Se l’Europa perde l’anima
L’Unione Europea naviga ormai allo sbando senza una rotta sicura, con un equipaggio diviso sulle scelte e spaventato dai cambiamenti climatici, con un capitano giunto al comando da poco – tale Emmanuel Macron – il quale sta dimostrandosi inesperto e inaffidabile. Le difficoltà, i contrasti, le diverse strategie di navigazione non erano mancati neanche in passato ma la volontà di raggiungere, prima o poi, il traguardo dell’unità politica non pareva in discussione. Adesso sembra che non sia più così. L’Unione si chiama così ma in realtà è un apparato burocratico che gestisce alcuni trattati i quali regolano in qualche modo e con diverse applicazioni quanto basta per fare funzionare un mercato comune. Ogni passo successivo è rimesso alla volontà di tutti i ventisette governi e parlamenti nazionali, che è come dire che passi avanti non se ne fanno mai. Al traguardo stabilito dai “padri” dell’Europa non pensa più nessuno.
La sala macchine
Nessuna nave può navigare se non funzionano le macchine che devono spingerla. Ciò che spinge l’Europa è il suo apparato produttivo, secondo al mondo dopo quello americano; di esso la “locomotiva” tedesca costituisce la parte più importante. Se si ferma la Germania si ferma l’Europa, piaccia o no. E in Germania, modello di stabilità anche politica e di ferme convinzioni europeistiche da settant’anni a questa parte, si respira un’aria di rivolta che rischia di bloccare la “sala macchine”. Bisogna dare atto a Angela Merkel di avere fatto il possibile per mantenere la rotta; le rigidità che tanti suoi critici le rimproverano servivano a mantenere la disciplina in un equipaggio che scalpitava chiedendo politiche ancor più rigorose nei confronti delle ciurme meno disciplinate (soprattutto quelle mediterranee).
Il ponte di comando
Quando Macron, appena eletto, ha fatto suonare l’inno europeo di Beethoven prima della Marsigliese, tutti capirono che il nuovo presidente francese si candidava autorevolmente al ruolo di comandante della nave europea. Gli altri partner per motivi diversi erano disposti a riconoscerlo; anche perché nessuna Europa è possibile senza la Francia, per ragioni geografiche, storiche, culturali e anche economiche che nessuno poteva disconoscere. Ma anche il nuovo comandante si è impantanato; un po’ perché la sua salda alleanza con la sala macchine della Merkel ha dovuto tener conto della crisi politica tedesca, molto anche perché pure la sua ciurma sente la sirena del nazionalismo ed è sempre pronta a sventolare il tricolore francese piuttosto che la bandiera stellata dell’Europa. Entrambi, Macron e Merkel, hanno gestito male gli abbordaggi dei disperati che fuggono dalle guerre, dalla fame, dall’intolleranza e che chiedono di salire a bordo, lasciando che si arrampicassero nella parte meno difendibile, l’Italia.
Il gruppo di Visegrad
Oggi in Europa si profilano tre linee di tendenza, molto diverse tra loro. La prima fa capo a un gruppo di paesi che hanno assunto la denominazione di “gruppo di Visegard”: comprende la Polonia, l’Ungheria, la Cechia e la Slovacchia, ma gode di crescenti simpatie in Slovenia e in Austria. In esso prevale la cultura nazionalista su quella democratica e liberale che ha caratterizzato fino ad oggi la costruzione dell’Europa. Non si tratta soltanto di mantenere una linea di chiusura all’immigrazione ma anche di mettere in discussione lo stato di diritto fondato sull’indipendenza della magistratura, sulla libertà di informazione, sul pluralismo politico. Si sta in Europa soprattutto per quattro ragioni che con il traguardo dell’unità politica non hanno nulla a che fare: la paura della Russia, nella cui sfera di influenza non si vuole ricadere; i vantaggi economici del mercato comune che si sono tradotti in massicci investimenti ai quali si deve l’innalzamento del loro tenore di vita; le politiche di sostegno economico di cui hanno potuto usufruire; infine l’emigrazione che con l’apertura delle frontiere ha consentito a centinaia di migliaia di emigrati polacchi di finanziare con le loro rimesse dalla Germania e dalla Gran Bretagna lo sviluppo economico del loro paese. Il gruppo di Visegrad quindi non è contro l’Europa; vuole prendere da essa quanto le conviene e non concedere nulla che possa mettere in discussione il modello nazionalistico e intollerante che sta realizzando.
L’Europa del nord
I paesi del nord (Benelux, Scandinavia, repubbliche baltiche) sono quelli che hanno guardato alla Brexit con maggiore preoccupazione per ovvie ragioni geopolitiche ma anche culturali ed economiche. Essi non intendono approfondire il solco con la Gran Bretagna come forse avverrebbe realizzando un’Europa a due velocità, preferiscono mantenere le cose come stanno e in ciò finiscono per condividere la posizione del gruppo di Visegard. Un’Europa in sostanza ridotta a poco più di una grande zona di libero scambio con poche regole finalizzate essenzialmente alla libera circolazione (come Schengen), politicamente integrata alla NATO (e quindi agli Stati Uniti) in funzione anti-russa (aspetto particolarmente importante per i paesi che si affacciano sul Baltico) è per essi, almeno per il momento, il massimo. I problemi del Mediterraneo appaiono lontani e comunque non intendono farsene carico.
L’Europa mediterranea
Naturalmente del tutto diversi sono gli interessi dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Per essi la questione dell’immigrazione dall’Africa non è un problema contingente ma un movimento inarrestabile che occorre regolare per evitare che si trasformi in un incubo. La solidarietà europea, e quindi una seria condivisione dei rischi, è per l’Italia, la Spagna e la Grecia, questione di fondamentale importanza. Trattandosi oltre tutto del “ventre molle” dell’Unione sia dal punto di vista economico che per stabilità politica, ignorare ciò che avviene nel Mediterraneo rappresenta una pericolosa sottovalutazione della reciprocità delle interferenze ampiamente dimostrata dalla lunga storia dell’Europa. Pensare che le guerre che insanguinano il Vicino Oriente e l’Africa non influiscano sul futuro di tutto il continente europeo e non soltanto dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo costituisce un’ingenuità imperdonabile.
Vi è poi il problema del debito pubblico, meno grave di quanto si creda generalmente, ma che rappresenta per certa opinione pubblica del nord-Europa la certificazione di una incapacità di gestione della “cosa pubblica”, incompatibile con i parametri di efficienza scandinavi o tedeschi. In Germania c’è chi non aspetta altro per avere il pretesto per “commissariare” l’Italia come è stato fatto per la Grecia.
L’asse incrinato. Guai se si spezza
Per concludere. L’Europa ha fondato le sue prime strutture dopo la seconda guerra mondiale su un’idea forte che leader di grande prestigio imposero ai loro paesi: il superamento delle rivalità che avevano insanguinato il continente nei secoli precedenti attraverso la costituzione di un involucro istituzionale al cui interno le inevitabili controversie potevano essere composte senza più ricorrere alle armi. Per ottenere questo risultato, mutuato dal successo del modello americano che era sotto gli occhi di tutti, occorrevano due condizioni: la convinzione che i valori politici e morali occidentali usciti vincenti dal conflitto con il nazi-fascismo rappresentassero il fondamento culturale di questa nuova identità, e l’accantonamento degli interessi più conflittuali, a partire dalla messa in comune delle materie prime essenziali come il carbone e l’acciaio (da cui nacque la CECA), dal superamento delle frontiere interne, dalla creazione di una forza militare di difesa comune (che venne meno col fallimento del progetto CED). L’asse fondamentale su cui questa idea poteva essere realizzata era quello che univa Parigi a Bonn (prima che Berlino tornasse ad essere la capitale della Germania); ne furono convinti assertori Schuman, Monnet, Adenauer e i loro successori. De Gasperi intuì l’importanza politica e ideale di questo progetto e subito vi si associò portando l’Italia nel gruppo dei paesi fondatori.
Su queste basi, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che hanno spesso costretto a deviare dal progetto originario, è stata costruita l’Unione Europea; un edificio ancora incompleto, privo di un tetto comune, ma che comunque ha consentito a tutti i popoli europei una crescita senza precedenti e una qualità della vita unica al mondo. Ma se l’asse su cui è stato fondato si spezza l’intera costruzione rischia davvero di crollare; per ora regge ma è fortemente incrinato.
E non lo è per gli interessi contrastanti che scuotono l’Unione, ma perché sembra venuta meno l’idea forte per la quale era stata concepita, che non era una somma algebrica degli interessi nazionali ma il riconoscimento di valori comuni che ci facevano stare insieme; come appunto è stato negli Stati Uniti dove “essere americani” non significa essere in grado di comporre gli interessi della California con quelli dell’Alaska ma qualcosa di più, di molto di più.
Franco Chiarenza
1 luglio 2018
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