ANTIFASCIMO E RESISTENZA
Come ogni anno la celebrazione del 25 aprile riapre ferite mai del tutto cicatrizzate, soprattutto quando una parte politica cerca di trasformarla in un’arma contro gli avversari. Dispiace che non sia stata accolta la proposta avanzata tempo fa di fare del 25 aprile una festa della democrazia in cui tutti potessero ritrovarsi al di là delle diverse letture storiche di eventi drammatici che, in ogni caso, divisero e contrapposero italiani contro altri italiani.
Ne ho scritto nel “Liberale Qualunque” e non ho nulla da modificare:
Giorgio Napolitano, quando era presidente della Repubblica, ha sostenuto che “la libertà su cui poggiano le nostre istituzioni, la libertà di cui gode nel nostro Paese ogni forza politica, sociale e culturale di ogni cittadino viene da quei lunghi venti mesi di lotta partigiana e di movimento di liberazione”.
Vorrei che fosse così, ma così non fu. La libertà su cui poggiano le nostre istituzioni viene dagli inglesi e dagli americani che occuparono il nostro Paese liberandolo dai nazisti e imponendo, anche a chi non li condivideva, i principi liberali e democratici su cui si è costituita la Repubblica. Se al loro posto ci fossero stati i russi dubito fortemente dei destini della nostra democrazia, come dimostra l’esperienza dei paesi dell’Europa orientale, e la stessa vicenda di Trieste e dell’Istria. Dove, non dimentichiamolo, nei giorni terribili dell’occupazione da parte delle truppe jugoslave nel 1945, i comunisti italiani si schierarono con la dittatura comunista di Tito contro i diritti di auto-determinazione dei triestini e degli istriani e contro gli interessi nazionali del proprio Paese dove si stava faticosamente costruendo una democrazia pluralista; pro memoria per i tanti che sostengono ancora oggi che i comunisti italiani erano “diversi” e autonomi rispetto agli interessi del blocco sovietico (che allora comprendeva ancora la Jugoslavia). Giorgio Napolitano in quegli anni era già un importante dirigente del partito comunista.
Sulla effettiva valenza storica e morale della Resistenza, sull’influenza che ha avuto nella nascita della Repubblica, si discute da sempre. I difensori della Resistenza “dura e pura” sembrano arroccati intorno al mito resistenziale, un po’ come avvenne dopo l’unificazione per il mito risorgimentale.
A scanso di equivoci va premesso che la Resistenza è stata innanzi tutto una lotta in nome della libertà contro i nazisti e i loro alleati fascisti condotta da formazioni partigiane dopo l’8 settembre 1943, quando con l’armistizio l’Italia ruppe la sua alleanza con la Germania. Nessun dubbio può sussistere per un liberale su quale fosse non soltanto la parte giusta (dal punto di vista ideologico) ma anche quella più legittima (sul piano istituzionale). Il fatto che i comunisti, dopo la fine della guerra, abbiano tentato di impadronirsi della memoria della Resistenza accreditando l’immagine di un movimento rivoluzionario composto soprattutto da partigiani comunisti, affiancati solo marginalmente da cattolici e laici socialisti, nulla toglie al fatto incontestabile che furono invece numerose le brigate indipendenti di ex-militari e di monarchici (importanti soprattutto in Piemonte); gli agiografi “resistenziali” si sono dilungati sulle figure di Valiani, Parri, Pertini, Moscatelli, Bentivegna, Longo, ma raramente hanno citato, per esempio, il generale Alfredo Pizzoni, che pure fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, personaggio di grande rigore morale, non inquadrabile in alcun partito, il cui prestigio fu indispensabile per i rapporti con gli anglo americani (che, non dimentichiamo, sostennero la Resistenza con la distribuzione di armi e finanziamenti pari a un miliardo e mezzo di lire dell’epoca).
Vi fu anche una Resistenza liberale (basti per tutti il nome di Edgardo Sogno). E fu sostanzialmente liberale la posizione di quanti, senza settarismi ideologici, si impegnarono anche militarmente nel movimento partigiano al fine prevalente di cacciare i tedeschi e sconfiggere i loro alleati fascisti.
Oggi finalmente il passaggio generazionale consente di rimuovere il manto protettivo con cui i comunisti avvolsero l’unica Resistenza a cui parteciparono. Riemergono altre eroiche resistenze: cominciando da quella di Roma quando all’indomani dell’armistizio studenti e militari cercarono di impedire l’occupazione della Capitale da parte dei tedeschi, continuando con Cefalonia, dove i militari italiani rifiutarono di arrendersi ai tedeschi e furono massacrati, ovvero quella della corazzata “Roma” affondata dai tedeschi dopo il rifiuto dell’ammiraglio Carlo Bergamini di consegnare la nave, e quella dei soldati italiani che difesero dai tedeschi l’isola di Lero, e, in Italia, la resistenza dei militari italiani in Sardegna, la creazione del Corpo italiano di liberazione che affiancò nel centro-sud le truppe inglesi e americane, e molti altri episodi di grande spessore ideale (con risvolti militari non secondari) che vengono spesso trascurati dalle rievocazioni mediatiche. Non bisogna dimenticare, in questo contesto, il dramma spesso eroico vissuto da oltre 600.000 militari italiani rinchiusi dai tedeschi nei campi di concentramento dopo l’8 settembre, i due terzi dei quali rifiutarono di arruolarsi nelle formazioni fasciste della R.S.I. (malgrado ciò consentisse il loro rimpatrio) “resistendo” in condizioni terribili nei campi di prigionia per restare fedeli al giuramento al re.
Purtroppo di questo forte impegno non si tenne alcun conto nella conferenza di pace di Parigi che impose condizioni durissime al nostro Paese; già nell’aprile 1944 “Risorgimento Liberale” aveva ammonito che se l’Italia doveva essere considerata “una nazione vinta cui altro dovere non incombe se non quello di accettare, senza discutere, la legge del vincitore non si vedrebbe per quale ragione dovrebbe essa sacrificare le vite dei suoi figli e le sue ultime risorse finanziarie.”. Ma fu proprio ciò che avvenne, in piena violazione delle promesse che Eisenhower aveva fatto a Badoglio in occasione della firma dell’armistizio. Tuttavia quando alla conferenza di pace di Versailles De Gasperi finì di parlare in un’aula ostile e prevenuta, l’unico che si alzò e andò verso di lui per stringergli la mano fu il rappresentante degli Stati Uniti d’America.
F. Chiarenza, Il Liberale Qualunque, pp. 343, 345