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Il sistema partitico è in crisi. Se si devono fare delle riforme istituzionali, occorre farle adesso. Ma è necessario anche organizzare un’offerta politica per chi non si riconosce né in questa destra né in questa sinistra.

Su internet è Il Liberale Qualunque, che è il nome del suo blog di analisi e commenti. Nella vita reale (ma anche internet ormai è vita reale) è Franco Chiarenza, classe 1934: un passato da giornalista Rai e docente di storia della comunicazione, un presente da acuto osservatore della realtà italiana e non solo. Lo abbiamo intervistato per I Liberali.

Come vede un “liberale qualunque” l’Italia del 2021?

Questa è l’Italia all’insegna di Draghi: lo è stata in questi ultimi mesi del 2021 e lo sarà presumibilmente per tutto il 2022. Ma il discorso va oltre la sua persona, che imprevedibilmente continua a riscuotere la fiducia della maggior parte degli italiani. Il problema è istituzionale: le istituzioni repubblicane, per come sono arrivate fino ad oggi, non sono adeguate a governare delle realtà complesse e difficili come quelle che ci troviamo di fronte adesso e ancor più domani. Questo, secondo me, è il nodo che si deve in qualche modo sciogliere; anche per evitare che venga risolto in modo traumatico dagli eventi.

Cioè, bisogna affrettarsi a fare le riforme istituzionali prima che sia troppo tardi?

Ho letto una cosa che ha scritto Enrico Cisnetto e che condivido. Se si devono fare delle riforme istituzionali – senza le quali non si riesce a sbloccare la situazione – occorre farle adesso. Non bisogna aspettare che si crei una situazione di ingovernabilità. Quando si cambiano le strutture istituzionali, cambia tutto, anche il modo di votare della gente. Non è vero che la cosiddetta ingegneria istituzionale non serve a nulla. Ne abbiamo la dimostrazione se pensiamo a come è cambiato il governo degli enti locali dopo che è stata introdotta l’elezione diretta del sindaco.

A tuo avviso il governo Draghi è una parentesi oppure può essere l’inizio di una nuova fase della nostra vita politica?

Penso che nulla dopo Draghi sarà come prima, proprio perché è stata messa in luce la fragilità del sistema partitico. Il problema è esattamente quello della riforma istituzionale, a cominciare dai poteri del capo dello Stato. È vero che i poteri presidenziali sono come una fisarmonica, tutto dipende da chi occupa il Quirinale, ma, come dice Ainis, anche la fisarmonica ha dei limiti oltre i quali non può andare. Per questo bisogna mettere mano a una vera riforma costituzionale che, insieme ad altre cose, ridisegni i poteri del presidente. Siamo di fronte ad una svolta importante.

Secondo molti commentatori, alle ultime elezioni amministrative ha vinto chi si è presentato come più ragionevole e moderato. Il messaggio è che il paese è stanco di inutili baruffe? È ancora vero, persino nell’era del populismo, che si vince al centro?

A mio giudizio, le amministrative vanno lette in un altro modo. Si conferma un dato, che non vale solo per il nostro paese: l’elettorato più consapevole e informato, quindi meno sensibile al richiamo del populismo, è concentrato nelle città grandi e medio-grandi. La forza del populismo, basato sugli slogan e sulle approssimazioni, viene da quell’immensa periferia che è costituita dai piccoli centri. Lo dimostra se non altro il fatto che la destra non riesce nelle grandi città nemmeno a trovare dei candidati credibili.

Dicevi che questo non vale solo per il nostro paese…

Sì, nel senso che anche in altri paesi europei c’è una spaccatura profonda tra l’elettorato delle grandi città e quello arroccato nelle piccole realtà locali. Vale anche per i paesi dell’Est. Non a caso, nelle grandi città polacche o ungheresi governano partiti che sono all’opposizione nel parlamento nazionale. Vale per Varsavia e vale per Budapest. Abbiamo avuto in questi giorni la sorpresa della vittoria dell’opposizione di centrodestra contro il governo sovranista della Repubblica Ceca: e già prima a Praga c’era un sindaco che era su posizioni diverse da quelle del governo centrale. C’è questa spaccatura profonda, che è soprattutto culturale ma si riflette anche nelle scelte politiche.

Tornando all’Italia, parlavi dei candidati poco credibili della destra. Da dove nasce questa inadeguatezza?

La debolezza della destra, da quando è venuta meno l’egemonia democristiana, è che riesce ad avere dei leader più o meno carismatici ma non una classe dirigente in grado di governare realmente il paese. La Lega fa eccezione, ma solo in parte: nel nord Italia – e quindi dove sicuramente è più forte l’asse Giorgetti-Zaia – ha un radicamento territoriale e un’esperienza di governo che ormai risale a decenni fa, e questo fa la differenza con Fratelli d’Italia. Nel centro sud è vero il contrario; il partito di Giorgia Meloni ha ereditato dall’esperienza dei quadri di Alleanza Nazionale una presenza articolata in grado di assorbire i sentimenti populisti man mano che emergono.

Perché allora hanno perso a Milano e in altri centri importanti?

Perché una parte dell’elettorato della Lega è disorientata e si è rifugiata nell’astensione. D’altronde all’interno della Lega si sta consumando una profonda spaccatura tra la vecchia Lega Nord, che ha imposto alla leadership di appoggiare il governo Draghi (se Salvini fosse stato libero di scegliere avrebbe preferito probabilmente attestarsi su una linea simile a quella della Meloni) e la nuova Lega nazionale rifondata nel 2020. C’è nella Lega una dialettica interna molto vivace che un unanimismo di facciata non riesce a nascondere. Non sappiamo come andrà a finire, ma non ha molta importanza. Se anche vincerà Salvini – che ha i numeri per prevalere – resterebbe comunque una contraddizione interna tra posizioni inconciliabili destinata prima o poi ad esplodere.

Vale anche per le alleanze europee del suo partito?

Sì. Salvini preferisce essere il primo in un’alleanza sovranista piuttosto che l’ultimo in un partito popolare europeo dove verrebbe emarginato, come a suo tempo lo è stato Orbán; la sua riluttanza ad accogliere la proposta di Giorgetti è quindi comprensibile, ma anche nel parlamento europeo quella parte della Lega di governo che oggi appoggia fortemente Draghi non può riconoscersi in una coalizione di sovranisti.

Le posizioni della cosiddetta Lega moderata resteranno in minoranza?

Giorgetti sperava che una Lega che si riportasse verso delle posizioni moderate potesse raccogliere l’eredità di Berlusconi, almeno per quanto riguarda il centrodestra. Salvini non ci vuole stare e anzi teme questa prospettiva, perché sa che non sarebbe lui l’uomo in grado di condurre la Lega in quella direzione. Salvini ha fiuto: se non ce l’avesse, non sarebbe lì. Lui è l’uomo del populismo, della Lega di lotta, non di governo. E quindi farà di tutto affinché il progetto di Giorgetti non prevalga.

Come si risolverà, a tuo avviso, il gioco del Quirinale? Ultimamente si è fatto anche il nome di Giuliano Amato. Non è la prima volta che si parla di Amato come presidente della Repubblica.

Oggi Giuliano Amato ha maggiori possibilità che in passato, quando il suo nome veniva inesorabilmente associato a quello di Craxi. La damnatio memoriae su Craxi, sancita da una parte importante dell’opinione pubblica, coinvolse anche lui: in politica, molto spesso, le impressioni e i falsi ricordi contano più della realtà. Oggi tutto questo non esiste più, e quindi Amato potrebbe anche farcela; sarebbe un’ottima soluzione perché si tratta di un uomo di grande intelligenza ed esperienza e il ticket con Draghi funzionerebbe molto bene.

Si è parlato anche del ministro Cartabia. Ha delle possibilità?

Secondo me, la Cartabia ha delle carte da giocare: anche perché è donna, e oggi questo conta. C’è poi l’ipotesi che Mattarella, sia pure all’ultimo momento, accetti una riconferma, con l’intenzione di dimettersi quando lo riterrà opportuno: sicuramente non prima del 2023, in modo da consentire a Draghi di completare il suo percorso.

In questo scenario, si andrebbe a elezioni alla scadenza della legislatura. E potrebbero anche formarsi le condizioni per un nuovo governo Draghi, sostenuto dal parlamento rinnovato. Ma la domanda è: può reggere una soluzione politica di questo tipo senza un partito di Draghi o comunque senza una coalizione di forze che chiaramente ed esplicitamente, durante la campagna elettorale, si richiamino all’agenda Draghi?

Il problema, come sempre, è quello del centro. Esiste una vasta fascia di elettorato che non si riconosce negli estremismi di Salvini e men che meno in quelli della Meloni e che d’altra parte diffida profondamente del Partito democratico. E ne diffida, in buona sostanza, perché è fallito il tentativo di Veltroni di costruire attraverso il Pd uno schieramento di centro-sinistra, e non di sinistra-centro. Il partito democratico americano – che era un po’ il suo riferimento – parte dal centro e arriva poi a comprendere tutte le frange di sinistra, ma nel senso che esse diventano complementari rispetto alla centralità del partito (centralità sociale, economica ecc.). Il partito democratico italiano non è riuscito ad essere questo. Ci ha provato con Renzi (e non a caso aveva raccolto il 40%). È andata a finire come tutti sappiamo e al fallimento del suo progetto ha contribuito lui stesso con atteggiamenti arroganti, personalismi, una presunzione smisurata. Ma non era sbagliata l’idea su cui si basava il suo progetto: trasformare un partito di sinistra aperto al centro in partito di centro che comprende la sinistra.

Come vedi il progetto di Enrico Letta?

Quando ha preso in mano il Pd, il primo problema che si è posto Letta non è stato quello di recuperare al centro, bensì un’identità forte di sinistra su cui poi il centro fatalmente – non avendo altre opzioni possibili – si sarebbe aggregato. Anche questo è stato un errore di calcolo gravissimo, perché c’è un elettorato di centro che non si riconosce nella politica un po’ sloganistica e un po’ demagogica di Letta e cerca uno spazio che nell’attuale composizione parlamentare non trova. E non trovandolo si rifugia nell’astensionismo andando ad aumentare l’esercito dei non votanti che ha ormai raggiunto e talvolta superato la metà dell’elettorato.

Però oggi il centro sembra piuttosto affollato. Più leader che voti?

Eh, sì. Da destra a sinistra è tutto un fiorire di gente che si auto-promuove per guidare una forza di centro. È un affollamento di partitini e movimenti che non superano l’1 o il 2 percento ciascuno. E che quindi non rappresentano mai una massa critica in grado di rappresentare davvero un momento di aggregazione che possa distinguersi rispetto alla destra e alla sinistra, che sia in grado di far propria la strategia di Draghi come punto di riferimento sia di contenuti che di metodo di governo. Di tutti questi, a me pare che il movimento di Calenda sia quello che ha le carte migliori da giocare.

Anche alla luce del risultato romano…

Ha avuto il coraggio di correre da solo nelle elezioni romane contro i collaudati apparati di destra e di sinistra ottenendo un risultato di tutto rispetto. È importante capire se Calenda riuscirà a creare delle aggregazioni in grado di renderlo un soggetto politico di dimensioni tali da essere determinante nel prossimo parlamento. Vale comunque anche in politica la fondamentale legge che regola il mercato: dove c’è domanda si crea l’offerta mentre non è vero il contrario. La domanda di un centro liberal-democratico c’è, l’offerta è scarsa e ancora poco convincente.

Non abbiamo parlato ancora dei Cinque Stelle. Quale sarà il loro destino politico?

Il movimento Cinque Stelle, col suo elettorato potenziale del 15%, costituisce un elemento indispensabile della strategia di Letta per rovesciare i rapporti di forza nel futuro parlamento consentendo al centrosinistra a guida Pd di arrivare a raggiungere la maggioranza parlamentare. I Cinque Stelle devono scegliere tra la dissoluzione in uno schieramento socialista democratico (italiano ed europeo) oppure l’occupazione di uno spazio elettorale ambientalista oggi poco e male rappresentato. Conte, per la sua storia e la capacità di mediazione che ha dimostrato, è la persona adatta per facilitare la riuscita del progetto di Letta ma non per guidare una rifondazione del movimento che lo porti a sintonizzarsi con i partiti verdi sempre più influenti nello scenario europeo. Sarà una scelta dolorosa nella quale è probabile che Grillo giocherà ancora un ruolo determinante.

In che modo?

Secondo me, il futuro dei Cinque Stelle è sempre nelle mani del suo fondatore. Il suo attuale silenzio potrebbe preludere alla tempesta; non credo affatto che Grillo si sia ritirato dalla scena. E non credo nemmeno che si sia rassegnato all’idea che il movimento Cinque Stelle si trasformi in una sorta di partito di complemento del partito democratico, sostanzialmente integrato in una strategia unitaria di centrosinistra. Io non credo affatto che la base dei militanti pentastellati sia su queste posizioni e penso perciò che Grillo stia aspettando l’elezione del presidente della Repubblica per uscire di nuovo allo scoperto e suscitare nuovi conflitti all’interno del movimento.

 

Intervista a cura di Saro Freni

Appena insediato al vertice Enrico Letta si è posto il problema che sin dalla sua fondazione angoscia il partito democratico, quello della sua identità. Un’esigenza che da sempre tormenta gli ambienti che “guardano a sinistra” per i quali alla mancanza di tale identità si deve il declino anche elettorale di tutti i soggetti che nel tempo hanno cercato di raccogliere in qualche modo l’eredità social-comunista del dopoguerra, dimenticando che essa si fondava sull’idea marxiana di un rovesciamento profondo dei rapporti di classe, sia pure adattata alla particolare realtà italiana.

Anche il PD, nato nel 2007 dalla convinzione di Veltroni che tale retaggio potesse fondersi con quello del cattolicesimo sociale (confluito a suo tempo nella DC per motivazioni storiche ormai superate) e costituire un’alternativa di sinistra legittimata a esercitare il potere in un paese oggi saldamente ancorato ai principi democratici e liberali occidentali, non è mai riuscito a liberarsi dal richiamo identitario di alcune minoranze elitarie (“alla Nanni Moretti” per intenderci) che nostalgicamente rimuginavano la mancata trasformazione radicale degli assetti economici e sociali anche a costo di restare inevitabilmente all’opposizione (e anzi forse proprio per questo, per non misurarsi con le inevitabili complicazioni che comporta il governare la variegata composizione sociale del Paese).

Da sempre innamorato dell’America Veltroni sognava una riedizione del “democratic party” nella sua concezione kennediana. L’Italia però non è l’America; la piattaforma democratica americana ormai da alcuni decenni si configura come un’area elettorale molto composita tenuta insieme soprattutto da una comune visione dei diritti umani allargati alle sensibilità delle nuove generazioni: parità di genere, antirazzismo, ambientalismo, sanità, mentre sul piano economico l’assetto capitalistico non viene messo in discussione (non almeno in maniera significativa).

Il bacino elettorale dei democratici italiani per essere vincente avrebbe dovuto allargarsi considerevolmente rispetto alle componenti originarie, andando a raccogliere consensi in quell’ampio centro democratico che, pur nelle sue notevoli differenze, non si riconosce né nel marxismo né nel solidarismo cattolico; e in effetti questo fu il tentativo compiuto da Renzi nel 2014 che, non a caso, portò il partito al massimo dei voti. Ed è per questo che Veltroni lo appoggiò prescindendo dalle sue intemperanze, dalla sua presunzione autoreferenziale, dalle discutibili compagnie di cui si circondava. Ma, come lo stesso Veltroni aveva già sperimentato, la corda del PD è fragile: se viene tirata troppo al centro si spezza a sinistra e viceversa. La rivolta delle “nomenklature” subito dopo la catastrofe del referendum costituzionale, portò infatti all’espulsione di Renzi ma con lui il PD perse anche la sfida di accreditarsi nell’elettorato di centro.

L’identità di sinistra che Letta vorrebbe rilanciare per superare la logica correntizia urta quindi inevitabilmente contro una verità difficile da rimuovere: venuta meno ogni identità velleitariamente “rivoluzionaria” il partito di sinistra, comunque si chiami, resta un movimento riformista che può soltanto lavorare ai fianchi di un sistema economico abbastanza consolidato e accettato. Un problema d’altronde che non riguarda soltanto l’Italia ma tutti i paesi europei dove i partiti socialisti si pongono le stesse domande. Altre sono le nuove radicalità che occupano il panorama politico determinandone le scelte: la globalizzazione, le emergenze sanitarie e ambientali, le loro ricadute sugli assetti sociali, e in qual misura questi cambiamenti possono essere governati senza compromettere i diritti fondamentali su cui l’Occidente ha costruito la sua egemonia morale e culturale, come invece propongono i movimenti populisti di destra prefigurando modelli difensivi sostanzialmente illiberali quando non addirittura autoritari.

La questione dell’alleanza con i Cinque Stelle va quindi inquadrata in un contesto di priorità diverse dalle contrapposizioni di classe ereditate dalla sinistra storica. Malgrado la loro confusione concettuale e organizzativa i “Cinque Stelle” appaiono più moderni dei loro alleati del PD e non a caso dettano l’agenda del confronto politico: lotta alla corruzione, uguaglianza dei diritti, ambientalismo radicale, grande attenzione ai nuovi strumenti di comunicazione. Il PD li insegue arrancando, cercando di fissare paletti in grado di contemperare le nuove sensibilità con quelle tradizionali, non senza qualche ingenuità demagogica come le quote femminili obbligatorie, il voto ai sedicenni, lo “jus soli”, ecc. Ma così facendo Letta rischia di lasciare libera di fluttuare nel vuoto quella parte di elettorato moderato che non condivide gli estremismi della Meloni e le volgarità di Salvini ma non si riconosce nemmeno in un asse PD-5 stelle a trazione Grillo. Un vuoto che disperatamente (ma almeno per ora con poco successo) cercano di riempire Calenda, Renzi, Emma Bonino e i naufraghi del partito di Berlusconi come Toti, Lupi, Carfagna, ecc.

Molto dipenderà ovviamente dalla legge elettorale ma comunque, quale che sia, sarà sempre il centro a fare la differenza, ed è lì che tra un anno si giocherà la partita definitiva.

Franco Chiarenza
24 aprile 2021

Abbiamo intervistato per I Liberali Franco Chiarenza, giornalista ed esperto di comunicazione, fondatore del blog Il Liberale Qualunque. È stato un colloquio molto interessante, in cui sono stati toccati tanti aspetti della sua esperienza politica e professionale ma anche temi di attualità, come la crisi del giornalismo tradizionale e il mutamento delle forme del dibattito pubblico.

Come si presenterebbe Franco Chiarenza ad un lettore del nostro sito, specialmente se giovane?

Intanto mi presenterei come uno che non è più giovane; come una persona che, avendo passato ormai ottantasei anni di vita, si ritiene un buon testimone di ciò che è avvenuto nella seconda metà del secolo passato e nel primo ventennio di questo secolo.

Hai intitolato il tuo libro, che in seguito ha ispirato il blog, Il Liberale Qualunque. Come mai questo nome, che a una prima lettura potrebbe evocare Guglielmo Giannini e l’Uomo Qualunque?

Come ho scritto nella prefazione, il qualunquismo con il mio liberalismo non ha nulla a che fare. L’espressione “liberale qualunque” nasce dal fatto che del liberalismo si parla sempre come di un concetto astratto: una teoria complicata, che alla fine riguarda pochi intellettuali o comunque un numero ristretto di persone con una particolare cultura. Secondo me, al contrario, il liberalismo riguarda tutti. E tutti noi – senza esserne coscienti – siamo o non siamo liberali non tanto in base alla conoscenza delle teorie ma ai comportamenti di tutti i giorni. E il liberale qualunque – che spesso non sa di esserlo – si contrappone a quanti dicono di esserlo e invece dimostrano il contrario.

Oggi ce ne sono molti, a tuo avviso?

Credo proprio di sì. Nel nostro paese, c’è stato un momento in cui tutti si dicevano liberali. Erano cadute le grandi ideologie nelle quali intere generazioni si erano riconosciute. Non crollò solo il muro di Berlino, ma anche l’illusione che si potesse fare a meno dell’economia di mercato. Improvvisamente tutti si sono sentiti orfani di ideologie di riferimento e sono diventati liberali. Ma il liberalismo, pur essendo estremamente elastico e aperto a molteplici interpretazioni, ha alcuni pilastri; alcuni punti che non consentono deroghe.

Che cosa pensa il liberale qualunque Franco Chiarenza delle tante iniziative di (vera o presunta) ispirazione liberale – associazioni, circoli, pagine Facebook – che oggi sembrano proliferare?

C’è un po’ di tutto. Alcuni di questi sono realmente dei liberali; altri non lo sono. Da certi scritti di presunti liberali emergono convinzioni intolleranti, nazionaliste, talvolta addirittura razziste che con il liberalismo non hanno nulla a che vedere. Altri, invece, sono effettivamente liberali: anche se, com’è ovvio, ci sono quelli che interpretano il liberalismo in modo più liberista e quelli che lo interpretano in modo più liberalsocialista. Però, al di là delle singole ispirazioni, ci sono alcune cose sulle quali tutti i liberali non possono non concordare: la tolleranza per le idee degli altri, la preferenza per un tipo di confronto che non deve mai essere sopraffazione. Se non si accettano questi principi, non ci si può dire liberali.

Da dove nascono tutti questi fraintendimenti intorno al termine liberale?

C’è un equivoco di fondo. Molti confondono il liberalismo con il moderatismo. Dicono di essere liberali perché si sentono moderati rispetto a una certa sinistra e a una certa destra, più o meno immaginarie. Si pensa di essere liberali perché si sta al centro. Questo è un modo sbagliato di concepire il liberalismo.

A proposito di tolleranza per le idee degli altri, mi sembra che questa idea sia anche evocata dal logo del Liberale Qualunque, presente anche nella copertina del libro. Sono raffigurate alcune persone sedute attorno a un tavolo. Che cosa vuole rappresentare quel disegno?

Esattamente quello che tu dici: rappresenta l’idea del dialogo. Questa composizione risale agli anni della mia prima gioventù, quando io e un gruppo di altri ragazzi decidemmo di fare un circolo per discutere di politica. Era un tempo – quello degli anni cinquanta – in cui la politica era molto radicata fra i giovani: si usciva da una guerra mondiale, si apriva una stagione di grandi speranze, tutti erano coinvolti nella politica, c’era molta partecipazione. Avevamo costituito questo piccolo gruppo, del tutto dilettantesco; e uno dei componenti, che era un bravissimo disegnatore, concepì il logo. Quando poi anni dopo abbiamo fatto una rivista, che si chiamava “Democrazia liberale”, lo abbiamo riutilizzato. È un disegno a cui sono anche sentimentalmente legato, tanto che poi ho voluto metterlo nella copertina del libro.

Come racconteresti ad un ragazzo di oggi l’esperienza della politica giovanile del tempo?

È un tema – quello della politica universitaria fra gli anni cinquanta e il 1968, quando poi questa esperienza venne meno – di cui si parla pochissimo. Ebbe una grandissima importanza, se si pensa che almeno la metà della classe politica che ha poi diretto il paese sino alla fine del secolo proviene da lì. Si trattava di una palestra politica degli studenti universitari più impegnati: una minoranza degli studenti, che già erano una minoranza della società, visto che allora l’università era molto più ristretta e più selettiva di oggi.

Ad un certo punto hai intrapreso la carriera di giornalista, anche ad alti livelli, sia in radio che nella carta stampata. Hai lavorato in Rai, e alla storia della Rai hai dedicato un libro importante, “Il cavallo morente”. Però non hai mai avuto il mito della televisione pubblica. Oggi si parla spesso – talvolta con accenti nostalgici, soprattutto alla luce del degrado televisivo di oggi – della vecchia tv pedagogica. Che cosa pensi di quel modello? Era una tv conformista, con tratti di paternalismo, oppure era il modo migliore per offrire, nelle condizioni di allora, un prodotto di alta qualità professionale?

Come sempre, la risposta non può mai essere o bianco o nero. Alla metà degli anni cinquanta, la tv in Italia fu una grande novità. E non tutte le forze politiche ne compresero subito le capacità di condizionamento. Le capì la Chiesa, che aveva visto ciò che stava accadendo in America. Ed era facile prevedere che ciò che era successo lì sarebbe accaduto anche da noi: nel giro di pochi anni, la televisione divenne una delle cose più condizionanti del panorama sociale del nostro paese. A cavalcare questo cavallo si trovò la Dc. La Chiesa temeva che ci sarebbe stata una secolarizzazione di un paese tradizionalmente cattolico, legato ad antiche consuetudini, prevalentemente agricolo, quasi del tutto estraneo – salvo che nelle sue élite – ai grandi movimenti culturali laici che avevano influenzato la storia d’Europa.

L’Italia stava cambiando, nel frattempo.

Sì, questo modello di paese si stava sgretolando, per una serie di ragioni di natura sociale ed economica. In tutto questo, la televisione doveva rappresentare, agli occhi della Chiesa, uno strumento di freno: si voleva che il cambiamento in corso avvenisse mantenendo fermi quei principi cattolici che consentivano alla Chiesa di esercitare un notevole potere di condizionamento sulle masse. Naturalmente, c’era anche una coincidenza di interessi con la Dc: nei primi anni, la Rai fu uno strumento politico, sociale, morale nelle sue mani. Quindi – come hai detto giustamente – rappresentava un modello paternalistico: era una televisione nella quale non si poteva pronunciare la parola divorzio, una tv su cui poi si è giustamente molto ironizzato negli anni successivi. Ma la Rai non è stata solo questo.

Ha avuto anche un ruolo educativo…

La televisione è entrata in tutte le case, anche quelle dove non era mai entrata alcuna forma di cultura che non fosse quella della tradizione popolare. Malgrado il suo paternalismo, la tv fu una finestra spalancata sul mondo. E, in questo senso, cambiò profondamente la natura degli italiani, i quali scoprirono una realtà diversa da quella delle tradizioni familiari. Questo ha avuto degli effetti sconvolgenti, perché ha spinto molte persone a far studiare i propri figli. Gli italiani impararono l’italiano. Quindi la tv di quel tempo – pur perseguendo scopi politici non condivisibili per un liberale – ha avuto degli effetti estremamente positivi, al di là delle intenzioni di chi la governava.

Un’informazione libera è fondamentale per una democrazia liberale. In questo momento storico sono in corso numerose trasformazioni: i politici aggirano spesso la mediazione giornalistica rivolgendosi direttamente ai loro seguaci tramite i social network, spesso trattandoli più come fan che come cittadini elettori; i giornali sono in crisi di vendite e non hanno più la centralità di un tempo; l’informazione televisiva è schiava dei talk show a basso costo, che spesso informano in modo superficiale e sensazionalistico. Come interpreti questi fenomeni? Che ruolo potrà giocare il giornalismo in questo nuovo scenario?

È una domanda molto impegnativa. La tua descrizione della realtà è perfetta: la condivido totalmente. Abbiamo tutto un sistema di mezzi di comunicazioni di massa – attraverso cui si veicola l’informazione – che è in crisi, che non ha più il rilievo che aveva un tempo (benché non sia completamente scomparso, come invece preconizzavano alcuni profeti di sventura). Certamente l’arrivo dei social ha rivoluzionato il vecchio panorama e ha costretto gli operatori dell’informazione tradizionale a misurarsi con un’informazione diffusa. Questo è un fenomeno che, di per sé, un liberale deve considerare positivo, perché allarga i confini dello scambio di informazioni. Questo è l’aspetto apprezzabile del fenomeno.

Quali sono, invece, gli aspetti negativi?

L’aspetto negativo è che attraverso questo allargamento passa di tutto. Innanzitutto, passano cose inaccettabili sul piano della volgarità e della maleducazione; ma su questo si potrebbe anche sorvolare, perché si tratta di sfoghi che ci sono sempre stati e che ora trovano uno strumento di amplificazione. Il punto fondamentale è che passano delle informazioni sbagliate e non verificate. Questo è un punto fondamentale per un liberale. I liberali hanno fatto sempre una battaglia in favore della corretta informazione.

Che cosa dobbiamo intendere per corretta informazione?

Esistono delle regole di correttezza che garantiscono chi legge: citare le fonti, mettere sempre a confronto le diverse opinioni e possibilmente distinguere le proprie opinioni dalla descrizione dei fatti. Questo meccanismo aveva avuto un notevole successo, soprattutto nel mondo anglosassone, tanto da dare alla stampa una credibilità e un prestigio tali da controllare il potere politico per conto dell’opinione pubblica. Questa funzione di mediazione è stata travolta dai nuovi mezzi elettronici. Meccanismi di controllo e di garanzia che erano stati studiati e imposti con molta difficoltà ai mediatori dell’epoca – i giornalisti – oggi sono saltati. Il risultato è che passa una valanga di cattiva informazione, nei cui confronti i fruitori sono completamente indifesi, perché non conoscono neanche il modo per verificare le informazioni che ricevono.

Stai delineando un quadro molto fosco. Il giornalista non ha più alcun ruolo, in questa nuova realtà?

Ovviamente non bisogna buttar via il bambino con l’acqua sporca: i social restano un fatto importante e utile ai fini della crescita politica, liberale e democratica, del paese. C’è però il problema di cui parlavo. Non so come si potrà risolvere, ma vedo qualche schiarita. I giornalisti – persa la loro funzione di mediatori esclusivi – ne stanno acquistando un’altra, quando sono bravi: quella di verificare la correttezza dell’informazione. Questo forse può limitare il fenomeno gravissimo delle fake news, che come abbiamo visto arriva ad incidere sui risultati delle elezioni politiche.

Ti riferisci all’elezione di Trump?

Sì. Gli Stati Uniti hanno passato un momento estremamente sgradevole della loro storia. Poi c’è stata una reazione. Il problema delle fake news, che oggi è al centro della discussione in America, dovrebbe diventare centrale anche in Europa. Da questo passa il futuro delle istituzioni liberali, delle istituzioni garantiste: che garantiscono cioè il cittadino affinché non venga imbrogliato.

Sei sbarcato su internet a più di ottant’anni. Che cosa ti ha spinto ad aprire il blog?

Internet è la più grande invenzione della storia della comunicazione dopo l’invenzione della stampa. Condizionerà fortemente il nostro futuro. E quindi ho sentito il bisogno di starci dentro, naturalmente con le forze di cui potevo disporre, che erano ben poche. Però internet ha questo vantaggio: consente a tutti, anche a coloro che non posseggono grandi mezzi, di essere presenti in qualche modo nel dibattito pubblico. Una volta non era così: se non avevi il denaro necessario per fare un giornale o mettere su una televisione, ne eri praticamente escluso, se non per piccole nicchie. Internet dà la possibilità di allargare enormemente le possibilità di espressione e cambierà completamente il modo di comunicare delle prossime generazioni. E l’umanità progredisce o regredisce in funzione della sua capacità di comunicare: esperienze, informazioni, sentimenti, tutto ciò che ogni persona ha dentro di sé. Internet è all’inizio di una lunga storia, che durerà per qualche secolo.

A cura di Saro Freni

Non sempre le elezioni sciolgono i nodi della politica; spesso il problema non è se votare o meno ma come farlo, con quale legge elettorale, con quali obiettivi, se privilegiando la governabilità oppure rispettando integralmente la rappresentanza del pluralismo delle opinioni. Nè vale l’obiezione, spesso ripetuta, che si possano trovare soluzioni intermedie che salvino capra e cavoli perchè, nonostante i marchingegni dell’ingegneria costituzionale, si arriva sempre al punto di dovere privilegiare uno dei due corni del dilemma. Le soluzioni contorte provocano talvolta esiti paradossali perchè studiate in base ad aspettative che poi si dimostrano infondate. L’esperienza dimostra che ogni cambiamento della legge elettorale produce variazioni nelle intenzioni di voto, dando luogo a un avvitamento indecoroso al quale sarebbe bene mettere fine attraverso una seria riflessione che coinvolga non solo le principali forze politiche (tese a privilegiare le proprie presunte convenienze elettorali) ma anche l’opinione pubblica la quale da tempo reclama regole che garantiscano la governabilità del Paese una volta per sempre. Occorre in sostanza compiere quel passo che l’assemblea costituente settant’anni fa non volle fare: costituzionalizzare la legge elettorale, almeno nei suoi principi fondamentali.

Per procedere in questa direzione sottraendo il dibattito ai conciliaboli degli specialisti di ingegneria costituzionale sarebbe opportuno innanzi tutto ricordare che le leggi elettorali possono grosso modo dividersi in due sistemi: proporzionale oppure uninominale.
Quelle ispirate al principio proporzionale cercano di rispettare principalmente il criterio della rappresentanza per il quale ogni formazione, anche di modeste dimensioni, abbia accesso in parlamento. Corrisponde a un ideale di democrazia partecipata e dialogante in cui il ricorso alla contrapposizione tra maggioranza e opposizione costituisca un fatto increscioso, anche se talvolta inevitabile. In realtà però i sistemi proporzionali – anche con i possibili correttivi – generano sempre instabilità e quindi non sono mai stati in grado di garantire la governabilità, a meno che l’elettorato non sia fondamentalmente costante e concentrato su pochi partiti alternativi, determinando di fatto una sorta di bipolarismo, come accadeva da noi nella prima repubblica (DC vs/PCI) o in Germania (CDU/CSU vs/ SPD). In quest’ultimo paese, per evitare i rischi della frammentazione e garantire la governabilità sono previste una soglia elettorale del 5% (al di sotto della quale non scatta il diritto di rappresentanza) e la “sfiducia costruttiva” (cioè l’obbligo di costituire una maggioranza alternativa prima di mandare a casa quella esistente). Un altro correttivo per limitare i danni di una eccessiva frammentazione è il cosiddetto “premio di maggioranza”, cioè un certo numero di seggi parlamentari da attribuire alle liste o coalizioni vincenti; che però non impedisce la creazione di alleanze fittizie che si dissolvono subito dopo avere conseguito il “premio”.
Ma al di là della difficile governabilità (resa ancor più complicata dal bicameralismo perfetto esistente in Italia) i sistemi proporzionali, rimettendo ai partiti il potere di formare le liste, privilegiano il legame degli eletti con il partito di appartenenza a scapito del rapporto con il territorio che dovrebbe rappresentare il fulcro di ogni democrazia che sia tale nella sostanza e non soltanto nelle forme. Il che non è questione da poco in un momento in cui la democrazia attraversa una fase di crisi di legittimità per la sua (vera o presunta) incapacità di interpretare il “paese reale”.

L’ unica alternativa che garantisce stabilità e credibilità al parlamento è costituita dai sistemi ispirati al principio uninominale (anche in questo caso con numerose variabili che sono state “inventate” per limitarne alcuni aspetti negativi). Il Paese viene diviso in tanti collegi elettorali quanti sono i seggi in palio ed essi sono attribuiti al candidato che prende più voti (talvolta con l’obbligo di ballottaggio quando nessuno di essi supera una soglia determinata). I sistemi uninominali privilegiano il legame tra il candidato e il territorio, consentono agli elettori di conoscere meglio i loro deputati e di controllarne l’operato, spingono a un tendenziale bipolarismo e quindi a una più sicura governabilità; dove sono stati adottati infatti sono rarissime le crisi di governo tra un’elezione e l’altra. Il principio uninominale è generalmente applicato nei paesi anglosassoni dove può accadere – senza che nessuno ne meni scandalo – che le maggioranze parlamentari non coincidano col numero complessivo dei voti riportati dai partiti (come è spesso avvenuto in Gran Bretagna). D’altronde si tratta di un sistema che conosciamo bene per essere stato adottato nel 2000 anche da noi, con generale soddisfazione, nelle elezioni amministrative. I punti di debolezza sono: il rischio di un voto di scambio (peraltro presente anche in altri sistemi), la prevalenza dell’elettorato periferico (spesso arretrato su posizioni più conservatrici) rispetto a quello urbano (maggiormente sensibile ai processi di trasformazione sociale) ma ciò dipende naturalmente da come vengono disegnati i collegi elettorali.

La domanda che sorge spontanea è: se tutto ciò è vero perchè il sistema proporzionale è sostenuto da quasi tutti i partiti? La risposta è semplice: perchè dà più potere ai partiti, non perchè rappresenta un vantaggio per la governabilità del Paese.

 

Franco Chiarenza

 

Questo articolo è tratto da Paradoxa Forum che lo ha pubblicato l’11 febbraio 2021.
Lo storico e politologo Dino Cofrancesco lo ha commentato dicendosi pienamente d’accordo.

La pandemia da coronavirus Covid-19 è in evidente fase di stallo o di regressione, avendo superato, almeno in Italia, il suo picco di letalità. Quanto abbiano contribuito a questo esito le misure di isolamento adottate da molti paesi (tra cui il nostro) e quanto invece si debba a una naturale evoluzione del virus sarà motivo di discussione quando tutto sarà finito. Non sono un epidemiologo ma di storia un po’ me ne intendo e ricordo che in passato altre pandemie non sono cessate certamente per misure di contenimento e nemmeno per l’intercessione di santi e madonne.
Quel che è sicuro è che più dall’epidemia i danni maggiori provengono in epoca contemporanea dal lockdown che l’accompagna i quali in tempi di globalizzazione dei fattori produttivi non sono paragonabili a quelli delle epidemie di un tempo. Adesso dobbiamo preoccuparci quindi di due priorità: come uscire dal blackout economico che si è venuto a creare e come prepararci ad analoghe emergenze (non necessariamente sanitarie) quando si riproporranno.

Come uscirne
Sulla exit strategy da adottare le opinioni sono tutt’altro che condivise. Nella maggioranza parlamentare che sostiene il governo una inedita alleanza tra l’estrema sinistra e i “cinque stelle” non nasconde l’intenzione di approfittare dell’occasione per insistere in una politica di sovvenzioni e aiuti a pioggia che compensi tutti coloro che sono stati danneggiati dall’epidemia; se poi un po’ di pioggia cade anche al di fuori del limite, pazienza! Naturalmente impiegare la maggior parte delle risorse disponibili a fini sostanzialmente assistenziali comporta una riduzione del sostegno alle imprese e l’avvio di un diffuso intervento pubblico che potrebbe portare al superamento dell’economia di mercato e a un rafforzamento del dirigismo paternalistico. La parte più moderata del partito democratico non condivide certamente questa direzione di marcia ma appare molto timida nelle contromosse, forse per il timore di non apparire abbastanza “di sinistra” e non lasciare ai Cinque Stelle uno spazio elettorale fondato sul voto di scambio assistenziale.
Il presidente Conte, ormai collaudato mediatore, forte di un imprevedibile consenso, procede col solito sistema delle addizioni per accontentare tutti: cinquecento pagine di provvedimenti che faranno a pugni tra loro per assicurarsi le risorse di copertura.
L’opposizione, dopo qualche esitazione dovuta al richiamo irresistibile del populismo demagogico, sembra avere imboccato la strada delle priorità imprenditoriali come presupposto del rilancio economico. Ma anche questa scelta urta con le tentazioni anti-europeiste sempre affioranti e con una visione autarchica che, soprattutto nel partito di Giorgia Meloni, continua a esercitare una forte attrazione. Salvini, per la sua formazione politica, sarebbe in perfetta sintonia con Fratelli d’Italia ma deve fare i conti con Zaia, Giorgetti e quanti nella Lega difendono prospettive più legate agli interessi dei ceti produttivi.
Berlusconi fa storia a sé. Ha finalmente capito l’importanza di restare al centro e in qualche modo proporsi come ago della bilancia in un confronto elettorale che potrebbe risolversi in un pareggio tra l’attuale maggioranza di governo e l’opposizione di destra. Di conseguenza contesta il governo proprio sul terreno delle prospettive dirigistiche e dello scarso sostegno alle imprese, avendo però cura di condividerne sostanzialmente la politica europeista (anche per quanto riguarda il MES che è l’unico strumento che possa farci avere i soldi subito e non in un futuro tutto ancora da definire come gli eurobond o il recovery fund).
Nel frattempo il mondo imprenditoriale si accinge a dar battaglia non appena il nuovo presidente di Confindustria diverrà operativo e sarà interessante vedere in quale misura egli riuscirà a rappresentare la protesta e le preoccupazioni di tutti i ceti produttivi (non soltanto industria ma anche commercio, artigianato, servizi, ecc.) proponendo alternative effettivamente praticabili. In autunno le elezioni regionali rappresenteranno uno step inevitabile e l’attuale governo si troverà comunque al capolinea: per essere sostituito da un altro con la stessa maggioranza oppure per accelerare lo showdown di elezioni anticipate. Non vedo politicamente realizzabile l’ipotesi di cui tanto si parla di mettere in piedi un nuovo governo tecnico che metta tutti d’accordo affidato a Draghi come avvenne in passato col governo Monti. Ma mai come adesso i tempi dell’economia non coincidono con quelli della politica: i mesi che ci separano dall’autunno saranno cruciali per le scelte che dovranno essere fatte.
Per i liberali la strada da percorrere è obbligata: alleggerire il peso fiscale sulle imprese (in particolare l’IRAP), sostenere con garanzie pubbliche l’indebitamento finalizzato alle attività produttive (come in parte si è fatto con i più recenti provvedimenti) ma soprattutto cogliere l’occasione in un momento in cui le resistenze corporative sono più deboli per realizzare quelle riforme di struttura che si invocano da sempre: introduzione nelle scuole di conoscenze sul funzionamento delle istituzioni democratiche e sui principi dell’economia di mercato, riforme per accelerare le cause civili e per semplificare le procedure degli appalti, liberalizzazione del commercio e dei servizi superando il sistema corporativo e corruttivo delle licenze (sostituendolo con accertamenti ex-post del rispetto delle regole), superamento del reddito di cittadinanza come attualmente erogato convertendolo in misure di sostegno all’occupazione per i giovani e in aumenti significativi delle pensioni sociali per gli anziani. Servirebbe anche istituire un servizio civile obbligatorio per giovani di entrambi i sessi al compimento del diciottesimo anno di età ma forse è chiedere troppo.

Le future emergenze
La seconda priorità, meno urgente ma di fondamentale importanza, proviene dall’esperienza del Covid 19, affrontata a colpi di decreti del presidente del consiglio, uno strumento amministrativo che mal si concilia coi suoi contenuti quando incidono sulle libertà costituzionalmente garantite.
Dobbiamo aggiornare le norme di legge, anche eventualmente ritoccando la Costituzione, per affrontare tempestivamente le emergenze che si riproporranno e che potrebbero essere non soltanto sanitarie (terremoti, eventi climatici, terrorismo, ecc.). Occorre concordare tra maggioranza e opposizione procedure chiare, garanzie per il mantenimento del controllo parlamentare, principi inderogabili sulla transitorietà delle misure da adottare. Un utile esercizio per accordarsi in modo diverso dal passato anche su altre modifiche costituzionali cercando intese su singole questioni e rinunciando a palingenetiche riforme complessive che allarmano l’opinione pubblica e favoriscono convergenze negative. Proprio l’esperienza del Covid-19 per esempio ripropone la revisione dell’ordinamento regionale e il riordino delle competenze sanitarie. E con la stessa procedura si potrebbero affrontare altri nodi che appesantiscono la governabilità (ben più importanti della riduzione del numero dei parlamentari su cui andremo a votare entro l’anno) come per esempio il superamento del bicameralismo perfetto.
Si potrebbe, volendo.

Franco Chiarenza
26 maggio 2020

 

P,S. Invito i miei lettori a vedere su You Tube la “War Room” di Enrico Cisnetto del 25 maggio con gli interventi di Paolo Mieli, Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita. Uno scenario cupo e pessimistico: speriamo che sbaglino. All’insegna di “Io speriamo che me la cavo”.

Da che mondo è mondo le regole servono per proteggere i più deboli dalla prepotenza di chi potrebbe farne a meno. E’ così che nascono gli stati di diritto sin dall’antica repubblica romana e ancora oggi sono le regole che tutelano i cittadini, tornati ad essere nei paesi democratici la fonte primaria del potere politico, dalle fragilità che possono condizionarne i comportamenti. La libertà di espressione, sacra per i liberali e fondamento del moderno costituzionalismo, va non soltanto enunciata ma anche protetta da chi, magari in suo nome, la distorce per utilizzarla contro la verità dei fatti e spesso anche a danno della dignità delle persone. Un problema che si è posto sin dalle origini degli stati moderni, quando con la stampa il mondo è entrato nell’era della comunicazione di massa dovendosi difendere da due nemici: da chi la voleva utilizzare per gettare discredito sugli avversari in base a false informazioni, ma anche da chi attraverso l’esercizio del potere voleva subordinarla a interessi privati, giustificandone l’intervento come una necessaria tutela del bene pubblico. Se non si vuole gettare il bambino insieme all’acqua sporca (eliminando la libertà di espressione) i possibili rimedi vanno trovati in regole condivise che ne limitino gli abusi mantenendone intatta la funzione di controllo sul potere, da chiunque esercitato. Ma essere “watch dog”, un cane da guardia che non si fa intimidire dai poteri forti, è una cosa (anzi una condizione necessaria per le democrazie liberali), trasformarsi in un cane idrofobo che azzanna indiscriminatamente seminando odio e contrapposizioni irragionevoli è ben altro; ed è quanto sta avvenendo con i social-network diffusi in rete.
La libertà di espressione è sacra per i liberali, ma in nessun caso essa può tradursi in una informazione priva di regole, consentendo di trasformare l’informazione in disinformazione; tanto che in passato, quando essa era gestita quasi esclusivamente dai giornalisti, laddove non arrivavano le leggi che puniscono la diffamazione, l’oltraggio, le false comunicazioni, giungevano i codici deontologici che impegnavano a comportamenti corretti (il primo di essi compilato negli Stati Uniti è del 1926). Al di là delle tante inevitabili complicazioni, si consolidava quindi per qualsiasi mezzo di informazione il principio di responsabilità personale per ciò che si scrive e si pubblica; non a caso i direttori dei giornali (e telegiornali) sono definiti “responsabili”.
Oggi, nel momento in cui gran parte delle informazioni circolanti si serve dei “socialnetwork”, e tutti, in qualche modo, possono fare informazione, possiamo dire che il principio di responsabilità venga rispettato? Evidentemente no, ma ogni volta che si accenna alla necessità di imporre regole di identificazione che facciano capo ai gestori dei “social” insorgono i difensori della “libertà della rete” parificando la responsabilità alla censura. Un’affermazione falsa e non convincente, a meno che per tale non si intenda la libertà di diffamazione, di diffondere false informazioni, di ingiuriare senza limiti di decenza, di violare la riservatezza personale, di commettere in sostanza reati che, non perchè attuati in rete, sono meno dannosi. Falsificare la realtà per dare sfogo a livori e frustrazioni personali non costituisce una novità: lettere anonime, pubblicazioni clandestine, pettegolezzi senza fondamento hanno sempre accompagnato l’esistenza degli uomini, ma in passato non si disponeva di strumenti così invasivi come quelli oggi consentiti dalle nuove tecnologie. Da quando poi si è constatato, con il venir meno delle grandi contrapposizioni ideologiche, che la disinformazione costituisce un efficace strumento di condizionamento elettorale, la politica se ne è impadronita, utilizzandola anche in modo volgare. E poiché in effetti il voto ha ormai perso il suo carattere di scelta programmatica per diventare soltanto un modo di esprimere il proprio malcontento, si capisce perchè le competizioni elettorali siano divenute una gara per catturare un consenso “negativo”, non per un progetto a lunga scadenza (salvo le solite generiche banalità) ma contro qualcuno o qualcosa. Avviando tuttavia questo meccanismo di reciproca continua delegittimazione (personale oltre che politica) si finisce per restare incastrati in un “effetto boomerang” che impedisce qualsiasi seria attività di governo (i Cinque Stelle ne sanno qualcosa).

Per uscire da questa situazione bisogna tornare a regole condivise e alla volontà politica trasversale di farle rispettare. Non entro in dettagli tecnici che richiederebbero altri approfondimenti. Ma ciò che si può fare intanto è stabilire per legge (possibilmente a livello europeo) il principio di responsabilità per chi comunica sui social-network. Può essere facilmente aggirata? Può darsi ma almeno stabilisce un principio e complica la vita ai fabbricanti di fake news. Occorre, utilizzando gli stessi strumenti interattivi, fare capire con chiarezza quali sono i limiti di liceità del loro utilizzo e le ragioni per le quali essi sono necessari a tutela della libertà individuale di ciascuno di noi. Contrastiamo i “fake makers” utilizzando i loro stessi strumenti, convincendo tutti che i reati commessi in rete sono gravissimi, possono uccidere a distanza senza che si sappia da chi e perchè; potrebbe capitare a tutti. Conviene a tutti quindi stabilire delle regole e farle rispettare senza abbandonarsi, ancora una volta, all’arbitrio dei “signori della rete”.

 

Franco Chiarenza
Articolo pubblicato il 9 dicembre sulla rivista Paradoxa.

Le nostre generazioni, quella dell’immediato dopoguerra e quelle immediatamente successive che sia pure in modi talvolta antagonisti hanno avuto in comune radici culturali riconoscibili e mezzi di comunicazione nuovi ma comunque in continuità con quelli precedenti, si interrogano sul futuro che attende chi verrà dopo di noi. Una domanda legittima che i vecchi si sono sempre posti (quasi sempre, per fortuna, sbagliando le loro previsioni) e che comunque in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando assume una rilevanza particolare. Anche perché quando qualcosa scricchiola di una costruzione che faticosamente abbiamo eretto mantenendola in un delicato equilibrio che ha resistito alle contestazioni e alle spinte che da ogni parte l’insidiavano, ci domandiamo se e dove abbiamo sbagliato. Perché le possibilità sono due: che i tentativi di rovesciare il tavolo non siano ancora riusciti soltanto per mancanza di alternative immediatamente percorribili, oppure che i sistemi liberal-democratici multilaterali hanno dimostrato, anche a fronte di evidenti difficoltà, una propria intrinseca capacità di resistenza. Il che fa una notevole differenza perché nel primo caso ci troveremo prima o poi davanti alla riproposizione di paradigmi alternativi come quelli che già in passato si sono manifestati, a partire dal marxismo-leninismo fino alle diverse forme di fascismo (e, in effetti, se ne potrebbero trovare tracce, ancorchè non ben definite, tra i neo-fascismi sovranisti, ma forse anche in talune frange fondamentaliste verdi e nei risorgenti integralismi religiosi di ogni latitudine). Mentre se la democrazia liberale è ancora vitale e senza alternative, anche di lungo periodo, si tratta “soltanto” di correggere la rotta dove si sono verificate insufficienze e così riprendere il cammino dove l’abbiamo interrotto.

Si iscrive con convinzione al partito degli ottimisti, di coloro cioè che credono in un futuro in linea di sostanziale continuità con le nostre convinzioni etiche e politiche, un leader della sinistra cattolica come Enrico Letta, il quale, tra l’altro, anche sulla base di una constatazione che tutti supponevamo ma che lui ha sperimentato sul campo nel suo “esilio” parigino, sostiene che la deriva generazionale dai nostri principi e valori (e conseguenti prassi incompatibili con una democrazia avanzata) riguarda il nostro Paese più di altri comparabili in Europa. Non vi è dubbio: da noi si legge di meno, si studia poco e male, la frequenza agli spettacoli è quasi tutta concentrata sui livelli meno impegnativi, la discussione pubblica è povera e limitata a poco più di slogan (trovando in “twitter” lo strumento ideale); i confronti con la Francia e i paesi del nord sono impietosi (e temo anche con la Spagna). La ricetta di Letta è dunque chiara: abbiamo un deficit di classe dirigente adeguata alla complessità delle società contemporanee e quindi da lì bisogna partire, formando una nuova èlite non derivante da privilegi di classe e riattivando quell’ ascensore sociale basato sul merito che, seppure è mai esistito, è comunque da tempo bloccato dalle chiusure corporative. E di questo infatti l’ex presidente del consiglio si sta occupando con sano ottimismo cercando attraverso scuole di formazione politica di qualità di riattivare il circuito della trasmissione delle competenze e quindi anche un costruttivo dialogo tra le generazioni. Una strada che condivido se percorsa – come Letta mi pare faccia – senza la presunzione di imporre modelli che per noi sono stati imprescindibili ma che dovrebbero essere sottoposti a una verifica aperta e priva di pregiudiziali.

Ridurre tuttavia il problema a un deficit di competenza (seppure politica) mi pare insoddisfacente. Dobbiamo forse ammettere che i nuovi mezzi di comunicazione hanno lacerato in profondità un tessuto su cui erano disegnate le nostre idee politiche con tutte le loro diversità dialettiche. Come ha osservato lucidamente Gianfranco Pasquino sembra che, forse per la prima volta nella storia (almeno recente), si sia spezzato il dialogo intergenerazionale all’interno delle famiglie, luogo deputato alla trasmissione della memoria e di valori condivisi, non tanto per una volontà antagonistica ma perché i “social” hanno modificato più che i contenuti il linguaggio stesso, la semantica che ha caratterizzato le generazioni precedenti, producendo una incomunicabilità che va oltre le intenzioni dei soggetti coinvolti. Se questo è vero (e temo lo sia) il problema consiste nel riattivare i processi di scambio comunicativo che si stanno esaurendo; uno sforzo che non può limitarsi al discorso sostanzialmente elitario di Letta (formazione delle classi dirigenti) ma dovrebbe coinvolgere la scuola, i mezzi di comunicazione di massa ancora in grado di penetrare e superare le barriere generazionali, l’associazionismo nelle sue diverse articolazioni.
Il nuovo linguaggio utilizzato dai giovani tende alla semplificazione venendo così incontro alla naturale pigrizia di ogni essere umano; perché cos’altro è la pigrizia se non la ricerca del minimo sforzo per ottenere i medesimi risultati? Ma il fatto è che se la “pigrizia” diventa anche intellettuale, si allarga alle funzioni mnemoniche ed elaborative del cervello, i risultati non sono affatto gli stessi. Lo sforzo di apprendimento costituisce un’indispensabile ginnastica mentale in assenza della quale il pensiero si affievolisce nei facili luoghi comuni fino forse a scomparire del tutto, assorbito interamente dal divertimento spensierato. Il problema riguarda tutti ma si innesta in Italia in un contesto che sconta un’arretratezza plurisecolare; già cinquant’anni fa Tullio De Mauro rilevava che più della metà della popolazione non era in grado di comprendere il significato di una proposizione che non fosse elementare. Il che spiega anche perché in un paese di 60 milioni di abitanti si vendessero (prima che arrivassero la televisione e internet) soltanto cinque milioni di copie di giornali, e la televisione al suo arrivo negli anni ’50 abbia avuto una penetrazione massiccia e fulminante con una capacità di condizionamento (anche politico) senza uguali in Europa.
La conseguenza più grave di questo stato di cose è l’incapacità di comprendere fenomeni complessi, di porre in ordine logico i concetti, di esprimere quella “consecutio”, su cui già Giovanni Sartori aveva messo in guardia quando ha trattato la metamorfosi culturale prodotta dalla televisione (che, peraltro, era ben minore di quella che sta creando internet).

Naturalmente non possiamo pretendere che tutti abbiano il tempo, la voglia, le capacità di comprendere a fondo gli aspetti più complessi della vita sociale, non più comprimibili in ambiti ristretti (famiglia, lavoro, comunità, ma anche nazione); la formazione di classi dirigenti credibili in grado di riattivare un processo fiduciario che si è interrotto è perciò ineliminabile (e in tal senso Letta ha ragione). Il vero pericolo è che i nuovi modi di comunicare, alimentando l’illusione autoreferenziale della democrazia diretta, possano in realtà determinare nuove diseguaglianze, più culturali che economiche, producendo èlites invisibili e incontrollabili in grado di gestire con tutti gli strumenti di manipolazione che le nuove tecnologie continuamente elaborano le relazioni tra le masse popolari e l’esercizio del potere, anche servendosi della mediazione di leader populisti spregiudicati. Mi spiego meglio.
Il populismo non nasce oggi, c’è sempre stato ed è in qualche misura connaturato alle moderne democrazie; è ben noto che l’applicazione del suffragio universale a società complesse è possibile soltanto mediante i partiti politici che nascono appunto come “interpreti” di interessi e sentimenti (specifici o diffusi, secondo i casi) che non avrebbero altrimenti la forza e la capacità di esprimersi. Finché il rapporto fiduciario si mantiene i partiti possono compiere la loro opera di mediazione (o di contrapposizione) in maniera funzionale; se poi si riconoscono tutti in alcuni valori fondanti della comunità la loro alternanza al potere non comporta pericoli per la stabilità democratica, come dimostra l’esperienza delle democrazie anglosassoni (e dei modelli ad esse ispirati). Il problema sorge quando il rapporto di fiducia, per le ragioni più diverse che non starò qui a ricordare, viene meno; ci troviamo in tal caso di fronte a una crisi di sistema (e non di semplice ricambio) che può sfociare nelle derive più irrazionali. Se poi contestualmente si verifica una rivoluzione dei modi di comunicare determinata dalla diffusione di strumenti tecnologicamente avanzati disponibili per tutta la popolazione, la questione si complica ulteriormente: la sfiducia trova uno sbocco autoreferenziale da cui deriva la pretesa che ogni intermediazione sia non soltanto inutile ma anche dannosa. E’ su questa base che Grillo ha fondato un movimento qualunquista di massa.
Nulla di male se la democrazia diretta esercitata attraverso una piattaforma internet fosse davvero possibile (riproducendo con modalità aggiornate il mito dell’agorà ateniese); ma così non è, non perchè necessariamente esso costituisca l’anticamera di regimi autoritari plebiscitari (anche se l’esperienza del passato ci dice che è ben possibile) ma perchè in realtà genera nuovi sistemi di intermediazione incontrollabili e pericolosi. C’è il rischio concreto (forse già visibile nel portale Rousseau, significativo già nella denominazione) che un’èlite che si rinnova per cooptazione possa esercitare un potere fondato sull’ignoranza sostanziale di masse presuntuose (nel senso letterale della parola) o quanto meno indifferenti.

Noto alcuni sintomi preoccupanti (al di là di vicende elettorali che hanno carattere transeunte, ma non per questo perdono la loro importanza segnaletica): uno di essi è la perdita progressiva della memoria storica che non avviene soltanto per l’incuria scolastica (che semmai è la conseguenza non la causa del fenomeno) ma per una radicata indifferenza per tutto ciò che è stato “prima”, da cui poi deriva una incapacità di previsione per il futuro. L’ignoranza della storia determina in molti giovani una desertificazione culturale che si traduce, per esempio, anche nel loro modo di viaggiare; girano il mondo ma non lo “vedono”, perché i centri commerciali e le discoteche sono uguali dappertutto.
Ma anche qui attenzione: vedo anche giovani impegnati nelle letture storiche degli ambienti che visitano, nella frequentazione di musei e concerti di musica classica, interlocutori certi di un passaggio generazionale che non si spegne. Saranno loro le nuove èlites, di fatto ancor più esclusive di quelle che il finto populismo ha abbattuto, in quanto possessori esclusivi delle conoscenze, come gli antichi sacerdoti di alcune società del passato ? Se così fosse ci troveremmo di fronte a un processo di ricambio della classe dirigente diverso soltanto per gli strumenti di selezione che utilizza; resta da capire se compatibile con le convinzioni etico-politiche di base che abbiamo elaborato dall’illuminismo in poi o invece intenzionate a costituire una classe sacerdotale in grado di gestire un sostanziale monopolio delle conoscenze. Con effetti devastanti sulla diseguaglianza culturale, che, francamente, mi pare più grave di quella economica e sociale.

Per concludere: le èlites, variamente denominate (classi dirigenti, ceto politico, ecc.) sono sempre esistite e sempre ci saranno; in una democrazia liberale per durare a lungo e lasciar traccia del loro passaggio devono essere in grado di interpretare correttamente i sentimenti popolari, soprattutto nei momenti di difficoltà, proponendo soluzioni praticabili in tempi ragionevoli ed evitando di arroccarsi sui propri egoistici privilegi. Soprattutto però devono essere trasparenti nei loro comportamenti anche privati e quotidiani, imitare la moglie di Cesare che doveva non soltanto essere onesta ma anche sembrarlo al di sopra di ogni sospetto. Per questa ragione il problema è come si formano: se sul merito, sulla selezione fondata sulla competenza, o su altri presupposti familistici, corporativi, di subordinazione politica.
Per trasformarsi da classe dirigente responsabile a casta arroccata nella difesa dei propri privilegi ci vuol poco; basta anche l’esibizione di alcuni dettagli simbolici amplificata dalla pervasività dei social (a cui non siamo ancora abituati), come per esempio l’abuso delle “auto blu, i vitalizi e i tanti irragionevoli privilegi che la classe politica si attribuisce. In un’epoca dove le immagini prevalgono sul ragionamento e in cui la semplificazione concettuale porta anche alla sommarietà dei giudizi valgono a discreditare intere classi dirigenti più questi “dettagli” che gli stessi reati penali (come la corruzione), gravi ma comunque perseguibili dalla giustizia ordinaria. A proposito della quale occorre aggiungere – senza volere aprire troppi fronti che ci porterebbero lontano – che anche i riti e le lentezze incomprensibili dell’ordinamento giudiziario, soprattutto penale, pur derivati da tradizioni garantiste che vanno rispettate, contribuiscono fortemente alla delegittimazione delle èlites (di cui la magistratura fa parte a pieno titolo). Abituati dalla televisione alla rapidità e alla concretezza dei sistemi giudiziari anglosassoni (certamente banalizzati da logiche spettacolari ma non del tutto infondati) molti cittadini si chiedono perchè non sia possibile una giustizia veloce ed efficiente anche nel nostro Paese.

Per trovarsi in linea di continuità sostanziale con i nostri valori e convinzioni le nuove èlites, figlie di internet più che dei genitori naturali, dovranno essere molto diverse da noi nel modo di esercitare quel potere reale ma spesso indefinito di cui disporranno. L’accountability (che in inglese è qualcosa di più della traduzione italiana “affidabilità”) di un ceto politico dipende da molte cose; ma essenziale resta la sua capacità di riconoscersi in alcuni valori comuni e nella credibilità che gli deriva dalla convinzione di essere al servizio degli interessi collettivi. Con tutti i loro limiti le classi dirigenti di derivazione borghese che condussero l’Italia a unificarsi, ma anche quelle di diversa e più composita formazione che si sono assunte la responsabilità di ricostruire una coscienza civile democratica dopo la drammatica parentesi del fascismo, hanno avuto questa capacità. Ci rendiamo conto forse solo oggi in maniera convinta che l’attuale crisi non nasce oggi con l’emergere preoccupante di un gruppo di potere che sembra completamente disancorato dai valori fondanti della nostra fragile unità; covava sotto la cenere da tempo e la cultura politica del nostro Paese non se n’era accorta, o, quanto meno, l’aveva sottovalutata. Ricostruire una credibilità è molto più difficile che perderla. Chi intende farlo (e spero siano in molti, anche di diverse sensibilità politiche) cominci con una seria autocritica: in passato si sono tollerate cose intollerabili e in nome della politica si sono compiute malversazioni di ogni genere. Se non si parte da una autentica rigenerazione morale (non moralistica) non si andrà lontano.

Franco Chiarenza
21 marzo 2019

Quando mi è stato chiesto di chiudere il corso di Napoli della Scuola di liberalismo l’Europa sembrava scivolare pericolosamente verso un populismo nazionalista diffuso, variamente motivato ma comunque tale da indicare una chiara linea di tendenza ostile non soltanto al disegno di unificazione del Vecchio Continente ma anche connotata dal rifiuto del liberalismo. Lo scetticismo sembrava d’obbligo.
Ma da allora molte cose imprevedibili sono avvenute e tra tutte la vittoria dei liberali in Olanda e quella di Macron in Francia. L’ondata populista pare arginata e un vento nuovo sembra soffiare in Europa.

A fare la differenza è stato il voto giovanile. Quando è mancato le elezioni hanno prodotto la Brexit, la presidenza Trump, regimi conservatori nazionalisti in Ungheria e in Polonia; quando si è mobilitato ha mostrato il vero volto dell’Europa di domani, quello di chi non ha paura dei cambiamenti, delle generazioni che hanno vissuto l’esperienza Erasmus e non vogliono tornare indietro, di quanti pensano che l’immigrazione è una sfida che può essere affrontata e vinta con vantaggio per tutti e non una sciagura da criminalizzare. Per questi giovani l’Europa non è un problema ma la soluzione dei problemi.

Occorre andare avanti dunque non tornare indietro ripercorrendo una strada che troppi europei percorsero nella prima metà del secolo scorso e che è costata milioni di morti, distruzioni spaventose e si è conclusa con la perdita dell’egemonia mondiale che le nazioni europee avevano esercitato fino ad allora. L’Europa, culla del liberalismo e della democrazia, ha generato in quegli anni il totalitarismo, antitesi radicale del pensiero liberale e del socialismo democratico nelle loro diverse accezioni. Come è stato possibile?

E’ stato possibile perché l’insicurezza genera i mostri dell’intolleranza. La paura delle differenze culturali di razza, religione, e quant’altro, è stata usata dai nemici della democrazia liberale come arma psicologica per chiudere i cancelli e, all’ombra di rassicuranti muri di cinta, giustificare la creazione di regimi autoritari. Da questa schiavitù che ci ha portato ad obbedire a chi ci conduceva ad aggredire altri popoli ed etnie differenti siamo stati liberati dai figli d’Europa che alcuni secoli prima erano emigrati in un continente sconosciuto e là avevano gradualmente costruito sistemi politici e sociali che mettevano al centro i diritti e i doveri dei cittadini; è agli americani che dobbiamo la libertà di scelta di cui oggi disponiamo.

Insieme agli americani, al sicuro sotto il loro scudo militare, abbiamo costruito un nuovo ordine mondiale fondato su tre pilastri: i diritti individuali, il “rule of law” (cioè il primato della legge), e la libertà di scambio di persone e merci (cioè l’economia di mercato). Da questo asse atlantico euro-americano abbiamo affrontato e vinto la grande sfida contro l’unico sistema alternativo che possedeva la dignità e la grandezza dei grandi ideali ma che era segnato irrimediabilmente dall’utopia paternalistica dello “stato buono” e che puntualmente conduce a trasformare i cittadini in sudditi.

Dopo il crollo dell’alternativa comunista Stati Uniti ed Europa con un articolato sistema di trattati multilaterali hanno guidato la globalizzazione e per vent’anni hanno assicurato – pur tra tanti errori – un lungo periodo di pace e prosperità, riducendo la fame nel mondo, favorendo lo sviluppo dei paesi orientali e africani meno sviluppati. Certo, non sono mancate guerre locali, non si è riusciti ad impedire che il Medio Oriente si trasformasse in un perpetuo incendio destabilizzante, ma nel complesso bisogna ammettere che il rischio di una terza guerra mondiale è stato evitato e che è poco probabile che si avveri la profezia di Einstein (“non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale; so che quella successiva si farà con archi e frecce”).

Ma adesso siamo giunti a una svolta: nuovi soggetti si candidano alla guida dei processi di globalizzazione e le carte del “grande gioco” non le daranno più soltanto gli Stati Uniti e l’Europa. Lo stesso asse atlantico appare irrimediabilmente incrinato – a prescindere da Trump – e, come dice Angela Merkel, l’Europa, se vuole restare tra i decisori mondiali, deve unirsi e fare da sé.
Può farlo soltanto se: 1) elimina le resistenze nazionalistiche e corporative che ancora vi sono radicate, 2) riesce a comporre le culture politiche e sociali mediterranee con quelle dell’Europa del nord, 3) riesce ad assorbire le inevitabili immigrazioni attraverso un progetto unitario, 4) crea le condizioni per essere competitiva, e non soltanto dal punto di vista produttivo.

Non si tratta di annegare le identità nazionali in un coacervo burocratico indifferenziato (come per alcuni aspetti è avvenuto nell’Unione) ma di prendere atto che vi è una convenienza comune a stare insieme, a procedere uniti per contare di più, ed essere quindi disposti a mettere da parte le differenze che provengono dal passato.
Il nostro continente ha caratteristiche comuni che lo rendono riconoscibile: il liberalismo dei diritti (allargato ai diritti sociali), l’economia di mercato regolata (lontana tanto dagli eccessi dello spontaneismo liberista quanto dal dirigismo statalista), una grande varietà di modelli sociali ereditati dalla storia, una cultura linguisticamente differenziata ma omogenea nelle manifestazioni e nelle interrelazioni artistiche, nella filosofia, nella scienza, e infine nell’assenza di una qualsivoglia egemonia religiosa che possa mettere in pericolo il principio di laicità.

Il passo successivo da compiere è quello di creare una federazione in cui le distinzioni tra competenze nazionali e federali siano chiare e senza ambiguità e nella quale gli “stati che ci stanno” mettano insieme: – la politica estera.
– la moneta e la politica economica.
– la politica di difesa militare.
Esiste già oggi probabilmente un nucleo ristretto di paesi disposti a compiere queste rinunce alla propria sovranità. Se l’esperimento riesce “l’intendence suivrà”, gli altri, prima o poi, si accoderanno.

C’è però un problema di legittimità democratica senza la cui soluzione ogni costruzione istituzionale mostrerebbe le stesse debolezze dell’Unione Europea come la conosciamo. Il processo di legittimazione democratica deve partire dai cittadini, non a colpi di referendum – spesso emotivi, divisivi e distorsivi – ma avendo il coraggio di eleggere un’assemblea costituente europea a suffragio universale diretto.
Il trattato costituzionale elaborato faticosamente nel 2005 e poi affondato dai referendum in Francia e in Olanda, si apriva nel preambolo con la formula: “Noi, Capi di Stato di ……(segue l’elenco dei paesi aderenti) promulghiamo ecc.” ripetendo lo schema delle costituzioni europee ottocentesche octroyés (cioè concesse dai sovrani). La costituzione europea che bisogna disegnare dovrebbe invece aprirsi con la stessa dizione di quella americana del 1787: “Noi, popoli europei, promulghiamo la seguente Costituzione ….”

 

Franco Chiarenza
16 giugno 2017