Il ponte di Genova
Ne erano crollati altri negli ultimi anni ponendoci il dubbio che la loro costruzione nella seconda metà del secolo scorso presentasse qualche problema. Nella nostra cultura millenaria i ponti hanno rappresentato quasi l’eternità: ponte Milvio a Roma ha duemila anni ed è ancora in piedi.
Nell’orgia di dichiarazioni, interviste, polemiche più o meno strumentali, una cosa ci sembra di avere capito: le tecnologie basate sul cemento armato se, da un lato, consentono costruzioni ardite e leggere, d’altra parte hanno comportato (almeno in passato) fragilità intrinseche che emergono nel tempo legate all’usura delle anime ferrose imprigionate nei contenitori di cemento (e per questo anche di difficile manutenzione).
Il viadotto sul Polcevera
Il crollo avvenuto a Genova rappresenta però qualcosa di più di un inconveniente tecnico; non soltanto per le vittime innocenti che ha provocato e che hanno dato all’evento le dimensioni di una tragedia umana tanto più inaccettabile quanto più ragionevolmente prevedibile, ma anche perché l’ardito ponte sul Polcevera, celebrato quando fu costruito come un capolavoro dell’ingegneria italiana, rappresentava qualcosa di più del collegamento tra due quartieri di Genova. Era uno dei punti di convergenza del traffico tra l’Italia e l’Europa meridionale, passaggio obbligato tra il porto, la città, le grandi vie di comunicazione che si irradiano verso la Francia e all’interno del Paese. Un ponte simbolo al cui crollo si finisce per attribuire anche un significato che va ben oltre la tragedia che ha provocato.
Su un punto Di Maio ha ragione: un ponte così non doveva crollare. Qualcuno ha sbagliato e ha sulla coscienza la responsabilità di 43 morti, decine di feriti, danni ingentissimi. Anche se in parte la colpa è pure di chi (come il suo mentore Beppe Grillo) si oppose alla costruzione del by-pass della Gronda, progettato appunto per alleggerire il carico crescente che transitava per il ponte sul Polcevera e che, se rapidamente realizzato, avrebbe facilitato una revisione totale delle strutture del ponte Morandi rendendone possibile la chiusura ed eventualmente il rifacimento.
Spetterà alla magistratura stabilire le responsabilità, sarà compito delle istituzioni di governo nazionali e regionali mettere in sicurezza strutture analoghe, toccherà alla concessionaria “Atlantia” pagare i costi.
Le concessioni
Ma nella bufera delle polemiche è emersa una tendenza, spinta soprattutto dal movimento Cinque Stelle, di fare marcia indietro sulla politica delle concessioni e tornare alla gestione pubblica diretta delle grandi infrastrutture autostradali. Per un liberale non c’è da scandalizzarsi: a fronte di un “monopolio naturale” come si configura una rete di comunicazione e di trasporti non ripetibile (come strade e ferrovie) lo Stato ha tutto il diritto di gestirla direttamente. In passato lo ha fatto con le ferrovie, con la rete delle strade ordinarie, e da ultimo, con la nazionalizzazione della produzione e distribuzione dell’energia elettrica nel 1962. Anche in quel caso si denunciò la deriva “socialista” e dirigista dei partiti che l’avevano promossa ma in realtà nessun vero liberale poté contestare che in linea di principio la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali dove non era possibile realizzare alcuna forma di concorrenza era del tutto compatibile con i principi liberali.
Le ferrovie erano state statalizzate durante i governi liberali nel 1905.
Domandiamoci però perché, dopo una gestione quasi diretta (quando la società Autostrade era controllata dall’IRI e quindi indirettamente dallo Stato), si è preferito (come in Francia e in Spagna; non in Germania) passare al sistema delle concessioni.
Il motivo principale è economico. Costruire le infrastrutture moderne è molto costoso; parecchi paesi hanno preferito farle realizzare a spese di privati in cambio di concessioni d’uso pluriennali. In altri casi la costruzione è stata finanziata dallo Stato ma si è preferito assegnarne in concessione la gestione in cambio dei proventi derivanti dai pedaggi perché anche soltanto amministrare e mantenere le autostrade richiede costi e capacità che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di garantire. E in effetti quando lo Stato ha voluto gestire in proprio qualche autostrada i risultati sono stati disastrosi: si pensi all’autostrada Salerno-Reggio Calabria o alla Catania-Gela. Per non parlare delle precarie condizioni in cui versano molte strade provinciali e statali, soprattutto nel Sud. Una seconda ragione è che attraverso una gestione privatistica, soprattutto se quotata in Borsa, è possibile raccogliere capitali senza gravare sul bilancio dello Stato; il 50% di Atlantia, per esempio, è quotato in borsa e su di esso hanno investito migliaia di risparmiatori.
Il sistema delle concessioni quindi è stato adottato soprattutto per ragioni di convenienza economica e di maggiore efficienza. Oltre tutto in un sistema pubblico diventerebbero inevitabili le pressioni per un uso gratuito senza pedaggio (come avviene infatti nella Salerno-Reggio Calabria) con ulteriori aggravi di bilancio.
Nazionalizzazioni = più Stato
Ciò che preoccupa i liberali non è tanto la revoca delle concessioni e l’affidamento all’ANAS della gestione delle autostrade ma piuttosto una linea di tendenza che sembra emergere dalla cultura di governo soprattutto del movimento Cinque Stelle: aumentare le dimensioni della presenza pubblica, interrompendo quel percorso di privatizzazioni che il centro-sinistra si era visto obbligato a intraprendere quando il Paese, negli anni ’90, ha rischiato la bancarotta (qualcuno se ne ricorda?). Prima di allora l’Italia era considerata la nazione più “statizzata” dopo la Russia, c’era l’IRI che produceva (in perdita) persino i panettoni, e soltanto l’alleggerimento del debito pubblico ci consentì di partecipare alla nascente Unione Europea. Se si vuole tornare indietro, come sembra auspicare Di Maio, interpretando una cultura politica assai diffusa nel Mezzogiorno, indifferente quando non ostile ai meccanismi della società industriale fondati sul rischio imprenditoriale e sulla mobilità sociale, c’è di che preoccuparsi. Non a caso Salvini prende tempo (attraverso un evidente gioco delle parti con Giorgetti), si diverte a fare battute sull’Europa addebitandogli colpe che (almeno in questo caso) non ha, confondendo i vincoli del patto di stabilità con la mancata utilizzazione dei fondi che l’Unione ci aveva messo a disposizione. La maggior parte dei suoi elettori sono al nord e non è il caso di scherzare col fuoco.
Il profitto
La cultura che sta dietro tutto questo risale a tempi lontani ed è strettamente collegata con la concezione cattolica per la quale il profitto è un male, talvolta inevitabile, ma comunque da considerare con diffidenza. Anche in questo caso l’idea che si vuole fare passare è che l’ansia del profitto sia stata la causa principale della tragedia di Genova e che quindi l’unico modo di evitare rischi per la vita stessa dei cittadini sia quella di ricondurre allo Stato la gestione di tutte le infrastrutture, e se ciò comporta inefficienza e costi maggiori, pazienza. Almeno non ci sarà qualcuno che ne ha approfittato (cioè tratto profitto).
Questa concezione è molto diffusa ed è storicamente presente anche nella sinistra italiana; in qualche caso, quando prassi corruttive molto frequenti hanno consentito a soggetti privati senza scrupoli di impadronirsi di risorse pubbliche, ha anche qualche fondamento. Ma non bisogna lasciarsi condizionare da disfunzioni – anche evidenti – per gettare il bambino con l’acqua sporca.
Il sistema delle concessioni consente – come abbiamo detto – di trarre la maggiore convenienza in termini finanziari (perché raccoglie risorse provenienti dalla finanza privata), di efficienza (per la capacità imprenditoriale che lo Stato non può avere), e di competenza tecnica. Per funzionare bene deve avere alle spalle una pubblica amministrazione che sappia svolgere il suo compito di controllo in modo trasparente e con mezzi adeguati. Se ci sono concessionari avidi che speculano fino a mettere a rischio vite umane, bisogna tagliar loro le unghie; ma per farlo occorre disporre di buone forbici e saperle usare. Non dobbiamo chiedere a chi investe e cerca un profitto di “essere buono”; bisogna costringerlo ad esserlo. L’economia di mercato funziona se lo Stato evita di scendere in campo ma si assume la funzione indispensabile di stabilire le regole del gioco e di farle rispettare. Altrimenti la partita è truccata.
Franco Chiarenza
24 agosto 2018
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