Incontro con un liberale (non) qualunque

Abbiamo intervistato per I Liberali Franco Chiarenza, giornalista ed esperto di comunicazione, fondatore del blog Il Liberale Qualunque. È stato un colloquio molto interessante, in cui sono stati toccati tanti aspetti della sua esperienza politica e professionale ma anche temi di attualità, come la crisi del giornalismo tradizionale e il mutamento delle forme del dibattito pubblico.

Come si presenterebbe Franco Chiarenza ad un lettore del nostro sito, specialmente se giovane?

Intanto mi presenterei come uno che non è più giovane; come una persona che, avendo passato ormai ottantasei anni di vita, si ritiene un buon testimone di ciò che è avvenuto nella seconda metà del secolo passato e nel primo ventennio di questo secolo.

Hai intitolato il tuo libro, che in seguito ha ispirato il blog, Il Liberale Qualunque. Come mai questo nome, che a una prima lettura potrebbe evocare Guglielmo Giannini e l’Uomo Qualunque?

Come ho scritto nella prefazione, il qualunquismo con il mio liberalismo non ha nulla a che fare. L’espressione “liberale qualunque” nasce dal fatto che del liberalismo si parla sempre come di un concetto astratto: una teoria complicata, che alla fine riguarda pochi intellettuali o comunque un numero ristretto di persone con una particolare cultura. Secondo me, al contrario, il liberalismo riguarda tutti. E tutti noi – senza esserne coscienti – siamo o non siamo liberali non tanto in base alla conoscenza delle teorie ma ai comportamenti di tutti i giorni. E il liberale qualunque – che spesso non sa di esserlo – si contrappone a quanti dicono di esserlo e invece dimostrano il contrario.

Oggi ce ne sono molti, a tuo avviso?

Credo proprio di sì. Nel nostro paese, c’è stato un momento in cui tutti si dicevano liberali. Erano cadute le grandi ideologie nelle quali intere generazioni si erano riconosciute. Non crollò solo il muro di Berlino, ma anche l’illusione che si potesse fare a meno dell’economia di mercato. Improvvisamente tutti si sono sentiti orfani di ideologie di riferimento e sono diventati liberali. Ma il liberalismo, pur essendo estremamente elastico e aperto a molteplici interpretazioni, ha alcuni pilastri; alcuni punti che non consentono deroghe.

Che cosa pensa il liberale qualunque Franco Chiarenza delle tante iniziative di (vera o presunta) ispirazione liberale – associazioni, circoli, pagine Facebook – che oggi sembrano proliferare?

C’è un po’ di tutto. Alcuni di questi sono realmente dei liberali; altri non lo sono. Da certi scritti di presunti liberali emergono convinzioni intolleranti, nazionaliste, talvolta addirittura razziste che con il liberalismo non hanno nulla a che vedere. Altri, invece, sono effettivamente liberali: anche se, com’è ovvio, ci sono quelli che interpretano il liberalismo in modo più liberista e quelli che lo interpretano in modo più liberalsocialista. Però, al di là delle singole ispirazioni, ci sono alcune cose sulle quali tutti i liberali non possono non concordare: la tolleranza per le idee degli altri, la preferenza per un tipo di confronto che non deve mai essere sopraffazione. Se non si accettano questi principi, non ci si può dire liberali.

Da dove nascono tutti questi fraintendimenti intorno al termine liberale?

C’è un equivoco di fondo. Molti confondono il liberalismo con il moderatismo. Dicono di essere liberali perché si sentono moderati rispetto a una certa sinistra e a una certa destra, più o meno immaginarie. Si pensa di essere liberali perché si sta al centro. Questo è un modo sbagliato di concepire il liberalismo.

A proposito di tolleranza per le idee degli altri, mi sembra che questa idea sia anche evocata dal logo del Liberale Qualunque, presente anche nella copertina del libro. Sono raffigurate alcune persone sedute attorno a un tavolo. Che cosa vuole rappresentare quel disegno?

Esattamente quello che tu dici: rappresenta l’idea del dialogo. Questa composizione risale agli anni della mia prima gioventù, quando io e un gruppo di altri ragazzi decidemmo di fare un circolo per discutere di politica. Era un tempo – quello degli anni cinquanta – in cui la politica era molto radicata fra i giovani: si usciva da una guerra mondiale, si apriva una stagione di grandi speranze, tutti erano coinvolti nella politica, c’era molta partecipazione. Avevamo costituito questo piccolo gruppo, del tutto dilettantesco; e uno dei componenti, che era un bravissimo disegnatore, concepì il logo. Quando poi anni dopo abbiamo fatto una rivista, che si chiamava “Democrazia liberale”, lo abbiamo riutilizzato. È un disegno a cui sono anche sentimentalmente legato, tanto che poi ho voluto metterlo nella copertina del libro.

Come racconteresti ad un ragazzo di oggi l’esperienza della politica giovanile del tempo?

È un tema – quello della politica universitaria fra gli anni cinquanta e il 1968, quando poi questa esperienza venne meno – di cui si parla pochissimo. Ebbe una grandissima importanza, se si pensa che almeno la metà della classe politica che ha poi diretto il paese sino alla fine del secolo proviene da lì. Si trattava di una palestra politica degli studenti universitari più impegnati: una minoranza degli studenti, che già erano una minoranza della società, visto che allora l’università era molto più ristretta e più selettiva di oggi.

Ad un certo punto hai intrapreso la carriera di giornalista, anche ad alti livelli, sia in radio che nella carta stampata. Hai lavorato in Rai, e alla storia della Rai hai dedicato un libro importante, “Il cavallo morente”. Però non hai mai avuto il mito della televisione pubblica. Oggi si parla spesso – talvolta con accenti nostalgici, soprattutto alla luce del degrado televisivo di oggi – della vecchia tv pedagogica. Che cosa pensi di quel modello? Era una tv conformista, con tratti di paternalismo, oppure era il modo migliore per offrire, nelle condizioni di allora, un prodotto di alta qualità professionale?

Come sempre, la risposta non può mai essere o bianco o nero. Alla metà degli anni cinquanta, la tv in Italia fu una grande novità. E non tutte le forze politiche ne compresero subito le capacità di condizionamento. Le capì la Chiesa, che aveva visto ciò che stava accadendo in America. Ed era facile prevedere che ciò che era successo lì sarebbe accaduto anche da noi: nel giro di pochi anni, la televisione divenne una delle cose più condizionanti del panorama sociale del nostro paese. A cavalcare questo cavallo si trovò la Dc. La Chiesa temeva che ci sarebbe stata una secolarizzazione di un paese tradizionalmente cattolico, legato ad antiche consuetudini, prevalentemente agricolo, quasi del tutto estraneo – salvo che nelle sue élite – ai grandi movimenti culturali laici che avevano influenzato la storia d’Europa.

L’Italia stava cambiando, nel frattempo.

Sì, questo modello di paese si stava sgretolando, per una serie di ragioni di natura sociale ed economica. In tutto questo, la televisione doveva rappresentare, agli occhi della Chiesa, uno strumento di freno: si voleva che il cambiamento in corso avvenisse mantenendo fermi quei principi cattolici che consentivano alla Chiesa di esercitare un notevole potere di condizionamento sulle masse. Naturalmente, c’era anche una coincidenza di interessi con la Dc: nei primi anni, la Rai fu uno strumento politico, sociale, morale nelle sue mani. Quindi – come hai detto giustamente – rappresentava un modello paternalistico: era una televisione nella quale non si poteva pronunciare la parola divorzio, una tv su cui poi si è giustamente molto ironizzato negli anni successivi. Ma la Rai non è stata solo questo.

Ha avuto anche un ruolo educativo…

La televisione è entrata in tutte le case, anche quelle dove non era mai entrata alcuna forma di cultura che non fosse quella della tradizione popolare. Malgrado il suo paternalismo, la tv fu una finestra spalancata sul mondo. E, in questo senso, cambiò profondamente la natura degli italiani, i quali scoprirono una realtà diversa da quella delle tradizioni familiari. Questo ha avuto degli effetti sconvolgenti, perché ha spinto molte persone a far studiare i propri figli. Gli italiani impararono l’italiano. Quindi la tv di quel tempo – pur perseguendo scopi politici non condivisibili per un liberale – ha avuto degli effetti estremamente positivi, al di là delle intenzioni di chi la governava.

Un’informazione libera è fondamentale per una democrazia liberale. In questo momento storico sono in corso numerose trasformazioni: i politici aggirano spesso la mediazione giornalistica rivolgendosi direttamente ai loro seguaci tramite i social network, spesso trattandoli più come fan che come cittadini elettori; i giornali sono in crisi di vendite e non hanno più la centralità di un tempo; l’informazione televisiva è schiava dei talk show a basso costo, che spesso informano in modo superficiale e sensazionalistico. Come interpreti questi fenomeni? Che ruolo potrà giocare il giornalismo in questo nuovo scenario?

È una domanda molto impegnativa. La tua descrizione della realtà è perfetta: la condivido totalmente. Abbiamo tutto un sistema di mezzi di comunicazioni di massa – attraverso cui si veicola l’informazione – che è in crisi, che non ha più il rilievo che aveva un tempo (benché non sia completamente scomparso, come invece preconizzavano alcuni profeti di sventura). Certamente l’arrivo dei social ha rivoluzionato il vecchio panorama e ha costretto gli operatori dell’informazione tradizionale a misurarsi con un’informazione diffusa. Questo è un fenomeno che, di per sé, un liberale deve considerare positivo, perché allarga i confini dello scambio di informazioni. Questo è l’aspetto apprezzabile del fenomeno.

Quali sono, invece, gli aspetti negativi?

L’aspetto negativo è che attraverso questo allargamento passa di tutto. Innanzitutto, passano cose inaccettabili sul piano della volgarità e della maleducazione; ma su questo si potrebbe anche sorvolare, perché si tratta di sfoghi che ci sono sempre stati e che ora trovano uno strumento di amplificazione. Il punto fondamentale è che passano delle informazioni sbagliate e non verificate. Questo è un punto fondamentale per un liberale. I liberali hanno fatto sempre una battaglia in favore della corretta informazione.

Che cosa dobbiamo intendere per corretta informazione?

Esistono delle regole di correttezza che garantiscono chi legge: citare le fonti, mettere sempre a confronto le diverse opinioni e possibilmente distinguere le proprie opinioni dalla descrizione dei fatti. Questo meccanismo aveva avuto un notevole successo, soprattutto nel mondo anglosassone, tanto da dare alla stampa una credibilità e un prestigio tali da controllare il potere politico per conto dell’opinione pubblica. Questa funzione di mediazione è stata travolta dai nuovi mezzi elettronici. Meccanismi di controllo e di garanzia che erano stati studiati e imposti con molta difficoltà ai mediatori dell’epoca – i giornalisti – oggi sono saltati. Il risultato è che passa una valanga di cattiva informazione, nei cui confronti i fruitori sono completamente indifesi, perché non conoscono neanche il modo per verificare le informazioni che ricevono.

Stai delineando un quadro molto fosco. Il giornalista non ha più alcun ruolo, in questa nuova realtà?

Ovviamente non bisogna buttar via il bambino con l’acqua sporca: i social restano un fatto importante e utile ai fini della crescita politica, liberale e democratica, del paese. C’è però il problema di cui parlavo. Non so come si potrà risolvere, ma vedo qualche schiarita. I giornalisti – persa la loro funzione di mediatori esclusivi – ne stanno acquistando un’altra, quando sono bravi: quella di verificare la correttezza dell’informazione. Questo forse può limitare il fenomeno gravissimo delle fake news, che come abbiamo visto arriva ad incidere sui risultati delle elezioni politiche.

Ti riferisci all’elezione di Trump?

Sì. Gli Stati Uniti hanno passato un momento estremamente sgradevole della loro storia. Poi c’è stata una reazione. Il problema delle fake news, che oggi è al centro della discussione in America, dovrebbe diventare centrale anche in Europa. Da questo passa il futuro delle istituzioni liberali, delle istituzioni garantiste: che garantiscono cioè il cittadino affinché non venga imbrogliato.

Sei sbarcato su internet a più di ottant’anni. Che cosa ti ha spinto ad aprire il blog?

Internet è la più grande invenzione della storia della comunicazione dopo l’invenzione della stampa. Condizionerà fortemente il nostro futuro. E quindi ho sentito il bisogno di starci dentro, naturalmente con le forze di cui potevo disporre, che erano ben poche. Però internet ha questo vantaggio: consente a tutti, anche a coloro che non posseggono grandi mezzi, di essere presenti in qualche modo nel dibattito pubblico. Una volta non era così: se non avevi il denaro necessario per fare un giornale o mettere su una televisione, ne eri praticamente escluso, se non per piccole nicchie. Internet dà la possibilità di allargare enormemente le possibilità di espressione e cambierà completamente il modo di comunicare delle prossime generazioni. E l’umanità progredisce o regredisce in funzione della sua capacità di comunicare: esperienze, informazioni, sentimenti, tutto ciò che ogni persona ha dentro di sé. Internet è all’inizio di una lunga storia, che durerà per qualche secolo.

A cura di Saro Freni

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