AUTONOMIE REGIONALI

 

La realizzazione di autonomie differenziate, richiesta dalle Regioni settentrionali, riapre il capitolo delle autonomie regionali, mai veramente definito da quando furono introdotte nella Costituzione del 1948. Nel “Liberale Qualunque” ne ho trattato ampiamente.

Da quando la Lega Nord è entrata prepotentemente nella vita politica italiana il termine “federalismo” ha fatto irruzione nel linguaggio politico e istituzionale. Cosa dobbiamo intendere con questo termine?
In Italia fino alla seconda guerra mondiale il sistema istituzionale era rigidamente (e in qualche caso ridicolmente) centralistico. Con la Costituzione repubblicana, non senza forti contrasti, la tradizione regionalista presente in ampi settori della cultura politica, soprattutto cattolica e repubblicana, ottenne soddisfazione attraverso la creazione delle Regioni, alle quali furono attribuite sostanziali competenze e piena autonomia gestionale. Ci vollero vent’anni perché il decentramento regionale cominciasse a funzionare a regime, e subito sorsero numerosi problemi per l’attribuzione degli ambiti entro i quali dovevano operare concretamente le strutture delle Regioni. E poiché non si decideva mai in maniera netta, ma sempre cercando compromessi che complicavano la materia del contendere, ne risultò paradossalmente un appesantimento burocratico causato dalle troppe competenze concorrenti; in sostanza una riforma concepita per semplificare le procedure amministrative si trasformò in un moltiplicatore di passaggi burocratici (e dei relativi oneri di bilancio). Anche la riforma costituzionale del 2001, che sulla carta attribuiva maggiori poteri alle Regioni, andò ad arenarsi sull’eccessivo ricorso alle competenze concorrenti, mentre la mancanza di un organo costituzionale federale espresso dalle Regioni (come il Bundesrat tedesco o il Senato americano) ha contribuito a mantenere irrisolta la conflittualità permanente tra Stato e Regioni su cui la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi (fino ad ora) milleseicentoquarantasette volte.

Aveva quindi ragione Giovanni Malagodi quando si opponeva strenuamente alla realizzazione delle Regioni?
In Italia la tradizione liberale è sempre stata – con rare eccezioni – tendenzialmente centralista; negli anni ’60 Malagodi fu decisamente anti-regionalista, non soltanto per ragioni politiche (il rischio che le “regioni rosse” – Emilia/Romagna, Toscana, Umbria – si saldassero in un blocco eversivo al centro del Paese) ma anche per la convinzione profonda che le distorsioni economiche e culturali delle diverse regioni si potessero correggere soltanto con una rigorosa guida dal centro, secondo la ricetta che già era stata quella dei liberali post-risorgimentali.
Ma non sempre e non tutti i liberali sono stati centralisti. Al contrario, il liberalismo italiano pre-risorgimentale era attraversato da una cospicua corrente di pensiero che, a cominciare da Vincenzo Cuoco e da Gian Domenico Romagnosi, sosteneva che l’indipendenza e l’unità dell’Italia ventura doveva necessariamente tener conto della tradizione municipalistica, immaginando una costruzione costituzionale fondata sulla centralità degli enti locali. Anche quando l’evoluzione storica e il prevalere di una concezione statale modellata sull’esempio francese fecero venir meno questa tendenza, l’attenzione per le realtà locali si manteneva viva se lo stesso Cavour scriveva nel 1860 che “solo col mettere a carico delle provincie e delle regioni le spese locali potremo salvare la finanza da sicura rovina”, appoggiando così le tesi che Marco Minghetti tentò invano di affermare negli anni successivi. La destra, andata al potere subito dopo l’unificazione, scelse invece un’altra strada, ritenendo impossibile governare un paese costituito da realtà tanto diverse senza un rigoroso regime centralistico che imponesse all’intera nazione il collaudato modello lombardo-piemontese. Nulla di sostanzialmente diverso fece la sinistra quando prese il potere vent’anni dopo; in una pagina illuminante Francesco Crispi, protagonista di una riforma amministrativa rigorosamente centralista, ammette: “Il modo tumultuario con cui il nostro Paese fu unificato, né vi era forse altro mezzo per unificarlo rapidamente, la convulsiva fretta colla quale dappertutto s’imposero eguali leggi ed ordinamenti amministrativi non fatti per ogni dove, il generale tramescolamento d’uomini e di cose, come produssero in sul principio una scossa benefica, lasciarono poi in non poche membra d’Italia un indistinto malessere, sia per tradizioni locali divelte d’un tratto, sia per sentimenti e interessi soffocati in nome dell’unità.” La diagnosi era corretta ma i rimedi finirono ancora una volta per fondarsi su uno Stato centrale paternalistico che avrebbe dovuto vigilare sulle possibili degenerazioni locali e accompagnarne lo sviluppo e la crescita democratica.
Oggi non vi è dubbio che i liberali devono fare i conti con la nuova realtà abbandonando le vecchie pregiudiziali. D’altronde che in linea teorica il modello decentrato sia il più adeguato a una società liberale è fuor di dubbio; lo hanno sostenuto, tra i tanti, Luigi Einaudi e l’economista meridionale Antonio De Viti De Marco. Ma bisogna essere conseguenti: se si vuole il federalismo occorre responsabilizzare gli enti locali non solo nella politica della spesa ma anche in quella delle entrate, altrimenti non si modificherà mai la cultura assistenziale e clientelare ancora prevalente in molte realtà periferiche.

Le Regioni sono spesso concepite in contrapposizione all’identità nazionale, quasi uno strumento per rimettere in discussione l’unità conseguita nel Risorgimento
L’unità nazionale non corre alcun rischio, anche nel contesto di uno stato federale, quando i suoi fondamenti storici e culturali sono solidi. Lo dimostra l’esempio degli Stati Uniti d’America dove tutti possono constatare la piena compatibilità tra una struttura federale autentica e il patriottismo nazionale; ma lo si vede anche in altri paesi europei dove si rileva una grande attenzione ai simboli nazionali, come le bandiere, gli inni, i riti patriottici, il mantenimento della tradizione monarchica laddove essa si identifica con la storia unitaria del Paese, le cerimonie solenni. Non è il caso, purtroppo, dell’Italia dove dopo il compimento dell’unità non si è riusciti a creare un senso comune di identità nazionale. Ci aveva provato la classe dirigente liberale che si era spesa per realizzare il Risorgimento (“abbiamo fatto l’Italia ora bisogna fare gli italiani” ), ci ha riprovato – a modo suo – il fascismo, ma ciò che ne è emerso assomiglia poco a una nazione come le altre che ci circondano in Europa. Secondo un’amara diagnosi di Ernesto Galli della Loggia che ha fatto molto discutere, gli italiani non sanno cosa significhi essere italiani, al di là di qualche luogo comune e di una origine geografica certificata; quasi una vendetta postuma del principe di Metternich che nell’800 ironizzava sulle velleità risorgimentali definendo l’Italia una “espressione geografica”. Si tratta forse di un’analisi polemicamente (e volutamente) esagerata. Secondo Giuseppe De Rita, antesignano attraverso il suo CENSIS di accurate analisi sociologiche sul “sistema Italia”, esiste una sostanziale unità degli italiani che si esprime a tutti i livelli, da quello linguistico a quello dei comportamenti, da quello letterario a quello musicale; l’identità italiana, come si è venuta consolidando soprattutto negli ultimi cinquant’anni, è assai più compatta e solida di quanto non fosse al momento dell’unificazione, nel bene e nel male. E’un’identità “sotterranea”, fondata su tante diversità che si compongono e si ricompongono, una unità “in corso d’essere”.
L’analisi di De Rita è in effetti credibile; per gli stranieri un italiano è chiaramente riconoscibile, coi suoi pregi e i suoi difetti, mentre è impossibile, a pari livello culturale, distinguere un lombardo da un siciliano. Le motivazioni più autentiche del secessionismo settentrionale sono infatti economiche, fondate sulla convinzione che senza il fardello assistenziale del sud le regioni del nord si salverebbero meglio dalla crisi; un’illusione ingiustificata che lascia tuttavia trasparire un egoismo poco compatibile con i principi di solidarietà che dovrebbero essere parte integrante di una comunità che si riconosce in nazione.
Resta quindi il dubbio che l’incapacità di tradurre la nostra identità in valori condivisi, in simboli riconoscibili, finisca poi per favorire uno scetticismo diffuso che può facilmente trasformarsi in cinismo. Bisogna dare atto a Ciampi, nei sette anni della sua presidenza, di avere colto l’importanza della questione e di avere promosso in tutti i modi il culto della Nazione, cercando di fare capire che, intesa in modo corretto, essa può e deve essere un presupposto della democrazia, non il suo contrario.

 

F. Chiarenza, Il Liberale Qualunque, pp. 100-104