Caro Direttore, la recessione senza precedenti causata dalla pandemia da coronavirus rende indispensabile l’intervento dello Stato, adeguatamente supportato – si auspica- dall’Unione europea.
Uno Stato impegnato a sostegno delle famiglie e delle imprese, con l’obiettivo di scongiurarne gli esiziali esiti.
Questo intervento ha comprensibilmente assunto, fin qui, la forma di una terapia palliativa, prevalentemente fatta di sussidi e sovvenzioni e dettata dall’urgenza di dare sollievo alle sofferenze e di attenuare le ansie più immediate e gravi della popolazione . Ma ha il limite di non incidere in alcun modo sulle cause della crisi recessiva che ci affligge e comporta il rischio di dare avvio nel Paese a un’economia sovvenzionata che perduri oltre l’emergenza in atto e degradi – il caveat viene da uno studioso dell’autorevolezza di Giuseppe De Rita – in un’economia sovvenzionata ad personam.
Anche perciò, credo che lo Stato, debba, nel prosieguo, focalizzare il suo impegno sul rilancio degli investimenti,
pubblici e privati, nella scuola, nella ricerca, nelle infrastrutture, materiali e immateriali – la cui carenza e obsolescenza penalizza il nostro sviluppo – e nelle iniziative imprenditoriali.
Mi soffermo sull’intervento – che viene qui sollecitato e che credo sia lecito attendersi, per il superamento della crisi – dello Stato imprenditore, non solo perché è un tema importante, ma anche perché è culturalmente e politicamente controverso.
Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera del 15 aprile, ha sostenuto che la tentazione dello statalismo
sarebbe di grave impedimento alla ripresa della nostra economia in recessione mentre io ritengo che una exit strategy di successo dalla crisi non possa prescindere dall’iniziativa imprenditoriale dello Stato.
Da quando, nel 1933, Alberto Beneduce, per rimettere in piedi l’industria e la finanza italiane dissestate dalla Grande depressione della fine degli anni ’20, fondò l’Iri – Istituto per la Ricostruzione Industriale – l’Italia ha un’economia mista, nel senso che l’anzidetta iniziativa pubblica si affianca a quella degli operatori privati.
Le conseguenze della pandemia che stiamo sperimentando sono ancora più gravi di quelle provocate da quella terribile recessione d’antan, ma l’Iri, che per decenni ebbe riconosciute benemerenze nell’ammodernamento
e nello sviluppo del nostro paese, non c’è più.
Il suo smantellamento, negli anni tra il 1993 e il 2000, coincise con la crisi politica che determinò la scomparsa di tutti i partiti storici dell’Italia repubblicana e fu motivato – malgrado le obiezioni sollevate e le lungimiranti soluzioni alternative prospettate da Giuseppe Guarino, allora ministro delle Partecipazioni statali e di recente scomparso – con le indubbie disfunzioni e devianze che l’Istituto aveva manifestato, ma che avrebbero potuto e dovuto essere corrette, senza privare il Paese di uno strumento di politica economica così utile ed efficace.
Questa cupio dissolvi fu attuata con la privatizzazione delle grandi società delle quali l’Istituto deteneva il controllo e che per lo più presidiavano settori chiave dell’economia nazionale. Ma, purtroppo, gli operatori privati ai quali furono cedute, risultarono in molti casi inadeguati a questo passaggio di testimone e andarono in crisi e perciò o cessarono le attività o alienarono le imprese loro cedute a operatori internazionali o ne chiesero e ottennero il ritorno
in mano pubblica.
Al tirar delle somme, oggi il nostro sistema-Paese non dispone più della forza e della capacità strategica che il colosso Iri le conferiva, ha visto ridursi numero e dimensione delle sue maggiori imprese e non ha più il presidio (visto che non vi operano più imprenditori italiani) di settori chiave dell’economia nazionale (ad esempio le Tlc e la siderurgia dei prodotti piani e degli acciai speciali): in breve, ha visto notevolmente ridursi la sua competitività internazionale.
Tuttavia, nonostante questa grave menomazione, l’Italia ha ancora un’economia mista perché agli imprenditori
privati si affiancano imprese (Eni, Enel, Fs, Leonardo, Fincantieri), efficaci e competitive anche a livello internazionale. È la dimostrazione del fatto che lo Stato, se si dota di adeguati presidi manageriali, può e sa fare l’imprenditore.
C’è, inoltre nel Paese, un’elevata e non latente domanda di presenza pubblica nel mondo dell’impresa e cioè, fuor di metafora, c’è una gran voglia di Iri, perché si avverte il bisogno di quella sua funzione di supporto e supplenza all’imprenditoria privata che ne giustificò la nascita e che, nella sua lunga vita l’Istituto seppe assolvere.
L’imprenditoria privata italiana ha grandi valenze positive e meriti indubbi (è diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale, ha fatto dell’Italia la seconda manifattura d’Europa ed esporta in tutto il mondo), ma ha anche limiti tipologici, dimensionali, finanziarie di vocazione (essendo fatta, in larghissima prevalenza, di imprese familiari, di piccole e piccolissime dimensioni, poco capitalizzate e poco orientate a impegnarsi nei settori più innovativi e dinamici dell’economia globale), che postulano le ricordate funzioni (di supporto e supplenza)
dello Stato imprenditore.
Per quanto ho ricordato a proposito della nostra storia industriale, questa figura, non può essere considerata in Italia un misterioso e minaccioso Ircocervo e tuttavia è fuor di dubbio che esistano nei suol confronti forti pregiudizi negativi, di natura sia culturale che politica, che credo vadano ragionevolmente superati.
Anche per evitare che il nostro governo debba rinunciare – in questo, difficilissimo frangente della nostra vita, ma anche in prospettiva – ad avvalersi di questo validissimo strumento di politica economica o sia costretto a utilizzarlo solo dopo averlo mimetizzato, quasi che la sua scelta non avesse valenza strategica e piena legittimazione.
Mario Lupo
(Articolo pubblicato il 30 aprile 2020 su Il Sole 24 ore)