Stato e Chiesa. Ancora Concordato?

L’11 febbraio ricorre il novantesimo anniversario della firma dei patti lateranensi e del concordato, un insieme di accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede meglio conosciuti come “Conciliazione”.
Ricordarlo, e valutare al contempo qual è oggi la situazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica, sembra opportuno. Almeno per un liberale.

11 febbraio 1929
Cosa avvenne in quel giorno quando Benito Mussolini, capo del governo italiano, e il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato della Chiesa cattolica, sancirono la conciliazione tra il regno d’Italia nato dal Risorgimento e la Chiesa romana che da quell’evento era stata privata del suo secolare dominio temporale su vaste regioni della penisola?
Non è questa la sede per raccontare e interpretare per l’ennesima volta un evento su cui si è nel tempo accumulata una pubblicistica esauriente; basta ricordare alcuni punti essenziali.

  1. il Concordato fu possibile con il fascismo mentre non riuscì mai con i governi liberali (che pure lo avevano cautamente cercato) perché potè configurarsi come un patto tra due assolutismi, quello religioso e intollerante della Chiesa di allora (ancora condizionata dal “Sillabo” di Pio IX) e quello politico che il fascismo stava consolidando in Italia. Il riconoscimento del cattolicesimo come “religione di Stato” e il giuramento di fedeltà dei vescovi allo Stato italiano ne rappresentano l’elemento emblematico.
  2. la Chiesa otteneva col Concordato non soltanto una posizione privilegiata ma soprattutto il rovesciamento del principio cavourriano “Libera Chiesa in libero Stato”. Il fascismo riceveva una legittimazione politica e morale che rafforzava le deboli basi costituzionali su cui poggiava essendo ancora vigente lo Statuto del 1848. Mussolini diventava così nelle parole del papa “un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale”.
  3. lo Stato versò a vario titolo alla Chiesa una somma considerevole che ha costituito la base dei privilegi economici e fiscali su cui il Vaticano ha costruito il suo potere finanziario sovranazionale.

26 marzo 1947
L’Assemblea costituente eletta l’anno prima per redigere la nuova Costituzione approvava dopo un’aspra discussione l’articolo 7 che incorpora i patti lateranensi nel testo costituzionale malgrado le evidenti contraddizioni con i principi costituzionali, lasciando aperta una finestra a una possibile revisione soltanto col consenso della Chiesa. I comunisti sorprendentemente votarono a favore e il loro consenso fu determinante. Si trattò, visto col senno di poi, di una prova generale del compromesso storico in salsa togliattiana. Il leader comunista sapeva che una presenza comunista nel governo di un Paese allora profondamente cattolico, priva dell’”assistenza” dell’armata rossa (che era stata determinante in altri paesi dell’Europa orientale), sarebbe necessariamente passata attraverso un accordo con la Chiesa; intesa fattibile perché fondata su una comune avversione ai principi della democrazia liberale occidentale e a una possibile convergenza su politiche economiche dirigiste a forte contenuto sociale. Contava molto nell’atteggiamento comunista anche la consapevolezza che il voto femminile, molto condizionato in quegli anni da preoccupazioni di ordine religioso, potesse indebolire la posizione elettorale dell’estrema sinistra.

18 febbraio 1984
Passarono 37 anni prima che finalmente un governo italiano ponesse con decisione il problema di una revisione del Concordato che eliminasse almeno le clausole più anacronistiche del trattato. Il nuovo Concordato fu firmato a villa Madama da Bettino Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli; si trattò naturalmente di un compromesso che peraltro eliminava alcune assurdità come il riconoscimento di religione di Stato al cattolicesimo, la riduzione di alcuni privilegi ecclesiastici e la non obbligatorietà dell’insegnamento della religione nelle scuole. Apprezzabile apparve anche il nuovo sistema di finanziamento del sostentamento del clero posto, almeno in linea di principio, ai contribuenti che destinavano l’8 per mille dell’imposta a tal fine (principio poi esteso ad altre confessioni religiose). Purtroppo l’attuazione concreta delle nuove norme mostrò tutta la sua ambiguità: l’8 per mille fu calcolato sull’intero ammontare delle entrate tributarie, consentendo alla Chiesa di incassare centinaia di milioni, l’insegnamento della religione cattolica è restato prevalente per la resistenza dei ministri che si sono succeduti alla pubblica istruzione di istituire corsi alternativi, l’immenso patrimonio immobiliare della Chiesa è stato praticamente esentato dalle tasse (fino a quando, un anno fa, è intervenuta in proposito la Corte di giustizia dell’Unione Europea).

Oggi
Sono passati altri 35 anni. A che serve ancora un Concordato, non sarebbe ora di abolirlo e di mantenere nella sua essenza liberale e pluralista soltanto l’articolo 19 della Costituzione? L’Italia è profondamente cambiata, è un paese secolarizzato in cui la questione religiosa ha perso buona parte della sua rilevanza, il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, con la definitiva costituzione di uno Stato della Città del Vaticano, non si pone più in termini conflittuali. Anche la Chiesa è cambiata: con il Concilio Vaticano II (che ha legittimato il pluralismo religioso) e soprattutto con le encicliche di Giovanni XXIII ha definitivamente abbandonato le posizioni illiberali e oltranziste che avevano caratterizzato il Concilio Vaticano I (interrotto il 20 settembre 1870 dall’irruzione dei bersaglieri nella città). La successiva elezione di pontefici non italiani ha accentuato la dimensione planetaria del suo magistero e ha diminuito la pressione temporale che continuava a esercitare sul nostro paese e la presenza cattolica, ormai minoritaria, è sentita soprattutto come attività assistenziale.
A che serve dunque un Concordato? Un papa come Bergoglio, molto attento a restituire alla Chiesa una dimensione morale e spirituale, dovrebbe essere il primo a rendersi conto che l’esistenza di accordi privilegiati con gli Stati – perchè tale è l’essenza dei Concordati – non ha alcuna ragione di essere se davvero la Chiesa intende ridurre la sua dimensione temporale.
Consegniamo dunque alla storia per sempre la “questione romana” con tutte le sue evoluzioni. Mai come oggi Stato e Chiesa sono indipendenti, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, come recita l’apertura dell’articolo 7; il resto è superfluo e dannoso a entrambi.

 

Franco Chiarenza
11 febbraio 2019

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