Con la scomparsa di Stefano Rodotà la cultura giuridica e politica del nostro Paese subisce una grave perdita, comunque si possano condividerne o meno le idee.
Di formazione liberale (era politicamente cresciuto nella Gioventù Liberale) aveva abbandonato il PLI insieme a Giovanni Ferrara nel corso della lunga storia di divisioni e ricomposizioni che ha caratterizzato la storia del partito di via Frattina prima della sua definitiva scomparsa come soggetto politico e parlamentare negli anni ’90.
L’ho conosciuto, ho avuto occasione di discutere con lui e di apprezzarne la sottile intelligenza giuridica che ne accompagnava l’impegno politico, dalla militanza radicale fino all’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del partito comunista. Malgrado tale discutibile approdo la sua ideologia era quanto di più lontano si possa immaginare dal modello comunista, almeno nella dimensione storica che ha assunto nelle sue principali realizzazioni in Unione Sovietica e in Cina. Come molti altri (a cominciare da Gobetti) Rodotà immaginava che ogni autentica rigenerazione liberale non potesse prescindere dalla concreta estensione dei diritti di cittadinanza (che egli immaginava assai vasti e concretamente ancorati a condizioni economiche soddisfacenti) a tutti coloro che non erano in grado di esercitarli. Da qui la sua attenzione per i partiti che – a suo giudizio – meglio ne rappresentavano gli interessi (e quindi per i comunisti, soprattutto dopo il crollo dei regimi autoritari coi quali si erano identificati).

L’importanza di Rodotà tuttavia non era connessa alla sua disponibilità a porre il suo impegno politico al servizio di chiunque in qualche misura ne condividesse gli obiettivi (variamente strumentalizzato, in ultimo anche dal movimento Cinque Stelle) ma nel ruolo che egli ha svolto nella filosofia dei diritti. Ha speso la vita a studiarne le infinite connessioni allargandone la sfera oltre il limite in cui – almeno da un punto di vista liberale – la loro tutela comporta per le libertà individuali rischi non commensurati ai diritti che si intendono garantire; e ciò per l’evidente allargamento dell’intervento pubblico che tale tutela comporta. Né vale la distinzione tra lo Stato e altre forme di organizzazione collettiva che comunque aumenterebbe lo spazio comunitario a spese di quello dell’iniziativa privata fino a sfiorare pericolosamente la riproposizione di uno stato etico. Leggendo i suoi libri più recenti – sempre acutamente argomentati – non si può sfuggire all’impressione che le soluzioni proposte da Rodotà comportino inevitabilmente un dirigismo statale onnipotente, sia pure riorganizzato attraverso complicate formule di partecipazione democratica elaborate essenzialmente al fine di sanare la contraddizione di cui egli stesso si rendeva perfettamente conto.
Tutto ciò comportava alcune conseguenze che uno studioso della sua intelligenza non poteva mancare di cogliere: a cominciare da un sostanziale ridimensionamento del sistema rappresentativo parlamentare ereditato dalla tradizione liberale fino alla messa in discussione del diritto di proprietà. Si finisce così per ricadere in un utopico comunismo liberale (che d’altronde è facile rintracciare anche in alcuni scritti di Marx e di Engels, fino a risalire a Saint Simon). Un utopismo che di fatto finisce per essere utilizzato per strangolare le libertà concrete di oggi – in via transitoria, naturalmente – in attesa di renderle più complete domani.
Ma – come scriveva Isaac Berlin – per troppo tempo si è giustificata la rottura delle uova per realizzare una meravigliosa frittata; di uova se ne sono rotte tante ma la frittata non si è vista, o meglio, quella che si è vista non valeva certo – nemmeno in minima parte – le sofferenze e gli stermini che aveva prodotto.

 

Franco Chiarenza
15 giugno 2017

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