La nuova faccia dell’Unione
In tempi relativamente brevi l’Unione Europea ha deciso i nuovi vertici istituzionali dopo le elezioni del 26 maggio. L’asse franco-tedesco è riuscito a imporre ancora una volta le proprie scelte giocando la partita anche sulla scadenza del governatore della Banca Centrale: alla presidenza della Commissione è stata designata Ursula Von Der Leyen, democristiana tedesca molto legata alla cancelliera Merkel mentre il posto di Draghi alla presidenza della BCE verrà occupato da Christine Lagarde, centrista francese in totale sintonia col presidente Macron e direttore uscente del Fondo Monetario Internazionale. Sono le due cariche che contano: le altre sono di contorno. La presidenza del Consiglio Europeo, che si limita a coordinare i lavori del massimo organo decisionale dell’Unione, è andata a Charles Michel, liberale belga, alla presidenza del Parlamento, puramente rappresentativa, è stato eletto un italiano, David Sassoli, esponente socialista in opposizione all’attuale maggioranza che governa in Italia, mentre il coordinamento dell’inesistente politica estera europea, dove Renzi aveva confinato l’ineffabile Federica Mogherini, è stato affidato al socialista spagnolo Josep Borrell. Scelte che hanno suscitato qualche malumore nel parlamento di Strasburgo più per ragioni di metodo che di sostanza.
In questo modo Macron e la Merkel hanno chiuso una trattativa che ribadisce il loro ruolo direttivo e prende atto dell’esistenza di una maggioranza nel parlamento di Strasburgo composta dai tre partiti tradizionali dell’Unione: popolari (democristiani), socialisti e liberali, con la probabile aggiunta dei verdi. Le minoranze sovraniste e nazionaliste, uscite molto rafforzate dal voto di maggio, sono riuscite soltanto a bloccare l’elezione del socialista Leo Tindemans alla presidenza della Commissione avvalendosi anche del contributo di undici governi (tra cui l’Italia), ma hanno dovuto poi subire il diktat franco-tedesco che ha portato al vertice della Commissione un’esponente del partito popolare che, contrariamente a Tindemans e Warner, non si era esposta in campagna elettorale come candidata: in pratica il “corridoio” ha prevalso sulla trasparenza e questo non è un buon inizio per la nuova governance europea.
La vera posta in gioco era in realtà la presidenza della Banca Centrale di Francoforte. La successione di Draghi era cruciale: una politica monetaria restrittiva che rimettesse in discussione le scelte coraggiose del banchiere italiano, come forse volevano parti importanti dell’establishment tedesco, proprio nel momento in cui si stanno realizzando passaggi importanti verso l’unione bancaria, era considerata con preoccupazione da Macron (e forse anche da Merkel). Concedendo però alla Francia la guida della regolazione monetaria e bancaria diventava impossibile per la Germania non tornare a casa senza la presidenza della Commissione che, peraltro, non dispiaceva a Macron probabilmente preoccupato delle aperture “sociali” di Tindemans. La sorpresa, un vero coniglio tirato fuori dal cappello all’ultimo momento, è stata la scelta della candidata, Van Der Leyen invece di Weber che era stato designato dal partito. Una donna energica, attualmente ministro della difesa, considerata europeista convinta e lontana da quegli imbarazzanti cedimenti nei confronti della “democrazia illiberale” di Orban di cui invece Weber era stato accusato. Se quindi Van der Leyen supererà il voto dell’assemblea di Strasburgo (meno scontato di quanto si pensi) avremo probabilmente una presidenza forte in grado di guidare con fermezza una commissione molto frammentata in cui la distribuzione delle competenze sarà fondamentale.
La difficile partita di Conte.
La posizione dell’Italia si presentava molto difficile e il presidente Conte (probabilmente con la regia occulta del Quirinale) l’ha giocata meglio che poteva. Di fatto era evidente che il nostro Paese non poteva ambire alle posizioni più importanti, però era possibile contrattare il voto italiano nel Consiglio in cambio di una sospensione della procedura d’infrazione (una patata bollente che peraltro la vecchia Commissione già intendeva trasferire ai suoi successori) e un posto nella Commissione di sufficiente prestigio. Ottenuto il primo risultato – peraltro con impegni di riduzione del debito pubblico che appaiono poco realistici – ora si deve decidere sul commissario; scelta non facile che Conte si è affrettato a “girare” a Salvini, riconoscendolo come rappresentante di una maggioranza di fatto. Il rischio è che una candidatura troppo esposta sulle idee sovraniste rischia di non ottenere il necessario placet dell’assemblea di Strasburgo: per questo motivo probabilmente Giorgetti non vorrà correre il rischio di una bocciatura e circolano nomi più digeribili come quello dell’illustre revenant Giulio Tremonti.
Staremo a vedere. Quello che è certo è che l’Italia esce molto indebolita dai nuovi assetti europei: sostanzialmente isolata sul problema dei migranti, in bilico per una possibile procedura d’infrazione per eccesso di deficit, esclusa definitivamente dalle “intese rafforzate” tra Francia e Germania, ininfluente nella guerra civile che sta devastando la Libia. Nè va meglio fuori dall’Europa: le carezze di Di Maio a Xi Jinpeng come gli abbracci di Salvini a Putin nascondono il vuoto ma suscitano ulteriori diffidenze a Washington. Perché finché i nostri sovranisti operano per deligittimare l’Europa Trump non ha nulla da obiettare (anzi!) ma aprire le danze con la Cina e la Russia significa giocare col fuoco. Col rischio di bruciare non soltanto Di Maio e Salvini ma anche l’Italia nel suo complesso.
Franco Chiarenza
7 luglio 2019
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