oggi che i comunisti italiani erano “diversi” e autonomi rispetto agli interessi del blocco sovietico (che allora comprendeva ancora la Jugoslavia). Giorgio Napolitano in quegli anni era già un importante dirigente del partito comunista.

Resistenza

Sulla effettiva valenza storica e morale della Resistenza, sull’influenza che ha avuto nella nascita della Repubblica, si discute da sempre. I difensori della Resistenza “dura e pura” sembrano arroccati intorno al mito resistenziale, un po’ come avvenne dopo l’unificazione per il mito risorgimentale.

A scanso di equivoci va premesso che la Resistenza è stata innanzi tutto una lotta in nome della libertà contro i nazisti e i loro alleati fascisti condotta da formazioni partigiane dopo l’8 settembre 1943, quando con l’armistizio l’Italia ruppe la sua alleanza con la Germania. Nessun dubbio può sussistere per un liberale su quale fosse non soltanto la parte giusta (dal punto di vista ideologico) ma anche quella più legittima (sul piano istituzionale). Il fatto che i comunisti, dopo la fine della guerra, abbiano tentato di impadronirsi della memoria della Resistenza accreditando l’immagine di un movimento rivoluzionario composto soprattutto da partigiani comunisti, affiancati solo marginalmente da cattolici e laici socialisti, nulla toglie al fatto incontestabile che furono invece numerose le brigate indipendenti di ex-militari e di monarchici (importanti soprattutto in Piemonte); gli agiografi “resistenziali” si sono dilungati sulle figure di Valiani, Parri, Pertini, Moscatelli, Bentivegna, Longo, ma raramente hanno citato, per esempio, il generale Alfredo Pizzoni, che pure fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, personaggio di grande rigore morale, non inquadrabile in alcun partito, il cui prestigio fu indispensabile per i rapporti con gli anglo americani (che, non dimentichiamo, sostennero la Resistenza con la distribuzione di armi e finanziamenti pari a un miliardo e mezzo di lire dell’epoca).
Vi fu anche una Resistenza liberale (basti per tutti il nome di Edgardo Sogno). E fu sostanzialmente liberale la posizione di quanti, senza settarismi ideologici, si impegnarono anche militarmente nel movimento partigiano al fine prevalente di cacciare i tedeschi e sconfiggere i loro alleati fascisti.
Oggi finalmente il passaggio generazionale consente di rimuovere il manto protettivo con cui i comunisti avvolsero l’unica Resistenza a cui parteciparono. Riemergono altre eroiche resistenze: cominciando da quella di Roma quando all’indomani dell’armistizio studenti e militari cercarono di impedire l’occupazione della Capitale da parte dei tedeschi, continuando con Cefalonia, dove i militari italiani rifiutarono di arrendersi ai tedeschi e furono massacrati, ovvero quella della corazzata “Roma” affondata dai tedeschi dopo il rifiuto dell’ammiraglio Carlo Bergamini di consegnare la nave, e quella dei soldati italiani che difesero dai tedeschi l’isola di Lero, e, in Italia, la resistenza dei militari italiani in Sardegna, la creazione del Corpo italiano di liberazione che affiancò nel centro-sud le truppe inglesi e americane, e molti altri episodi di grande spessore ideale (con risvolti militari non secondari) che vengono spesso trascurati dalle rievocazioni mediatiche. Non bisogna dimenticare, in questo contesto, il dramma spesso eroico vissuto da oltre 600.000 militari italiani rinchiusi dai tedeschi nei campi di concentramento dopo l’8 settembre, i due terzi dei quali rifiutarono di arruolarsi nelle formazioni fasciste della R.S.I. (malgrado ciò consentisse il loro rimpatrio) “resistendo” in condizioni terribili nei campi di prigionia per restare fedeli al giuramento al re.
Purtroppo di questo forte impegno non si tenne alcun conto nella conferenza di pace di Parigi che impose condizioni durissime al nostro Paese; già nell’aprile 1944 “Risorgimento Liberale” aveva ammonito che se l’Italia doveva essere considerata “una nazione vinta cui altro dovere non incombe se non quello di accettare, senza discutere, la legge del vincitore non si vedrebbe per quale ragione dovrebbe essa sacrificare le vite dei suoi figli e le sue ultime risorse finanziarie.”. Ma fu proprio ciò che avvenne, in piena violazione delle promesse che Eisenhower aveva fatto a Badoglio in occasione della firma dell’armistizio. Tuttavia quando alla conferenza di pace di Versailles De Gasperi finì di parlare in un’aula ostile e prevenuta, l’unico che si alzò e andò verso di lui per stringergli la mano fu il rappresentante degli Stati Uniti d’America.

La Resistenza si rese anche responsabile di delitti ingiustificati che furono perpetrati in suo nome; Giampaolo Pansa, pur provenendo da una cultura politica di sinistra, ha raccolto in proposito fatti e documenti impressionanti.

Giampaolo Pansa ha avuto perfettamente ragione a riesumare vicende drammatiche (ventimila vittime) tanto più gravi perché avvenute dopo la cessazione della guerra e la resa dei tedeschi e dei loro alleati fascisti “repubblichini”. Non solo per un doveroso omaggio alla verità storica, ma anche perché esse rappresentano la dimostrazione che una parte non irrilevante dei partigiani, più o meno consapevolmente, non considerarono la Resistenza soltanto un conflitto contro fascisti e tedeschi, ma soprattutto un avvio decisivo a una rivoluzione che avrebbe dovuto instaurare in Italia un regime comunista ispirato al modello leninista sovietico (come avvenne di fatto nel giro di pochi anni in tutti i paesi dell’Europa dell’est liberati dalle truppe sovietiche). Molti degli omicidi compiuti dai partigiani rossi furono diretti non tanto contro i fascisti (il che rappresenterebbe una vendetta deprecabile ma comprensibile) ma soprattutto contro i non-comunisti – anche partigiani – visti come potenziali oppositori degli assetti di potere che si intendeva realizzare. D’altronde il massacro della brigata partigiana Osoppo da parte dei comunisti nel 1945 allo scopo di favorire l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia aveva già dato un’indicazione inequivocabile su quali fossero le intenzioni della Resistenza rossa.
Emblematico il caso di Dante Facio, valoroso comandante partigiano, fucilato dai compagni comunisti perché non allineato alle loro posizioni ideologiche; nel 1963 gli fu conferita una medaglia d’argento alla memoria con la motivazione che era stato ucciso dai nazi-fascisti, e solo dopo molti anni emerse la verità. Quanti furono i “casi Facio”?
Naturalmente gli ex-comunisti respingono questa interpretazione storica sostenendo la loro lealtà democratica e pluralista sin dalle origini; essi ritengono perciò che i fatti denunciati siano stati soltanto “deplorevoli eccessi” da attribuire a frange armate incontrollabili. Tanto più che all’epoca dei fatti le truppe inglesi e americane occupavano il Paese, il che rendeva quanto meno improbabile una soluzione politica rivoluzionaria filo-sovietica. Eppure avvenne proprio che una parte importante del PCI., quella più radicata nella Resistenza, interpretò la cosiddetta svolta di Salerno compiuta da Togliatti nel 1944, quando il leader comunista sbarcato in Italia dall’Unione sovietica riconobbe la legittimità del governo monarchico di Badoglio, come un momento tattico (e anche così digerito con difficoltà) a cui sarebbe inevitabilmente seguita una rivoluzione socialista (nel senso leninista del termine). Togliatti invece sapeva benissimo, come risulta dagli archivi sovietici e del PCI, che si trattava di una presa d’atto definitiva perché, nella situazione internazionale venutasi a creare dopo la guerra, la delimitazione delle rispettive zone d’influenza era divenuta irreversibile. Secondo Stalin (e Togliatti) la strategia comunista nei paesi occidentali doveva seguire percorsi diversi da quelli che poterono essere utilizzati nell’Europa dell’est. Bisognava accettare le regole pluralistiche della “democrazia formale” e sconfiggere la borghesia capitalistica sul terreno del libero confronto elettorale, puntando sulle difficoltà economiche e sulle condizioni precarie della classe lavoratrice, abbastanza evidenti soprattutto in Italia e in Francia.
Ma per far comprendere questa strategia non rivoluzionaria alla base comunista, specialmente nelle regioni rosse dell’Emilia Romagna, Toscana e Umbria, ci volle tempo e pazienza, e il processo di assimilazione del metodo democratico non fu esente da frustrazioni che dovevano riflettersi nelle motivazioni del terrorismo rosso della generazione successiva. Era, almeno in parte, la rivoluzione mancata dei loro padri nel 1945 quella che i giovani brigatisti inseguivano negli anni Settanta.

 

F. Chiarenza, Il Liberale Qualunque, pp. 339-348