Trent’anni fa moriva Giovanni Francesco Malagodi, personalità controversa del liberalismo italiano, leader incontrastato del partito liberale per quasi un ventennio. E’ rimasto nella storia della prima repubblica prigioniero di uno stereotipo che in gran parte non corrispondeva alla realtà. Su di lui esiste ormai un’abbondante bibliografia e non tocca a me integrarla ulteriormente, ma non posso esimermi da una dovuta testimonianza per averlo io conosciuto in tre occasioni, traendone impressioni e giudizi ogni volta diversi.
Il primo Malagodi che ricordo è quello della mia militanza nella Gioventù Liberale e nelle associazioni goliardiche degli anni ’50/60. Era il Malagodi bersaglio della nostra insofferenza nei confronti di una politica che consideravamo eccessivamente conservatrice e troppo contigua a posizioni di destra sbrigativamente assimilate al fascismo. In realtà Malagodi era democratico e anti-fascista in maniera intransigente, rifiutando sempre alleanze di grande destra che le nuove leadership del MSI e dei residui monarchici gli offrivano (e che, in termini numerici avrebbero consentito un maggiore condizionamento sulla DC). Era tuttavia convinto che ogni apertura di credito nei confronti dei socialisti (alle prese con un difficile processo di distacco dal frontismo social-comunista) fosse prematura, soprattutto per i prezzi che si sarebbero dovuti pagare nelle politiche economiche, convinto com’era che il problema dell’Italia fosse quello di superare le strozzature all’economia di mercato che persistenze corporative (protette dalla DC) e un interventismo pubblico eccessivamente diffuso e poco trasparente (ENI, IRI, ecc.) facevano del nostro Paese il più condizionato dal clientelismo politico (con ricadute elettorali che certo non premiavano i partiti minori della coalizione di governo). Coerente con tale impostazione legò strettamente il partito al mondo imprenditoriale privato la cui rappresentanza era allora dominata dalla grande industria (Fiat, Edison, Montecatini, Falck e pochi altri soggetti) sfidando apertamente l’ostilità degli intellettuali politically correct in quegli anni tutti simpatizzanti di sinistra. Dal punto di vista culturale però Malagodi era un gigante: conosceva cinque lingue, aveva approfondito durante il suo esilio dall’Italia lo studio di tutti i classici del liberalismo, compresi quelli più recenti spesso ancora poco diffusi in Italia; pochi nel nostro mondo politico, provinciale e mediamente incolto, potevano confrontarsi con lui (tranne forse La Malfa che ne fu sempre polemico antagonista, ma che proveniva dallo stesso staff di collaboratori allevati dal grande banchiere umanista Mattioli). Ricordo una volta, mentre ero in taxi a Milano e l’autista ascoltava una “tribuna politica” in cui parlava Malagodi, questa osservazione bruciante: “Quant’è bravo! Che peccato che stia dalla parte dei padroni!”.
Ma furono proprio i “padroni” a tradirlo; quando apparve chiaro che l’apertura ai socialisti sarebbe stata prima o poi ineluttabile abbandonarono Malagodi e il suo partito per ripiegare sui moderati della DC che sapevano come fare per ridurre alla ragione i socialisti.
Il mio secondo Malagodi fu quello che conobbi nel ruolo di presidente dell’Internazionale Liberale (dal 1958 al 1966), una funzione che gli consentì di svolgere pienamente la sua vocazione intellettuale dimostrando la profondità della sua preparazione non soltanto economica ma anche filosofica e politica. Con la sua presidenza l’Internazionale Liberale si indirizzò verso una interpretazione moderna e socialmente sensibile del liberalismo riprendendo e completando le definizioni che erano state stabilite nel manifesto di Oxford del 1947 (poi aggiornato nel 1997 con il contributo significativo della Fondazione Einaudi di Roma, presieduta allora da Valerio Zanone) in linea con una visione aperta che escludeva qualsiasi identificazione del liberalismo con il conservatorismo moderato. Quando lo interrogai (proprio in una riunione dell’Internazionale dove ero presente come giornalista) sulla contraddizione che sembrava emergere rispetto alle posizioni del PLI mi rispose che l’Italia era un caso particolare dove l’equilibrio tra le spinte legittime del socialismo democratico e il mantenimento dei diritti di iniziativa privata in un’economia di mercato era pericolosamente inclinato verso un interventismo pubblico eccessivo che trovava in una parte del mondo cattolico ampie coperture. “Quando anche da noi i socialisti saranno come i laburisti inglesi o i social-democratici scandinavi, ne riparleremo”.
Me ne ricordai molti anni dopo quando, aprendo il suo discorso al Senato a favore del governo Craxi, Malagodi evocò il fallimento del tentativo di Giolitti di portare al governo i socialisti nel 1921 come una scelta sciagurata che forse contribuì all’affermazione del fascismo.
Il terzo Malagodi me lo ritrovai accanto nelle riunioni della direzione centrale del PLI nel breve periodo in cui ne feci parte (1988/89); lui era presidente onorario, io capo-redattore della RAI molto imbarazzato di ricoprire cariche direttive (seppure formali) in un organo di partito. La sua intelligenza, la profondità delle sue osservazioni, il piacere della conversazione (che ritrovai in occasione di una visita alla sua tenuta dell’Ajola in Toscana), una visione politica del tutto diversa da quella che gli veniva attribuita dal clichè della narrazione storica della prima repubblica, mi posero il dubbio: avevo sbagliato io negli anni lontani o era cambiato lui? Probabilmente erano vere entrambe le cose.
Dopo la sua morte un giorno si presentò alla Fondazione Einaudi di Roma in largo dei fiorentini la vedova, proponendoci la cessione di vecchie carte del marito alle quali non sembrava dare molto rilievo. Ne venne fuori invece un archivio di grande importanza e il manoscritto di un libro mai pubblicato del padre Olindo Malagodi, consigliere e amico di Giovanni Giolitti. Affidammo tutto l’incartamento alle sapienti mani di Giovanni Orsina, che in qualità di direttore scientifico collaborava con noi, e ne sono usciti contributi storiografici fondamentali per lo studio di quel periodo della storia italiana.
Franco Chiarenza
4 maggio 2021