In guerra contro Giolitti. Una lezione ancora attuale
Ho la brutta abitudine di leggere sempre in ritardo i nuovi libri; così ho finito soltanto adesso la lettura di questo scritto di Luigi Compagna pubblicato nel 2015. Un bel libro in cui l’autore ricostruisce con intelligenza le vicende dell’”Italietta” post-risorgimentale, con particolare attenzione al decennio giolittiano, sfociate poi nello scontro tra neutralisti e interventisti che portò l’Italia a partecipare alla prima guerra mondiale sul fronte opposto alle alleanze in cui fino a quel momento si era riconosciuta.
Compagna giustamente, nel ricostruire con grande attenzione le vicende delle “radiose giornate” del maggio 1915, colloca la decisione del governo italiano in un ambito esclusivamente circoscritto alla politica interna, a sua volta condizionata dallo scontro, politico e culturale, tra l’empirismo giolittiano e le diverse componenti che convergevano soltanto nell’avversione a Giolitti e al suo sistema di governo. L’entrata in guerra con l’Intesa fu sostanzialmente un modo per eliminare Giolitti dalla scena politica, obiettivo su cui con diverse motivazioni e assai differenti obiettivi, si ritrovarono insieme il nazionalismo sentimentale e irrazionale di D’Annunzio (ma anche di Prezzolini, Marinetti e di altri precursori del fascismo), l’opposizione democratica degli “onesti” che denunciavano come criminali i sistemi di governo di Giolitti (come Salvemini e Albertini), e le ambizioni di Vittorio Emanuele III che forse voleva passare alla storia come il re che aveva completato l’unità d’Italia perseguita dai suoi avi (o forse soltanto già stanco dei vuoti riti parlamentari e preoccupato delle incognite politiche e sociali che l’allargamento del suffragio stava determinando).
Compagna riprende bene il filo rosso che attraversa il liberalismo italiano di quegli anni con una particolare attenzione a Croce il quale proprio alla vigilia della “grande guerra” diventa più attento alla politica contingente e salda quel rapporto con Giolitti che lo porterà al ministero della pubblica istruzione nel breve governo che lo statista di Dronero presiedette nel 1920. Nella spaccatura che attraversa il liberalismo italiano passa la linea di frontiera tra le due concezioni politiche e ideologiche che si confrontano in quegli anni; e si tratta di divisioni talmente profonde che anche a fronte di fenomeni nuovi che irrompono sulla scena politica come gli sviluppi del partito socialista e l’emergere di un partito di massa di ispirazione cattolica non cessano di combattersi e facilitano in tal modo la presa del potere da parte del fanatismo nazionalista che trova in Mussolini il suo interprete.
Col fascismo, nella fase iniziale, tutti i liberali svolgono un ruolo ambiguo. Quelli che si rifacevano all’empirismo giolittiano (e tra essi Croce) pensavano a un possibile riassorbimento del fascismo nell’ordine costituzionale dopo avergli lasciato il “lavoro sporco” di restaurare l’autorità dello Stato fortemente compromessa dal “biennio rosso” e dalle velleità rivoluzionarie che l’avevano accompagnato. I liberali democratici duri e puri come Gobetti e Salvemini da parte loro dicevano apertamente di preferire Mussolini (visto come un rivoluzionario “riassorbibile” nella prassi democratica) al corrotto notabilato parlamentare del giolittismo. Quando fu chiaro che il fascismo era cosa diversa, assai più strutturato (anche culturalmente) di quanto essi ritenessero e che non era possibile utilizzarlo per poi disfarsene ma, al contrario, erano i liberali che erano stati utilizzati dal fascismo nascente per legittimarsi di fronte a quei “poteri forti” (monarchia, grande industria, esercito) che sarebbero ancora stati in grado di arrestarne l’avanzata, il dietro-front fu rapido e unanime ma tardivo; la saldatura tra lo Stato borghese monarchico e la dittatura fascista era ormai avvenuta e solo l’ingenuità di Giovanni Amendola poteva immaginare che la Corona sarebbe intervenuta a impedirla.
Nonostante gli errori certamente imputabili a Giolitti e ai suoi metodi di governo (peraltro non molto diversi da quelli utilizzati dai suoi oppositori) la simpatia dell’autore va senza dubbio allo statista piemontese; partendo da una riflessione di Rosario Romeo sulla sostanziale delegittimazione dei parlamenti post-unitari egemonizzati da una borghesia che non riconosceva neanche indirettamente diritti di rappresentanza ai nuovi ceti sociali cittadini e rurali emergenti, Compagna osserva giustamente che questa appunto era la preoccupazione di Giolitti e che si deve al suo pragmatismo e alla sua sottile “dittatura” se tramite un parlamento così poco rappresentativo egli sia riuscito ad allargare progressivamente il suffragio, consentendo così a socialisti e cattolici di entrare nel gioco politico attraverso le istituzioni e non fuori di esse. Così, senza interrompere un processo graduale ma la cui direzione era chiara (e dichiarata) Giolitti poté svolgere un’azione riformatrice profonda anche se silenziosa, fondata su un corretto funzionamento delle strutture ordinarie dello Stato, che portò a grandi miglioramenti nella salute della popolazione, nella lotta all’analfabetismo, nei diritti sindacali, nel tenore di vita delle plebi meridionali, come ebbe a ricordare Benedetto Croce in un famoso discorso alla Consulta nel 1945 (opportunamente riproposto nel libro di Compagna) e in cui – finalmente – il filosofo napoletano accoglie definitivamente il principio che nella realtà delle cose concrete il liberalismo non era possibile senza democrazia (non meno di quanto la democrazia abbia bisogno di fondamenti liberali per sopravvivere alle tentazioni totalitarie).
Molto interessante, anche se suscettibile di ulteriori approfondimenti, il capitolo in cui si analizza il rapporto intercorso in sede di giudizio storico tra i leader comunisti italiani e l’esperienza giolittiana; problematico ma sostanzialmente positivo in Togliatti, negativo invece per Gramsci ma con motivazioni che, da un punto di vista liberale portano invece a riconoscere la funzione stabilizzatrice ma non inerte dei governi di Giolitti.
Corre in tutto il libro il confronto tra i diversi modi – non solo astrattamente culturali – di praticare il liberalismo nel lungo periodo in cui i liberali hanno governato l’Italia: dall’idealismo crociano che gradualmente si incrocia e si incontra col pragmatismo della borghesia piemontese (di cui Giolitti rappresenta la più completa espressione) all’insofferenza morale (che diventa moralistica) per la mancata rivoluzione delle coscienze che è l’essenza del giacobinismo mazziniano di Salvemini (e del suo odio per Croce oltreché naturalmente per Giolitti) fatalmente destinato ad incrociarsi col fanatismo nazionalista e con le forme più estreme dell’irrazionalismo che ha accompagnato la crisi dei valori borghesi all’inizio del XX secolo. Il drammatico risultato che ne è conseguito è consistito in due conflitti mondiali che hanno distrutto l’Europa non soltanto materialmente ma anche facendo venir meno l’egemonia culturale che nel bene e nel male essa aveva esercitato nei secoli precedenti.
Un bel libro dunque che consiglio agli amici di leggere anche per la sua imprevedibile attualità. Arrivati alla fine ci si chiede: non avremmo bisogno di un nuovo Giolitti non solo per la sua intelligenza strategica ma anche e forse soprattutto per la capacità di tradurre i grandi obiettivi nella politica quotidiana, quella che arriva in tutte le case, “senza più riscontro nella legislazione attuale (farraginosa e irta di piccole misure inutili e dannose) dove si riconosceva una formazione svoltasi alla scuola di una magistratura e di una burocrazia intelligenti, ordinate”. Parole di Togliatti in una conferenza su Giolitti negli anni ’50. Il quale così concludeva: “La chiara legislazione e la ordinaria amministrazione giolittiana sono l’ultimo bagliore di un passato”.
Franco Chiarenza
Luigi Compagna – Italia 1915. In guerra contro Giolitti. – Rubbettino (Soveria Mannelli, 2015) Pag. 187 – euro 14,00
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