Vent’anni fa moriva ad Hammamet in Tunisia, dove si era rifugiato dopo la condanna inflitta dalla magistratura milanese per corruzione e finanziamento illecito del suo partito, il controverso leader socialista Bettino Craxi. L’anniversario è stato l’occasione per riaprire il dibattito sul personaggio che, in ogni caso, è stato un protagonista indiscusso dell’ultimo periodo della prima repubblica.
Prescindendo dalle motivazioni della condanna giudiziaria è necessario riflettere sul suo progetto politico, sulle reali circostanze che hanno determinato la sua caduta, sulle conseguenze della sua scomparsa dalla scena politica. Il mio punto di vista – quello di un liberale qualunque – era già chiaro quando ne scrissi nell’omonimo libro e qui di seguito lo ripropongo, con l’avvertenza di leggere tutto il capitolo relativo alla prima repubblica, necessario per inquadrare la personalità di Craxi nell’ultima grande contrapposizione progettuale e ideologica della nostra storia recente.

Le generazioni future sentiranno spesso il nome di Bettino Craxi nelle rievocazioni della prima repubblica italiana: come un lestofante che ha governato per un breve periodo l’Italia per alcuni, come un geniale statista che ha difeso l’onore dell’Italia, travolto da una congiura di veleni giudiziari che l’hanno costretto all’esilio, per altri. Quali furono i suoi rapporti con i liberali e con il liberalismo?

Per i liberali Craxi ha rappresentato un forte punto di riferimento per alcune importanti ragioni:

  1. Egli ha rappresentato dal 1976 al 1990 la prima vera svolta social-democratica del partito socialista facendolo uscire dalle nebbie filo-comuniste e dalle utopie marxiste; la sua strategia era orientata a un riformismo istituzionale e politico in grado di consentire un avvicendamento al governo tra una sinistra democratica e una destra conservatrice, come avviene di norma negli altri paesi occidentali, costringendo il partito comunista a una trasformazione radicale e definitiva. A questo fine Craxi cercò anche di rinnovare l’immagine del PSI sostenendo esplicitamente i dissidenti dell’Europa dell’est (vittime del comunismo) e quelli dell’America latina (vittime dei regimi autoritari di destra) e avviando alleanze organiche con i socialisti spagnoli e francesi e in particolare con i loro leader Gonzales e Mitterrand. In breve creò un partito socialista in grado di costituire un interlocutore credibile anche per la cultura liberale, come riconobbe nel 1984 Malagodi iniziando il suo discorso al Senato in occasione della presentazione del governo Craxi con un incipit rimasto famoso: “E’ un appuntamento che aspettavo dal 1904” (riferendosi all’anno in cui Giolitti aveva invano invitato i socialisti ad entrare nel governo).
  2. Craxi ha inaugurato uno stile di governo, nei due anni in cui lo diresse, diverso per molti aspetti da quello dei suoi predecessori. Ha scelto come ministri personalità reclutate al di fuori della nomenklatura di partito, come Francesco Forte, Franco Reviglio, Renato Ruggiero, Antonio Ruberti. Il suo linguaggio era chiaro e scandito in modo da farsi comprendere da tutti (eccezione assoluta nella comunicazione politica di quel tempo), sapeva difendere senza farsi condizionare dalle chiassose dimostrazioni di piazza orchestrate dai comunisti le priorità di appartenenza a un’alleanza politica e militare come la NATO (come avvenne per la collocazione dei missili americani Cruise e Pershing in risposta agli SS20 installati dai sovietici) e, per contro, rivendicò con forza il principio della competenza nazionale quando rifiutò agli Stati Uniti la consegna dei terroristi palestinesi responsabili del dirottamento della nave “Achille Lauro”, arrivando fino a un confronto molto serrato con lo stesso presidente Reagan. Aveva anche il gusto della sfida, come dimostrò con la riduzione della scala mobile, contro la quale i comunisti lanciarono una dura campagna che si concluse con un referendum da cui uscirono sconfitti.
  3. La spinta impressa dalla nuova politica socialista ha imposto ai comunisti l’esigenza di fare i conti con la propria storia e con le trasformazioni politiche che stavano determinando il superamento della “guerra fredda”, ormai perduta dall’Unione Sovietica. I comunisti lo odiarono soprattutto per questo, perché sentivano sul collo il fiato di una social-democrazia incombente che minacciava di marginalizzarli, come era avvenuto per altri partiti comunisti occidentali. Come ha scritto giustamente Luciano Pellicani “prima che Craxi irrompesse sulla scena nessun leader socialista o social-democratico aveva osato mettere in discussione il marxismo”; averlo fatto con decisione, senza complessi di inferiorità, è costato al leader socialista la damnatio memoriae cui gli estremisti massimalisti di sinistra lo hanno condannato.

Assai diversa la valutazione su Craxi per ciò che attiene le politiche economiche; il leader socialista sottovalutò (come quasi tutta la dirigenza politica del tempo) la crescita indiscriminata del debito pubblico, l’invadenza soffocante del settore pubblico, l’esigenza di rinnovare la normativa sul lavoro. La sua originaria cultura socialista si era certamente annacquata nella contiguità con le social-democrazie europee, ma si era trasformata in un dirigismo politicizzato e clientelare che si inserisce a pieno titolo nelle carenze culturali della classe politica allora prevalente.

Tuttavia Craxi è stato condannato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio per corruzione e finanziamento illegale del partito da lui diretto.

E’ un fatto innegabile, e chi è liberale non può essere favorevole al finanziamento illegale della politica (anche quando la legge che lo riguarda è per molti aspetti assai discutibile) e pertanto esige rigore e trasparenza da chi rappresenta il Paese nelle sedi istituzionali e nei partiti. Ma occorre riconoscere che in tutti i partiti era diffusa l’idea che la spartizione di tangenti per finanziare la politica dovesse essere in qualche modo tollerata; si trattò di un errore non soltanto dal punto di vista della moralità politica ma anche per le conseguenze negative di immagine che al primo incidente non avrebbero tardato ad abbattersi sull’intero sistema politico. Il che si verificò puntualmente subito dopo il crollo del muro di Berlino e la successiva scomparsa dell’impero sovietico, quando, venendo meno l’anti-comunismo militante per cessazione di esistenza del nemico, la moralità politica tornò ad essere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.
Craxi non lo capì; Andreotti invece aveva ammonito gli amici che brindavano nel 1989 alla caduta del muro di Berlino: “Attenti a festeggiare, a quel muro eravamo aggrappati tutti”.

Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 3 luglio 1992 è passato alla storia per la franchezza con cui il leader socialista ammise le proprie responsabilità. Lo ricorda?

Tutti coloro che lo ascoltarono (me compreso) ebbero la sensazione di uno spartiacque storico, di quelli che segnano la fine di un’epoca e, inevitabilmente, l’inizio di una nuova. Con uno stile asciutto e senza perifrasi Craxi tentò una duplice operazione: la chiamata a correo di tutto il sistema politico che aveva utilizzato per il finanziamento della politica i suoi stessi mezzi (“Non credo che ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo”) ma soprattutto la delegittimazione della magistratura che applicava strumentalmente una legislazione che da tempo non corrispondeva più alla situazione reale e alle esigenze del sistema politico (“Un finanziamento irregolare o illegale al sistema politico…….non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura”).
Il tentativo non riuscì; ma Craxi era stato facile profeta nel prevedere che la furbizia dei topi di abbandonare la barca nel momento in cui affondava non avrebbe salvato né la barca né i topi. Peccato che, invece di contestare fino in fondo l’azione sostanzialmente ingiusta (ma non illegale) della magistratura, egli sia fuggito in esilio; accettando le conseguenze delle sentenze di condanna fino alla carcerazione egli avrebbe trasmesso al Paese un messaggio di ben diversa consistenza, costringendo l’opinione pubblica a interrogarsi sulle ragioni più profonde di una vicenda drammatica e senza precedenti.

Perché l’azione dei magistrati fu “sostanzialmente ingiusta”? Essi – si potrebbe obiettare – non fecero che applicare le leggi.

Ma talvolta l’applicazione formale delle leggi può essere sostanzialmente ingiusta: “summum ius, summa iniuria” dicevano i nostri progenitori romani. L’illegalità dei comportamenti politici era talmente diffusa da non consentire alternative; lo spiega bene lo storico Giovanni Orsina quando scrive che “…essendo quella politica un’arena fortemente competitiva, una volta diventati consuetudinari i comportamenti illegali divengono di fatto obbligatori per chiunque desideri prendere parte alla vita pubblica. Rispettare la legge, infatti, significherebbe collocarsi in una posizione di svantaggio irrimediabile…..l’illecito si trasforma in regola, e la trasgressione di quella regola – ossia il comportamento formalmente legale – è sanzionata con l’espulsione dal sistema”. Craxi aveva quindi sostanzialmente ragione nella sua “chiamata a correo” dell’intera classe politica di governo dato che il sistema tollerava un’ipocrisia di massa come quella del finanziamento illegale dei partiti nella connivenza totale di tutti coloro che partecipavano alla partita, nel tacito sottinteso che quelle regole non sarebbero mai state applicate, tanto più che la prassi illegittima che alimentava i costi della politica era stata denunciata inutilmente già dagli anni ’50.
In tale contesto l’unico modo di uscirne era l’approvazione di un’amnistia calibrata e selettiva, accompagnata da una nuova legge sul finanziamento della politica, meno demagogica e più rigorosa nei controlli. Lo proposero politici ragionevoli come Alfredo Biondi e giuristi di sinistra come Giovanni Conso, in quel momento guardasigilli, ma la magistratura milanese scatenò contro questa ipotesi una campagna mediatica senza precedenti, appellandosi al populismo più deteriore, ottenendo da una classe politica spaventata la rapida archiviazione della proposta. Si trattò di una clamorosa ulteriore invasione di campo delle procure in terreni che costituzionalmente sono loro preclusi. Ricorda Sergio Romano: “Non mi piacque che la magistratura esautorasse le istituzioni politiche. Piaccia o no, quando un fenomeno acquista le dimensioni di Tangentopoli, la terapia deve essere principalmente politica, non giudiziaria.”.

Perché il partito post-comunista preferì accelerare il processo di dissoluzione del vecchio sistema politico, piuttosto che ricercare un ragionevole accordo con il partito socialista per la costituzione di un polo democratico di sinistra?

Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare il clima di quegli anni. L’odio dei comunisti per i socialisti “craxiani” era alimentato da vari fattori:

  1. Craxi era considerato social-democratico, il che, nella terminologia corrente dei partiti comunisti, significava “traditore della causa” e complice della borghesia capitalista;
  2. Le personalità dei leader che impersonavano i due partiti, Craxi e Berlinguer, non potevano essere più diverse: moderno, spregiudicato, sensibile ai nuovi modelli sociali che l’economia di mercato stava determinando in Occidente, il primo; austero, moralista, pessimista, critico di ogni forma di consumismo, paternalista “illuminato”, il secondo;
  3. Il diverso atteggiamento nei confronti del cattolicesimo: improntato a una difesa molto netta della laicità dello Stato da parte di Craxi (cui si deve anche la revisione del Concordato), caratterizzato invece in ampi settori del vecchio PCI dalla ricerca di possibili intese fondate su una comune diffidenza nei confronti del modello americano e nord-europeo della “società del benessere” (alcuni dei più stretti collaboratori di Berlinguer erano molto vicini al Vaticano, come Antonio Tatò, il quale, non a caso, definì sprezzantemente il leader socialista in una lettera a Berlinguer “un bandito politico”)
  4. L’incessante e pervasiva campagna di ostilità anti-craxiana favorita dai vertici del partito comunista: erano gli anni in cui nei festival dell’Unità si serviva la “trippa alla Bettino”, a dimostrazione della cordialità di rapporti tra le rispettive basi.

Naturalmente non tutto il partito comunista si muoveva in questa direzione; vi erano gruppi consistenti che tentarono di cercare un accordo con Craxi, ma furono travolti dall’intransigenza settaria della maggioranza berlingueriana e dalla speranza che “mani pulite” potesse rappresentare un’occasione da non perdere per la “soluzione finale” (anche perché l’amnistia di pochi anni prima aveva messo definitivamente al sicuro il PCI dall’accusa, ampiamente dimostrata, di ricevere finanziamenti dall’Unione Sovietica). Anni dopo, nel 2000, Giorgio Napolitano, intervistato da Pierluigi Battista, ricordò che la via del dialogo era possibile, e che quando, per intercessione di Craxi, il PCI ottenne di entrare nell’Internazionale Socialista, “non arrivammo mai a riconoscere quanto D’Alema ha riconosciuto a Torino” (molti anni dopo). “Avevano ragione loro” è la tardiva e malinconica ammissione del nostro presidente galantuomo.

Ha nostalgia della prima repubblica?

No. La prima repubblica è responsabile:

  1. di avere creato una costituzione materiale che annullava l’equilibrio tra i poteri dello Stato concentrandone l’essenza decisionale nei partiti (partitocrazia);
  2. di avere consentito la distruzione di parti importanti delle risorse ambientali del Paese;
  3. di avere accentuato la dicotomia nord/sud aumentando la dipendenza assistenziale del Mezzogiorno dal clientelismo;
  4. di avere distrutto l’efficienza della pubblica amministrazione e la scuola pubblica;
  5. di avere accumulato un debito pubblico tra i maggiori dell’Occidente, un macigno che non soltanto è ricaduto sulle successive generazioni ma che rischia di perpetuarsi a lungo;
  6. di avere consentito alla magistratura di costruirsi un ruolo di “tutoraggio” sulle legittime istituzioni democratiche, incompatibile con una visione liberale dello Stato.

Credo che possa bastare. Qualche volgarità in meno rispetto alle sguaiataggini della seconda non basta ad assolvere le responsabilità politiche della prima repubblica.

 

F. Chiarenza, Il Liberale Qualunque, pp. 382-388