MINZOLINI BATTE SEVERINO UNO A ZERO

 

Il salvataggio di Minzolini da parte del Senato dimostra la valenza squisitamente politica della legge Severino che di fatto lascia al Parlamento il potere discrezionale se applicarla o meno (confermando la sua genesi sospetta di essere stata concepita al solo scopo di eliminare dalla partita Berlusconi). I casi sono due: o si modifica la legge stabilendo l’automaticità dei suoi effetti in caso di condanna definitiva, attribuendo in tal modo alla magistratura poteri abnormi di dubbia costituzionalità, oppure l’immunità parlamentare cacciata dalla porta rientra di fatto dalla finestra. Questo è il problema, non quello di stabilire se la condanna di Minzolini sia fondata o meno; ci mancherebbe che il Parlamento giudicasse le sentenze. E nemmeno è particolarmente rilevante il fatto che uno dei giudici che ha condannato l’ex direttore del TG1 avesse in passato militato nel partito avverso a quello di Minzolini rivestendo addirittura la carica di sottosegretario (anche se tale circostanza riapre la vexata quaestio della compatibilità tra la carriera giudiziaria e l’impegno diretto in politica).
La vera questione è se sia legittimo in uno stato liberale togliere il mandato a un parlamentare regolarmente eletto per effetto di una condanna giudiziaria divenuta definitiva nel corso della legislatura. Salta agli occhi quanto sia pericoloso il principio della legge Severino che mette in mano ai giudici la possibilità di alterare gli equilibri parlamentari così come sono stati espressi dal suffragio popolare; rischio tanto più grave avendo a che fare con una magistratura non eletta che si riproduce di fatto per cooptazione (sia pure attraverso la formalità dei concorsi) e che dipende per le sue carriere dal gioco delle correnti tutt’altro che neutrali nel gioco politico.

Il mandato parlamentare
A mio parere, in quanto liberale qualunque che ha letto qualche libro in materia, il mandato parlamentare dovrebbe essere sempre irrevocabile fino al termine della legislatura. Subito dopo dovrebbero riprendere i termini della prescrizione debitamente sospesi e in caso di condanna definitiva sancire la ineleggibilità. Altrimenti si riconoscerebbe alla magistratura un potere sovraordinato rispetto al parlamento con evidenti possibili degenerazioni dimostrate dal caso Berlusconi. La legge Severino scaturisce in realtà da due spinte convergenti: riaprire i giochi per la leadership del centro-destra e mettere sotto tutela in qualche misura il parlamento approfittando del discredito ormai accumulato e accresciuto da decisioni maldestre (tra cui fondamentale quelle che hanno riguardato emolumenti, vitalizi e privilegi, inaccettabili per gran parte della pubblica opinione).
Ma i principi sono più importanti di qualsiasi distorsione nella loro applicazione; vanno rispettati anche nei confronti di chi non lo merita.

 

“Il liberale qualunque”: pag. 87. Per l’immunità parlamentare in generale pag. 595

Eppure a Silvio Berlusconi il mandato di senatore è stato revocato.
Si tratta di cosa diversa dal power of recall, il quale per essere esercitato presuppone un ripensamento degli elettori. La vicenda di Berlusconi invece è legata a una legge che prevede appunto la decadenza dal mandato elettorale in seguito a una sentenza di condanna penale passata in giudicato. Ho qualche dubbio (e non soltanto io) sulla costituzionalità di tale norma; credo che in una democrazia parlamentare il mandato espresso dagli elettori debba essere intangibile per tutta la sua durata se non si vuole correre il rischio di sbilanciare a favore della magistratura l’equilibrio tra i poteri dello Stato, già oggi assai precario. Diverso è il caso del divieto a candidarsi per chi sta scontando una condanna penale.
Si tratta comunque di questioni che si collegano alla certezza di una reale indipendenza e neutralità dei magistrati; quando vi è il sospetto che essi, anche soltanto per una parte, perseguono in maniera più o meno occulta un disegno politico, la condanna penale può trasformarsi in uno strumento di esclusione di candidati scomodi, come è avvenuto e avviene in altri paesi dove le garanzie democratiche, anche quando sono formalmente rispettate, sono subordinate al mantenimento di assetti politici e principi ideologici inalterabili di cui la magistratura è chiamata a garantire il rispetto (per esempio in Iran).

 

In base a questo principio non si finisce per riproporre l’immunità parlamentare?
La “doppia morale” può essere accolta in una società liberale soltanto se si accompagna al principio di responsabilità e alla trasparenza delle procedure di eccezione; in tale contesto è possibile adottare per l’esercizio della politica regole differenziate, almeno per il tempo in cui gli uomini politici svolgono funzioni di governo. L’immunità parlamentare, aggiornata e meglio regolata, costituisce un precedente storico su cui è possibile costruire un nuovo sistema di garanzie che, da un lato tuteli i cittadini da ogni arbitrio ingiustificato ma dall’altro impedisca a poteri extra-parlamentari che non scaturiscono dalla volontà popolare di condizionare la libertà di scelta della rappresentanza politica. L’immunità infatti era nata agli albori del parlamentarismo liberale come garanzia per gli eletti dai possibili soprusi e violenze del Sovrano (e quindi del potere esecutivo), ma, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, ha assunto un carattere assai diverso, finendo per essere utilizzata piuttosto per tutelare il Parlamento da interventi della magistratura in una società – come quella in cui viviamo – in cui l’esposizione mediatica mette a rischio il principio della presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. Poiché il cardine fondante di qualsiasi stato liberale è la distinzione tra i poteri, occorre non soltanto tutelare l’indipendenza dei magistrati da ogni altro potere ma anche proteggere il Parlamento e il Governo da possibili invasioni di campo della magistratura inquirente. Altrimenti gli atti giudiziari, anche quando sembrano formalmente ineccepibili, possono trasformarsi di fatto in azioni politiche, attraverso l’uso di strumenti concepiti quando i mass media non erano ancora così pervasivi, quando internet non esisteva, quando i magistrati erano più attenti alla “sacralità” della loro funzione e meno esposti alle tentazioni di una facile popolarità mediatica. In uno stato che si definisce liberale la “moralità” non può essere brandita come un’arma da utilizzare in funzione di obiettivi che con la giustizia e il diritto hanno poco a che fare.
Quando negli Stati Uniti Bill Clinton fu sottoposto nel 1998 a impeachment, essendo reo confesso di comportamenti immorali (chi non ricorda il sexgate?), il parlamento finì per prendere atto dell’immutato favore dell’opinione pubblica di cui continuava a godere il presidente, testimoniato da molti e credibili sondaggi, e finì per non farne più nulla. Ubi major, minor cessat. La differenza tra “moralità” e “moralismo” consiste anche in questo: nel rimettere alla fonte del principio di legittimità, cioè al popolo (purché debitamente informato), il compito di giudicare in quale misura astratti principi morali debbano prevalere su considerazioni di altro genere. Può accadere infatti che, anche in presenza di comportamenti normalmente ritenuti riprovevoli, vengano privilegiate motivazioni che – a torto o a ragione – la maggioranza ritiene più importanti; come avvenne appunto nel caso Clinton, e non soltanto.