Stato imprenditore?
Si torna a parlare di “Stato imprenditore” per il dopo “coronavirus”. Ne ha scritto, tra gli altri, Mario Lupo sul “Sole 24 ore” e il suo intervento merita particolare attenzione non soltanto perché essendo ospitato dal quotidiano della Confindustria può apparire un segnale di disponibilità a discuterne da parte degli imprenditori, ma anche perché proviene da una persona nota per il suo impegno nell’impresa pubblica e privata e di chiaro orientamento liberale avendo anche presieduto la Fondazione Einaudi di Roma prima di prendere le distanze dalla sua attuale gestione.
Parliamone dunque serenamente e senza pregiudizi e tenendo conto della situazione di emergenza in cui si trova dopo la pandemia Covid-19 l’Europa e in particolare il nostro Paese.
In passato
Come è ben noto l’Italia ha una lunga tradizione di interventismo pubblico nell’economia che risale alle sue stesse origini industriali e che aveva trovato negli anni’30 una sistemazione giuridica con la creazione dell’IRI dopo la crisi mondiale del 1929. Non a caso a una nuova IRI tutti pensano quando si parla di intervento dello Stato. Hanno torto quanti lo ricordano semplicemente come un “carrozzone” costoso che salvava in perdita aziende decotte e serviva soprattutto a sistemare i tanti “clientes” dell’apparato politico (prima fascista, poi democristiano). Esso fu anche questo ma non possiamo negare la meritoria funzione di sostegno che svolse prima della guerra salvando importanti settori del credito e dell’imprenditoria, come pure dobbiamo riconoscere quanto dobbiamo all’IRI per la rapida realizzazione negli anni ’50 di quelle infrastrutture senza le quali la ripresa economica del Paese non sarebbe partita. Hanno però torto anche quanti ritengono che sopprimerlo sia stato un errore: in realtà alla fine del secolo scorso l’intervento pubblico non aveva più ragione di essere in settori non più strategici che con l’abbattimento delle barriere doganali dovevano confrontarsi con la concorrenza europea e, in parte, anche mondiale. Dove ancora la presenza dello Stato aveva senso, nell’approvvigionamento energetico per esempio, essa è stata mantenuta (seppure con partecipazioni di minoranza) rispettando le logiche di mercato e affidandola a un management che quasi sempre si è dimostrato efficiente (e quando non lo è stato ciò si deve a interferenze politiche le quali, anche con le migliori intenzioni, costituiscono sempre il vero rischio di degenerazione implicito nelle partecipazioni pubbliche).
Nel presente
Oggi lo Stato è ancora molto attivo, non soltanto nelle infrastrutture e nell’approvvigionamento energetico, ma anche in settori produttivi di grande importanza: basti pensare a Fincantieri e a Leonardo (ex-Finmeccanica) che, governate con criteri di efficienza imprenditoriale, rappresentano punte di eccellenza in Italia e nel mondo. Il problema non è dunque se possa esistere uno “stato imprenditore”: c’è già, come anche in Francia (è il caso di Renault) e altrove. E neanche se sia opportuno un suo ampliamento per fare ripartire l’economia dopo il Coronavirus; laddove se ne riscontri la convenienza nulla lo impedisce, anche in un contesto liberale, però ad alcune precise condizioni.
La prima è che si tratti di un intervento emergenziale dovuto alla necessità di ristabilire le condizioni di mercato preesistenti alla crisi. Nessun salvataggio dunque di aziende che erano già decotte e fuori mercato, e limitazione nel tempo dell’intervento pubblico che deve cessare appena l’impresa è in grado di affrontare il mercato (anche per non distorcere la concorrenza la cui tutela resta un punto fondamentale dell’economia liberale).
La seconda condizione è che la partecipazione pubblica sia di regola minoritaria, in modo da garantire un management qualificato non condizionato da logiche politiche. Quando ciò non sia possibile (vedi Alitalia) occorre procedere alla nomina dei vertici con procedure trasparenti soggette al controllo parlamentare (come avviene negli Stati Uniti quando il Senato verifica le competenze e i curricula dei candidati a incarichi pubblici di rilievo).
La terza condizione è che non vi siano privilegi sindacali rispetto alla normativa comune.
Per fare questo è necessario ricostituire l’IRI o qualcosa che gli somigli? Non credo. Se le intenzioni sono quelle di superare l’emergenza e tornare al più presto alle logiche di mercato una struttura centrale è inutile e rischia di trasformarsi in un carrozzone burocratico dominato da esigenze clientelari. Esiste già Fintecna che può perfettamente adempiere allo scopo.
Mi permetto però di suggerire, arrivati a questo punto, due altre priorità che mi paiono anche più urgenti di quella di una partecipazione pubblica nelle imprese.
Lavori pubblici
Con i soldi che verranno (dall’Europa o altrove) occorre fare ripartire le tante opere pubbliche impantanate nelle paralizzanti procedure burocratiche. Le regole stabilite per la ricostruzione del ponte di Genova (che, a quel che pare, hanno funzionato bene) vengano estese ad altre che abbiano una valenza strategica riconosciuta.
Forse è venuto anche il momento di riprendere il progetto per il ponte sullo stretto di Messina: un’opera imponente la cui costruzione darebbe fiato per alcuni anni all’economia e all’occupazione e apporterebbe indubbi benefici alla Calabria e alla Sicilia, e per la quale è certamente possibile ottenere un co-finanziamento dell’Unione Europea. Infiltrazioni mafiose? Se non sappiamo difendercene da soli non faremo più nessuna opera pubblica nel sud mentre nulla garantisce che le infiltrazioni emigrino al nord (come è già avvenuto).
Debiti della pubblica amministrazione
Basterebbe che la pubblica amministrazione (Stato, Regioni, enti territoriali) pagassero i debiti arretrati con le imprese che hanno vinto ed eseguito da tempo gli appalti perché molte aziende possano ricapitalizzarsi, diminuire i costi finanziari e ripartire senza altri sostegni pubblici. Non lo dico soltanto io, lo affermano coralmente tutti gli imprenditori, piccoli e grandi. Non si tratta infatti, come molti pensano, soltanto di liberare risorse per le grandi imprese ma soprattutto per quelle medie e piccole, più esposte ai condizionamenti bancari. Ditte, fornitori locali, aziende che maledicono il giorno in cui hanno partecipato a un appalto pubblico.
Sono cose che si possono fare subito. Purtroppo invece molti preferiscono un’ambigua politica di sussidi, sostegni, finanziamenti pubblici politicamente condizionati che appaiono finalizzati al superamento delle stringenti logiche di mercato, in una parola l’anticipazione di una pianificazione industriale dettata dallo Stato approfittando del Covid-19 per voltare le spalle all’economia liberale (che è cosa diversa dal liberismo senza regole). Per conseguire tale obiettivo (che non è soltanto di alcuni settori della destra sopranista) serve davvero un nuovo IRI e anche bello grosso; un serbatoio gigantesco dove piazzare amici e sostenitori incompetenti e spesso invadenti. Le smentite pioveranno da ogni parte ma diceva l’infido e diffidente Andreotti che a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.
Franco Chiarenza
19 maggio 2020
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