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Foto di Forza Italia (Facebook)

Così avevo titolato il mio “pezzo” sul Cavaliere, faticosamente elaborato su sollecitazione dei pochi affezionati lettori di questo blog, stupiti che il “liberale qualunque” non avesse nulla da dire sull’inventore del “partito liberale di massa”. In effetti con una mossa a sorpresa, di quelle in cui eccelleva, avendolo letto in anteprima come è possibile soltanto ai fantasmi, “lui” ha spinto il mio dito sul tasto sbagliato del computer e in un secondo tre cartelle si sono evaporate. Forse è meglio così: il tempo trascorso mi consente di essere più tollerante.

Comincio da capo al netto di tante celebrazioni, beatificazioni, dannazioni, commenti psico-sociologici, compiacenze morbose sul suo harem continuamente rinnovato, analisi dettagliate sulla complessa giurisprudenza che ha caratterizzato il suo rapporto con la magistratura. Ei fu. Chi fu in realtà poco importa: un furbo palazzinaro? Un imprenditore che aveva capito prima di altri l’importanza fondamentale della televisione? Un abile piazzista che raccoglieva i voti con le stesse tecniche usate per conquistare i consumatori? Un presidente straordinario di una squadra di calcio? Oppure un imbroglione funambolo che riusciva abilmente a mescolare la dimensione pubblica con quella dei suoi interessi privati? Un mafioso espresso dalla “cupola”? Un massone nascosto nella P2 di Licio Gelli?
Fu tutto questo ed altro; fu – come ha detto nella sua omelia l’arcivescovo di Milano – un uomo che amava la vita. E l’amava talmente da cospargere intorno a se un’immagine falsa di piaceri illimitati, di relativismo morale, di ottimismo costruito sull’illusione che chiunque potesse plasmare la propria esistenza sul modello che impersonava.
Ma – ripeto – al liberale qualunque chi fosse Berlusconi, per quali motivi decise – dopo il fallimento di Mario Segni – di scendere in politica, con quali risorse abbia costruito il suo impero non importa granchè; voglio astenermi da qualsiasi giudizio morale. Importa invece cosa ha fatto (o non ha fatto) nella dimensione politica. Chi è stato dunque l’uomo politico Silvio Berlusconi che ha dominato la scena come nessun altro negli ultimi quarant’anni?

Un liberale?
Domanda lecita perchè tale sempre si è dichiarato. Peccato che non lo sia mai stato, non per ostilità preconcetta ma semplicemente perchè non sapeva cosa significava esserlo. Concetti come stato di diritto, libertà di espressione, tolleranza per le diversità, pluralismo politico, dialettica parlamentare, ecc. erano lontanissimi dal suo modo di pensare; aveva una vaga idea del liberismo economico (che è altra cosa dal liberalismo) che si esprimeva in un “laissez faire, laissez passer” tradotto concretamente in continui compromessi con le forze in gioco con cui necessariamente doveva confrontarsi.
Si potrà obiettare che però di “liberali doc” si era circondato, soprattutto nei primi tempi: Biondi, Urbani, Altissimo (con qualche riserva), Pera, Martino, Costa, e molti altri. Ciò avvenne perchè con lo scioglimento traumatico del PLI i liberali erano rimasti senza casa e alcuni di essi ritennero che Berlusconi col suo impeto dirompente e la sua ingenuità politica potesse non soltanto fornirgliene una ma anche lasciarsi guidare nella sua conduzione. Le cose andarono diversamente e dopo essersene servito per dare una vernice di credibilità alla propria leadership il cavaliere li abbandonò al loro destino.

Un socialista?
No, se non altro perchè rifuggiva da ogni tentazione egualitaria e di Marx e Lenin conosceva quel tanto che bastava per farne oggetto del suo anti-comunismo viscerale che esibiva in ogni occasione e su cui fondava la propria legittimazione di leader della destra. Ma fu amico di Craxi senza il cui aiuto non avrebbe mai potuto realizzare quel duopolio televisivo che è stato decisivo per il suo successo. Nel progetto craxiano le televisioni private dovevano servire a contrastare la cultura catto-comunista che occupava nella RAI posizioni preminenti, ma al di là di ciò tra il segretario socialista e Berlusconi non vi fu mai un disegno politico condiviso. Craxi immaginava un futuro bipolare di tipo tedesco con un partito conservatore di ispirazione cristiana e una social-democrazia in grado di raccogliere le istanze ideali della sinistra. Berlusconi invece ammirava i modelli paternalistici e illiberali dei regimi autoritari come quelli che si erano affermati in Russia, in Ungheria, in Turchia.
Però se socialista non fu, dei socialisti, anch’essi rimasti orfani dopo l’abbattimento di Craxi, largamente si servì, non soltanto per alimentare i quadri delle sue televisioni ma anche per ereditare gran parte dei loro quadri dirigenti specialmente a Milano. Ex socialisti come Tremonti, Brunetta e tanti altri furono, a fasi alterne, suoi collaboratori diretti.

Un fascista?
No, fascista non fu mai; al contrario, proveniva da una tradizione familiare anti-fascista. Ma con i neo-fascisti invece stabilì rapporti cordiali convincendoli a mandare in frantumi le anticaglie nostalgiche prive di prospettiva per trasformarsi in un moderno partito nazionalista; trovò in Fini l’interlocutore adatto e soltanto così potè realizzare l’unica vera operazione politica che – nel bene o nel male – gli va attribuita: l’alleanza elettorale con la Lega al nord e con AN al sud, imperniata sulla sua personale fideiussione politica. Forza Italia , che partito non era né di nome né di fatto, rappresentò il collante attorno al quale la destra dimostrò di essere maggioritaria nell’elettorato.

Un conservatore?
Dipende da cosa si intende per tale. Il mondo imprenditoriale, salvo poche eccezioni, accolse la sua vittoria elettorale come una svolta decisiva per sconfiggere definitivamente il dirigismo corporativo che soffocava il Paese (i famosi “lacci e lacciuoli” stigmatizzati da Guido Carli), ma in realtà tutte le proposte dell’ufficio studi di Confindustria si sono arenate fuori dai cancelli di Arcore perchè la vera scelta del presidente fu quella di lasciare tutto com’era fingendo di cambiare tutto: una perfetta sintesi della filosofia gattopardesca che coincideva in maniera impressionante non tanto con la vecchia DC (che era una costruzione complessa al cui interno convivevano differenti strategie politiche e sensibilità sociali) quanto piuttosto con la prassi di governo della sua parte più conservatrice, i cosiddetti “dorotei”.

Nè né
Penserà la storia, man mano che il tempo avrà steso il suo manto pietoso sulle imperfezioni umane del personaggio, ad approfondire la figura complessiva di Silvio Berlusconi. Ma da liberale non posso esimermi dall’affermare che la sua leadership, intrinsecamente rivoluzionaria per il modo in cui aveva sconfitto i progetti per trasformare l’Italia in un laboratorio politico dirigista e neutralista egemonizzato da una sinistra intrinsecamente illiberale (come si profilava il compromesso storico immaginato da Moro e Berlinguer), è stata un’occasione tradita. Non per la mancata costituzione di un “partito liberale di massa”, ma per non avere avviato – avendone la possibilità – quella rivoluzione culturale liberale che l’Italia attende sin dal compimento della sua unità.

Franco Chiarenza
4 luglio 2023

Foto di Presidenza del Consiglio dei Ministri

Stiamo rischiando molto. Se il governo non trova il modo di accelerare la realizzazione del piano potremmo perdere – almeno in parte – i finanziamenti europei che dovevano servire a colmare il gap strutturale del nostro Paese. Nella Von der Leyen l’Italia ha un’alleata, anche per il buon rapporto che si è instaurato con Giorgia Meloni, ma non tutto dipende da lei e i partner europei mostrano segni di insofferenza per le nostre lentezze. L’approssimarsi del rinnovo del parlamento europeo (tra un anno) non facilita la soluzione dei problemi per le ricadute pre elettorali inevitabilmente destinate ad accentuare i contrasti, non soltanto da noi ma soprattutto nelle altre nazioni dell’Unione. Cosa sta succedendo dunque?

Le “bandierine”
Accade che la Lega, ancora scottata da un esito elettorale imprevisto e mortificata dai sondaggi che la inchiodano a un terzo dei consensi di “Fratelli d’Italia”, cerca disperatamente di piantare bandierine sui provvedimenti di governo cercando così di acquisire popolarità; e lo fa, come sempre, nel peggiore dei modi.
La Meloni aveva ereditato dal governo Draghi due pilastri di credibilità europea che andavano preservati e coltivati se voleva avere voce in capitolo facendo dimenticare il suo passato che la collocava molto vicino alle posizioni del gruppo di Visegrad: la solidarietà atlantica nel conflitto ucraino e l’attuazione del piano di ripresa e resilienza concordato con l’Unione Europea (che lo finanzia in parte con soldi a fondo perduto). In entrambi i punti l’ostacolo principale era costituito dalla velleità di Salvini di attribuirsi il merito di cambiamenti che segnassero una discontinuità con l’odiato governo Draghi (di cui peraltro faceva parte, sia pure con un piede dentro e l’altro fuori). Sull’Ucraina non c’è stata partita: la Meloni è andata avanti come un treno e Salvini (malgrado la sintonia “filo putiniana” con Berlusconi) ha dovuto rinunciare a qualsiasi possibilità di differenziarsi. Ma sul PNRR il leader leghista ha puntato i piedi; quando si tratta di soldi non si scherza. Bisognava cambiare tutto almeno nella forma, anche se nella sostanza la Commissione Europea non avrebbe consentito modifiche rilevanti, soprattutto se finalizzate a trasferire gli stanziamenti dalle infrastrutture all’assistenzialismo. Ma cambiare anche soltanto la forma (uffici, rimodulazione dei decreti, sostituzione degli staff operativi, ecc.) era il contrario di quel che si doveva fare viste le scadenze imposte dal piano: modificare la regia in corso d’opera significava infatti perdere tempo ricominciando da capo con progetti e attribuzioni di responsabilità che ne avrebbero ritardato la realizzazione. E qui, in questo cruciale passaggio, i fratelli d’Italia hanno finito per restare prigionieri delle stesse logiche dei cugini leghisti.

La resa dei conti
In tale contesto si colloca il conflitto con la Corte dei Conti. La quantità e la lentezza dei controlli sulla contabilità pubblica rappresentano da sempre una delle principali ragioni che rallentano la capacità di spesa della P.A.; non lo dice il “Liberale Qualunque”, lo affermano economisti, giuristi, imprenditori, sindaci di ogni parte politica. Accorciare (e rendere più efficiente) la catena dei controlli, eliminando duplicazioni inutili (soprattutto in corso d’opera) era non soltanto opportuno ma doveroso: lo aveva sostenuto Draghi, lo ha ripetuto pochi giorni fa Sabino Cassese con abbondanza di motivazioni. Ma la magistratura contabile si è levata indignata a protestare, come sempre fa ogni burocrazia che in un’accelerazione delle procedure vede un attacco al proprio potere di interdizione. Il tentativo di ottenere la solidarietà della burocrazia europea è però naufragato di fronte alla risposta circostanziata della presidente del Consiglio e si è risolto in una imbarazzata ritirata di Bruxelles.

Ora però bisogna sbrigarsi. I primi effetti del nostro ritardo cominciano a manifestarsi: abbiamo perso mesi preziosi per attendere che le nuove strutture divenissero operative, una parte dei fondi che dovevano essere sbloccati a dicembre è stata prudenzialmente accantonata a Bruxelles, il governo tenta disperatamente di ricontrattare le scadenze con la Commissione ma la partita non è facile, il povero ministro Fitto, incaricato di sciogliere la matassa ci si è ingarbugliato proponendo (e poi smentendo) una riduzione degli obiettivi del PNRR (e dei relativi finanziamenti con tanta fatica confermati durante il governo Draghi). E il disastro è solo agli inizi: avere privilegiato gli enti locali nella realizzazione del piano è stato un clamoroso errore che provoca ritardi, inadempienze, spinte clientelari paralizzanti. Parlando di infrastrutture essenziali per la modernizzazione del Paese la cabina di regia doveva essere centralizzata non soltanto per l’assistenza tecnica ma anche col potere di subentrare nella realizzazione dei progetti che spesso i comuni non hanno la capacità di concretizzare in tempi ragionevoli.
La presidente del Consiglio ha assicurato che questa è la strada che il suo governo intende imboccare, ma siamo in forte ritardo. Ci vorrebbe un miracolo. Forse Giorgia Meloni potrebbe contare sulla intercessione del suo vice Salvini facendogli tirar fuori dal cassetto dove custodisce i suoi ricordi i santini e i rosari esibiti in campagna elettorale. La t-shirt inneggiante a Putin meglio lasciarla piegata in un angolo in attesa di tempi migliori. Non si sa mai.

Franco Chiarenza
7 giugno 2023

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri (https://www.governo.it/it)

Ricordate Eduardo in “Napoli milionaria” dove c’era la celebre battuta “Ha da passà a nuttata”? Tutti noi che ci interessiamo di politica (cioè una piccola minoranza, gli altri erano più attratti dalla “Champion’s”) attendevamo Giorgia Meloni al varco ineluttabile del 25 aprile, la festa che celebra la Resistenza e che la sinistra ha sempre utilizzato per contrapporre ai suoi avversari politici ritenuti non abbastanza anti-fascisti la propria verginità partigiana, senza se e senza ma. La ricorrenza serviva a richiamare la distinzione fondamentale su cui doveva fondarsi la Repubblica: da una parte i partiti che avevano scritto la Costituzione (comunisti compresi, a prescindere dalle loro simpatie per il totalitarismo sovietico) e dall’altra i nuovi arrivati (Forza Italia, Lega, Alleanza Nazionale). I liberali, avendo fatto parte del CLN erano tollerati ma guardati con diffidenza.
Roba passata; il 25 aprile 2023 invece era questione di attualità.

25 aprile 2023
Nell’ottobre 2022 infatti, con una volata che ricordava le celebri imprese dei cavalli di razza quando gli ippodromi erano ancora di moda, il movimento politico “Fratelli d’Italia” aveva vinto le elezioni, facendo a pezzi la sinistra storica raggruppata nel PD e ridimensionando i suoi stessi alleati (a cominciare da Berlusconi). Dopo un secolo esatto un partito che era nato e si era sviluppato sulla memoria storica del fascismo aveva conquistato il potere; senza camicie nere, evitando marce faticose, meno rumoroso di quello degli antenati, pieno di attenzione per i ceti moderati che gli avevano aperto la strada (come peraltro era avvenuto anche quando al posto di Meloni c’era Mussolini e il Crosetto di allora si chiamava Grandi). A questo punto è cominciata una partita tutta ancora da giocare e che tiene ovviamente accesi i riflettori della pubblica opinione non soltanto in Italia ma in tutto il mondo dove nell’ultimo secolo sono cambiate molte cose. Come avverrebbe d’altronde se i neo-franchisti di Vox assumessero la guida del governo in Spagna o Marina Le Pen vincesse le elezioni in Francia, mettendo in discussione ancora una volta la credibilità democratica delle nazioni mediterranee spesso percepite come il “ventre molle” dell’Europa.

Abbiamo visto la presidente Meloni nei primi mesi di governo dedicare infatti quasi tutto il suo tempo a rassicurare gli alleati europei e americani (soprattutto i secondi) con atteggiamenti netti anti-putiniani che si contrapponevano alle ambiguità filo-moscovite dei suoi alleati di governo. In giro per il mondo senza un attimo di tregua, disseminando il cammino di scatti d’orgoglio, gaffes, ma anche nettezza di posizioni che gli sono valse – se non altro – il rispetto degli interlocutori (a cominciare da Macron che nei nostri confronti non riesce ad accantonare quegli atteggiamenti paternalistici da “soerette latine” abbastanza fastidiosi e ingiustificati). Ma l’attesa di tutti era per il 25 aprile: cosa avrebbe fatto l’erede di una memoria quanto meno revisionista nella festa dell’anti-fascismo?

La lettera
Al di là della scontata partecipazione ufficiale all’omaggio all’Altare della Patria con Mattarella e le maggiori cariche istituzionali, Meloni ha scelto di entrare a gamba tesa nel dibattito mediante una lettera al Corriere della Sera. Un intervento lungo e circostanziato in cui la presidente ha cercato di definire davanti alla parte più qualificata dell’opinione pubblica – lontano dalle piazze populiste – il suo rapporto con la memoria fascista e quindi anche la concezione di democrazia che dovrebbe caratterizzare il futuro della sua leadership facendo in modo che coincida con una visione conservatrice e moderata che in Europa ha molti punti di riferimento. Al di là di alcune imprecisioni e di qualche aggettivo improprio nulla che non si possa considerare legittimo all’interno di una dialettica pluralista come quella che piace a noi liberali. Lo smarcamento da ogni forma di totalitarismo (anche del passato) è netta e inequivocabile, il riconoscimento dei valori che hanno ispirato la Resistenza appare convinto e senza ambiguità. In sostanza un testo coraggioso che riprende e approfondisce il discorso di investitura pronunciato nel parlamento appena eletto che si accingeva a votare la fiducia al suo governo; per i suoi contenuti in rapporto ai precedenti della sua carriera politica non si tratta di una correzione di rotta ma di una vera e propria conversione. Ma la storia ci insegna che dei convertiti bisogna sempre diffidare e perciò non resta che rimettersi alla realtà fattuale dei prossimi mesi.
Nel frattempo però non si può nemmeno navigare in un continuo processo alle intenzioni attendendo ansiosamente i passi falsi del governo per poterlo delegittimare. Non è così che si fa l’opposizione. Occorre un progetto alternativo convincente in grado di riportare a casa quei tanti voti che la sinistra ha perso non per mancanza di “sinistrismo” ma, al contrario, per l’indifferenza che ha dimostrato nei confronti delle esigenze e delle preoccupazioni dei ceti medi tradizionalmente “centristi”. Elly Schlein, imposta al vertice del PD dal suo presunto elettorato, non ha ancora rivelato le sue vere intenzioni e per ora naviga prudentemente sulla consueta linea del no su cui spera di mantenere unito il partito. Calenda e Renzi, che si rivolgono a un elettorato più riflessivo, invece di chiarire pubblicamente le differenze di strategia che li dividono, hanno litigato come comari di cortile determinando un comprensibile disagio tra i loro stessi amici e dimostrando i limiti di ogni alleanza basata su leadership personali anziché su convergenze programmatiche. Dalle ceneri del terzo polo emerge soltanto un’ irrefrenabile auto-considerazione di personaggi che si sono attribuiti senza alcuna verifica una capacità di rappresentanza dell’elettorato “moderato” che si è dimostrata quanto meno velleitaria.

Ci vuole altro perchè l’Italia ritrovi una credibilità che le consenta di tornare ad essere parte attiva della costruzione di un’Europa liberale, alleata con gli Stati Uniti ma al tempo stesso punto di equilibrio della grande cintura democratica che circonda le velleità egemoniche russe e cinesi, con le quali bisognerà pure fare i conti ma su posizioni di forza, proponendo un nuovo progetto di convivenza in grado di affrontare i problemi economici, ambientali e sociali che le future generazioni dovranno risolvere.
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Franco Chiarenza
30 aprile 2023

Via Facebook Partito Democratico

E del trionfo della Schlein cosa ne pensa il “Liberale Qualunque”? Mi hanno chiesto molti amici.
Ho lasciato che la nebbia mediatica delle prime emozioni (favorevoli o contrarie) si diradasse, nel frattempo ho letto molti commenti e ho sentito pareri discordanti. Sono giunto ad alcune riflessioni tutt’altro che conclusive che cerco di riassumere.

  1. il partito democratico è nato, come è noto, dopo la fine della prima repubblica, dalla fusione a freddo di diverse tradizioni politiche che ha sempre presentato forti criticità anche nei momenti di maggiore splendore, quando il partito si è avvicinato o ha superato il 30%.
  2. per questa ragione (e per altre che riguardano alcune caratteristiche culturali della sinistra italiana per le quali rinvio agli scritti memorabili di Luca Ricolfi) la sua leadership è sempre stata difficile e continuamente contestata al suo interno, da chiunque fosse esercitata, anche quando, eliminato Renzi (considerato da molti un “corpo estraneo”), si è cercato un “cavaliere bianco” in grado di superare le fazioni, trovandolo in Enrico Letta.
  3. al suo interno, al di là dei tanti personalismi e delle differenze “stilistiche”, si possono individuare delle faglie strutturali orizzontali (cioè territoriali) e verticali (ideologiche). Le prime riflettono il diverso radicamento regionale con la prevalenza di apparati abituati ad esercitare funzioni di governo a livello locale sin dai tempi della prima repubblica, prevalenti nelle regioni centrali (Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Lazio) ma influenti anche nelle grandi città del Nord; le seconde riguardano il venir meno della tradizionale “lotta di classe” ereditata dalla tradizione comunista (e che trovava la sua saldatura anche operativa nel rapporto sinergico con la CGIL) e la sua sostituzione con sensibilità meno legate alla giustizia sociale e maggiormente attente alla coesione sociale (diritti delle minoranze, diseguaglianze, simpatia per le radicalità ambientaliste).
  4. non sempre queste diversità sono componibili nella formulazione di una proposta politica chiara e riconoscibile, troppe essendo le convenienze di cui bisogna tenere conto. Tanto più che il partito democratico ha ereditato dall’imprinting originario di Veltroni la certezza (un po’ presuntuosa) di essere il solo in grado di rappresentare legittimamente l’interesse generale (cristallizzato in qualche modo nella difesa oltranzista delle parti più ideologiche della Costituzione “più bella del mondo”). Una convinzione che presupporrebbe una conduzione del partito non partigiana, difficile da esercitare nel clima politico di scontro permanente generato dagli estremismi di ogni colore (da quelli stellati di Grillo ai t-shirt putiniani di Salvini).

Schlein fa rima con “nein”
Tutto ciò premesso, l’elezione di Ely Schlein (la quale al PD non era nemmeno iscritta e condivide la cittadinanza italiana con quelle della Svizzera e degli USA) è stata possibile per la conformazione di “partito aperto” che sin dalle origini Veltroni aveva voluto per limitare il peso delle correnti interne e offrire un’immagine “moderna” di una nuova sinistra di governo affidabile e aderente alle esigenze che salivano dalla base elettorale, anche al di là dei suoi confini storici. Nessuno immaginava allora che le “primarie” aperte a tutti da strumento di partecipazione potessero trasformarsi in uno strumento potenzialmente in grado di consentire scalate ai vertici del partito anche in contrasto con la volontà degli iscritti. E invece proprio questo è avvenuto con l’imprevisto trionfo della Schlein generando una scossa elettrica che, al di là di ogni considerazione di merito, ha rivitalizzato il partito costringendolo a prendere atto che la vittoria elettorale della destra cambiava radicalmente il modo stesso di fare opposizione. Le primarie hanno messo in luce la debolezza crescente della dimensione “territoriale” del partito (che aveva appoggiato la candidatura di Bonaccini) e la capacità attrattiva anche sull’elettorato di sinistra di un ecologismo plebiscitario condito in salsa egualitaria, non molto diverso da quello che Grillo e Casaleggio proponevano agli esordi del movimento Cinque Stelle.

La Schlein si trova adesso a gestire una situazione molto difficile ma densa di risvolti interessanti non soltanto per il partito democratico ma per tutto lo schieramento politico. Ha due possibilità: porsi come leader di un’opposizione a tutto campo nei confronti del governo Meloni (riedizione aggiornata del “campo largo” di Letta) che le consentirebbe di mantenere unite le diverse componenti del partito e di non essere cannibalizzata da Conte sull’agenda “propositiva”, oppure puntare decisamente alla creazione di un polo di “sinistra/sinistra” destinato a una lunga opposizione ma fortemente riconoscibile nella sua radicalità; una sorta di “traversata nel deserto” come quella che pazientemente ha percorso a destra Giorgia Meloni.
Nel primo caso dovrà fare i conti con Calenda (che già vede profilarsi uno spazio di centro finora rimasto molto limitato) ma ancor più con Renzi, il quale probabilmente mantiene sottotraccia rapporti “incestuosi” con settori minoritari del PD; se invece virerà decisamente a sinistra sarà con Conte che dovrà vedersela, e non sarà facile perchè l’avvocato di Volturara Appula si è dimostrato spregiudicato nel gioco al rialzo.
Naturalmente nulla accadrà finchè si tratterà di dire no al governo; il problema si mostrerà nella sua complessità quando l’attuale maggioranza metterà sul tavolo alcune misure (scuola, giustizia, riforme costituzionali) su cui potrà trovare una sponda dialogante al centro, oppure quando l’opposizione cercherà di trasformare lo slogan del “campo aperto” in un vero programma alternativo. Il tutto in un momento in cui anche alcune scelte di politica internazionale fino ad oggi condivise (NATO e Europa) sembrano vacillare. Quando si comincia a parlare di adesione critica e non subordinata è come quando in un matrimonio uno dei coniugi accenna alla necessità di una “pausa di riflessione”. Si sa come va a finire.

Franco Chiarenza
21 marzo 2023

Via https://www.governo.it/it

In politichese “cento giorni” sta a significare una prima valutazione dell’esordio di qualsiasi nuovo governo. Nel caso di Meloni bisogna tenere conto della difficoltà di chiudere in tempi brevi un bilancio già in gran parte definito dal governo precedente, di un elettorato che chiedeva un rapido mantenimento delle promesse elettorali, di una situazione internazionale caratterizzata dall’aggressione russa all’Ucraina. La nuova premier ha subito indicato come priorità assoluta la politica estera allineandosi prontamente al fronte NATO (dove Draghi l’aveva già collocata) e andando all’assalto della fortezza UE come sempre presidiata dall’asse franco-tedesco, pregiudizialmente ostile al suo governo percepito come espressione di una maggioranza nazional-populista più vicina ai regimi illiberali di Varsavia e di Budapest che non ai tradizionali sistemi liberal-democratici che hanno sempre prevalso nell’Europa occidentale.
Bisogna dare atto alla Meloni di non essersi nascosta dietro un velo di ipocrita concordanza di vedute (come spesso avviene nei vertici europei) e di avere subito accettato di affrontare i problemi prendendo il toro per le corna, forte del fatto che molti rilievi avanzati dall’Italia sono legittimi e in linea di continuità con la politica estera di Draghi. Le critiche dell’opposizione infatti non riguardano tanto il merito delle tesi sostenute dalla presidente quanto piuttosto il metodo utilizzato che rischia di isolare la posizione italiana.

Isolamento?
Certo, l’isolamento è, almeno in parte, la conseguenza inevitabile della difesa di alcune esigenze a cui l’Unione non ha mai dato risposte convincenti, a cominciare dai flussi migratori provenienti dall’Africa che – piaccia o no – suscitano grande preoccupazione nell’opinione pubblica (non soltanto di destra). Seguono a ruota decisioni mascherate da esigenze ambientali che rischiano di avere pesanti ricadute sull’economia del nostro Paese: finanziamenti pubblici alle imprese in difficoltà, blocco della produzione automobilistica benzina/diesel, ristrutturazioni edilizie eco-compatibili. Sembra quasi che la Francia e la Germania vogliano spingere l’Italia verso l’area dei paesi europei illiberali (gruppo di Visegrad) per punirla di avere scelto un governo non allineato all’asse “polically correct” franco-tedesco, appoggiato, come sempre, dall’Olanda e da altri paesi del nord. Soltanto la Von der Leyen sembra rendersi conto della pericolosità di questa strategia oltranzista, ma la sua posizione appare sempre più debole anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno il cui esito appare quanto mai incerto.
A fronte di questa situazione Giorgia Meloni, invece di una strategia accomodante fondata sulla variabilità degli schieramenti europei, ha scelto – almeno per ora – una linea di discontinuità cercando fuori dall’Unione opportune compensazioni, a cominciare dagli accordi per assicurare al Paese una minore dipendenza energetica dalla Russia. Ma i conti alla fine si fanno a Bruxelles dove Salvini e Berlusconi l’attendono al varco; Berlusconi ha già cominciato la sua offensiva difendendo Putin, il leader della Lega si muove con maggiore prudenza ma tutti sanno come la pensa. Il vero isolamento la Meloni lo rischia in casa.

Il superbonus
La prima vera emergenza è stata (ed è) il rischio che scoppi la bolla finanziaria creata dall’abuso del superbonus per le ristrutturazioni immobiliari, sciagurato provvedimento che di fatto ha consentito la creazione di una moneta parallela (costituita dalla cedibilità illimitata dei crediti) che potrebbe costare al bilancio pubblico diversi miliardi di euro e uno scontro senza precedenti con l’Eurogruppo. La Meloni è stata netta nell’affrontare la questione e nel ricordare l’irresponsabilità demagogica di chi quel provvedimanto aveva voluto (Cinque Stelle) e che già Draghi aveva duramente stigmatizzato: in economia nulla è gratis – ha ricordato la premier – c’è sempre qualcuno che paga, magari senza saperlo (pareva di sentire Bastiat). La Lega, corresponsabile di tanto scempio con le ambigue scelte di Salvini, si ritrova ora con Giorgetti a dovere risolvere il problema, mettendo in luce ancora una volta il solco che divide la Lega di lotta (in t-shirt) da quella di governo (china a fare i conti con i buchi di bilancio). Intanto molti cantieri edili, frettolosamente aperti per fruire della manna che pioveva gratis dal cielo stellato, rischiano di chiudere mettendo per strada migliaia di lavoratori, che, tanto per cambiare, serviranno da alibi per tutelare gli interessi dei troppi “furbetti del quartierino”, speculatori ingordi che trovano sempre compiacenti coperture politiche.

Per il resto si registra poco più di qualche maldestro comportamento del discutibile “cerchio magico” di Meloni che ha dato il peggio di sé nel decreto sui “rave party”, nel tentativo di indebolire Nordio sul caso Cossipo e in sortite poco meditate del ministro della pubblica istruzione. Anche in questi casi la presidente del Consiglio resta danneggiata dalla superficialità di alcuni suoi ministri e vice ministri, che – come tutti i neofiti – pensavano all’entrata nelle mitiche “stanze dei bottoni” come se fossero sezioni del loro partito.

Lazio e Lombardia
Archiviate le elezioni nelle due regioni dove ha vinto in maniera schiacciante il partito dell’astensione, governo e opposizioni devono ora fare i conti con la realtà. L’astensionismo dei lombardi e dei romani non ha sorpreso nessuno; semmai colpisce la dimensione del fenomeno (in parte dovuto al fatto che il risultato era dato per scontato) perchè segnala come la metà dell’elettorato appaia chiuso in una rassegnazione fatalistica senza sbocchi politici; in particolare siamo delusi noi liberali che speravamo con l’alleanza di centro (Calenda – Renzi – Bonino) di costituire un terzo polo in grado di condizionare sia la destra al governo che l’opposizione di sinistra. Purtroppo anche le due capitali – Roma e Milano – considerate le loro roccaforti elettorali, non hanno dato segnali incoraggianti. Non resta che attendere la nuova leadership del PD per capire come pensa di recuperare i tanti voti che ha perso negli ultimi anni.
Forse però, prima dei problemi di identità dei partiti, per ridare vitalità e progettualità alla politica italiana occorrerebbe affrontare questioni strutturali che nella convenienza di tutti si potrebbero discutere seduti intorno a un tavolo, cercando ragionevoli compromessi, Sappiamo tutti quali sono: alcune modifiche alla seconda parte della Costituzione, un riassetto delle autonomie regionali più razionale e omogeneo di quello proposto dalla Lega, il completamento della riforma della giustizia, la legge elettorale, la scuola. Problemi su cui non si può continuare il gioco della visibilità mediatica fondata sulle distinzioni ma, al contrario, si dovrebbe cercare il massimo comune denominatore di cambiamenti da tutti ritenuti necessari.
Poi, trovato un accordo sulle modifiche alle regole del gioco, si potrà riprendere la competizione con un maggiore interesse del pubblico pagante, quello che oggi – disgustato – preferisce andare al mare anche nella cattiva stagione.

Franco Chiarenza
08 marzo 2023

Foto di Mstyslav Chernov – Wikimedia – CC BY-SA 4.0

Salvini c’è riuscito. Riportare la questione degli immigrati al centro dell’attenzione in un momento in cui le preoccupazioni degli italiani erano rivolte altrove poteva sembrare un azzardo, ma con l’aiuto involontario delle ONG e di Macron c’è riuscito. Ha messo in difficoltà la Meloni costringendola ad arretrare sul passato, ha messo in difficoltà i rapporti con l’Europa proprio quando la presidente del Consiglio voleva ammorbidirli, ha lanciato un messaggio chiaro ai militanti della destra su chi nel governo dettava l’agenda. Una gara che fa tanto ricordare la famosa scena del film di Chaplin “Il dittatore” quando il Duce e il Fuhrer spingono in alto le poltrone da barbiere. Il che conferma che i suoi veri avversari la leader di “Fratelli d’Italia” dovrà cercarli all’interno della sua maggioranza, tanto più che dall’opposizione parlamentare per ora non ha nulla da temere. E dire che per scansare il pericolo la neo-presidente le aveva pensate tutte: allontanare Salvini dal Viminale, silenziarlo con l’atlantismo, collocarlo lontanissimo dalla Farnesina, creare un apposito ministero del mare affidandolo a un berlusconiano per impedirgli l’accesso al Papeete da dove magari tra un bagno e l’altro poteva ordinare di affondare i barchini carichi di immigrati che sbarcavano sulle coste; affidandogli le infrastrutture pensava al vecchio inoffensivo ministero dei trasporti che di fatto si occupava di ferrovie (e arrivare in treno da Roma a Mosca era complicato (dovendo passare dall’Ucraina). Ma ahimè era inciampata sui porti. Porti = navi = ong = immigrazione. L’avevano fregata.

La questione
Naturalmente nulla nasce dal nulla. Il problema degli immigrati clandestini esiste e quello dei comportamenti ambigui delle ONG che si accompagna all’indifferenza dei partner europei pure.
Covid e guerra in Ucraina con tutte le conseguenze drammatiche che ne sono derivate hanno fatto giustamente passare in secondo piano le paure irrazionali che avevano in passato terrorizzato larghi settori dell’opinione pubblica che i neri li voleva sì per coltivare i pomodori ma non gradiva vederli girare liberamente per strada spaventando i loro bambini. Ironia a parte, erano arrivati problemi più seri e degli immigrati che sbarcavano in clandestinità per due anni non ha parlato più nessuno. Ma il problema esiste e non si risolve resuscitando venti nazionalistici (che ne suscitano altrove altrettanti) ma affrontando pragmaticamente la questione partendo da alcuni dati di fatto:

  1. Gli immigrati rappresentano in prospettiva una risorsa e non un onere. Tutti gli esperti concordano che con l’invecchiamento della popolazione la nostra economia non potrà funzionare senza l’apporto di centinaia di migliaia di immigrati, neanche se le nostre donne tornassero a fare figli con la stessa intensità del secolo scorso (il che pare irrealistico, anche con gli incentivi che la Meloni, memore forse dei fasti demografici mussoliniani, promette per sostenere la maternità).
  2. La questione quindi non è se abbiamo bisogno degli immigrati ma come regolarne i flussi di entrata in modo da renderli coerenti con un dignitoso collocamento (anche nel loro interesse). Lo stesso problema hanno avuto (e hanno) Francia, Germania e Spagna anch’esse soggette a una forte pressione immigratoria.
  3. L’Unione Europea – in quanto istituzione regolata dal trattato di Maastricht e da quelli successivi che lo hanno modificato – non ha competenza in materia. Può soltanto esercitare – per quel che vale – una moral suasion accompagnandola con qualche incentivo economico.
  4. Fino ad oggi la maggior parte dei partner europei si sono dichiarati contrari ad estendere il potere regolamentare dell’Unione in materia di immigrazione. Ogni decisione in proposito passa quindi attraverso l’unanimità dei suoi ventisei membri.
  5. Ciò nonostante la Germania è riuscita cinque anni fa a coinvolgere l’Unione in un accordo con la Turchia che ha consentito di bloccare l’invasione di profughi che in seguito alle guerre in Medio Oriente stavano rovesciandosi in Europa. Un accordo costato alcuni miliardi di euro ma che – attenzione! – non riguardava una generica immigrazione economica ma il salvataggio di profughi vittime di conflitti armati che erano sotto gli occhi di tutti. Qualcosa di simile sta accadendo per i profughi ucraini che dopo l’aggressione di Putin al loro paese hanno invaso la Polonia e sono stati giustamente accolti in tutta l’Europa (Italia compresa).
  6. Un fragile accordo che prevedeva il ricollocamento di alcune migliaia di migranti economici in alcuni paesi europei, chiesto dall’Italia e accettato da Francia e Germania, aveva carattere volontario e di fatto si è risolto in un fallimento.
  7. L’instabilità politica e militare della Libia aggrava la situazione, ma non è la sola ragione di quanto avviene nel Mediterraneo. Flussi costanti di migranti provengono anche dal Magreb, dall’Egitto e dal Medio Oriente. Una politica di contenimento e di selezione da sviluppare in Africa settentrionale – come proponeva la Meloni – urta contro due ostacoli: deve essere fatta dall’Unione Europea o quanto meno in stretta cooperazione dai paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (oltre al nostro Spagna, Francia e Grecia e altri minori), e deve trovare accoglienza e collaborazione nelle nazioni arabe interessate (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco). Di tutto ciò non si scorgono nemmeno le premesse. Gli unici soggetti che fanno politica in Africa esercitando un discreto potere di pressione sono le compagnie petrolifere (compresa, per fortuna, la nostra ENI) che sono tra loro in aspra competizione.

Sic rebus stantibus
Così stando le cose non basta sperare che le cose cambino e le opinioni pubbliche della Norvegia o dell’Olanda diventino più sensibili alle nostre preoccupazioni, e nemmeno esercitare pressioni muscolari (come la chiusura dei porti) o sollevare infinite controversie di diritto sulle bandiere che battono le ONG.Dobbiamo invece predisporre un piano B (che diventerà presto l’unico praticabile) per regolare l’accoglienza e il collocamento anche senza l’aiuto dei partner europei. Si può fare cambiando alcune leggi assurde che regolano cittadinanza e residenza, modificando l’accesso ai concorsi, collaborando coi sindacati per smantellare l’economia sommersa che prospera sull’immigrazione clandestina. Si può fare ma bisogna volerlo sedendosi intorno a un tavolo, anche presieduto da Giorgia Meloni. Meglio non invitare Salvini.

 

Franco Chiarenza
16 novembre 2022

 Foto: https://www.quirinale.it/

Il neonato governo Meloni non mi preoccupa. So con questa affermazione di scandalizzare gli amici liberali e, naturalmente, quelli di sinistra; ne spiego quindi la ragione.

Le radici, la cultura politica, la storia di Giorgia Meloni sarebbero preoccupanti se davvero potessero incidere in maniera significativa sull’azione di governo; in realtà ciò non può avvenire e se di qualcosa si deve dare atto alla giovane leader è di averlo compreso sfuggendo alla facile retorica paternalistica di Salvini e Berlusconi (i quali oltretutto – e questa è una sorpresa – non ne hanno ricavato alcun vantaggio). Un governo si qualifica per tre cose fondamentali: la politica estera, l’intervento pubblico nell’economia, la sicurezza. Il resto riguarda il funzionamento ottimale della pubblica amministrazione e può essere modificato soltanto con profonde riforme di struttura che per essere valide richiedono un consenso più ampio delle effimere maggioranze parlamentari; anche perchè rischiano di essere molto costose, non tanto in termini economici, quanto di consenso elettorale: parlo di giustizia, scuola, sanità, previdenza e assistenza (ivi compresa l’annosa questione dell’età pensionabile).

La politica estera
Giorgia Meloni ha subito sgombrato il campo da ogni ambiguità: la fedeltà all’alleanza atlantica ne resta il caposaldo con ciò guadagnandosi almeno la neutralità dei sospettosi americani che non avevano gradito le frequentazioni putiniane di Salvini e Berlusconi. Per quanto riguarda l’Europa l’avversione di Fratelli d’Italia ad ogni forma di ulteriore integrazione era troppo nota per essere platealmente contraddetta, ma in un momento in cui la solidarietà europea (di cui abbiamo estremo bisogno) è messa in crisi non dal gruppo di Visegrad ma dall’asse tedesco-olandese, tutto lascia pensare che il suo sovranismo, almeno per ora, finirà abbastanza ridimensionato. La nomina di Tajani a ministro degli Esteri e il lungo colloquio con Macron che “casualmente” si trovava a Roma nel giorno dell’insediamento del nuovo governo sembrano confermare la continuità con la linea Draghi.
Il resto non conta, salvo la Libia. Ma anche lì ogni azione che non sia velleitaria passa fatalmente dall’Europa e in particolare da un comunità d’intenti con Francia e Spagna di cui finora non si è vista traccia.

L’intervento pubblico in economia
L’assegnazione a Giorgetti del ministero dell’Economia risponde a tre diverse esigenze che la scelta del nuovo presidente in qualche modo soddisfa: ridimensionare il ruolo di Salvini, evitare la nomina di un tecnico, assicurare i mercati e le imprese che si manterrà salda la barra della “governance” economica dentro i parametri fissati dall’U.E. Il nome di Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico con Draghi, offre in proposito qualche fondata garanzia.
Per il resto, al di là delle demagogiche difese dei concessionari abusivi delle nostre spiagge che ci hanno afflitto questa estate, i paletti del trattato di Maastricht sono abbastanza rigidi da rendere inoffensivo qualsiasi attacco. Ci sarà qualche sbavatura, qualche “salvinata” ad uso e consumo di elettori futuri. Ma nulla di più.

La sicurezza
E’ un problema serio per qualsiasi governo anche per i riflessi che ha sulla pubblica opinione; forse ha rappresentato un elemento decisivo nell’affermazione di un movimento con radici autoritarie.
La realtà delle cose ci dice però che in una società aperta – come per fortuna è la nostra – poco si può aggiungere a quanto già si è fatto; se Giorgia Meloni dovesse cedere a tentazioni da “stato di polizia” si avventurerebbe sul terreno scivoloso della riduzione delle garanzie individuali seguendo i pessimi precedenti che hanno portato la Polonia e l’Ungheria a restare emarginati all’interno dell’Unione. Ed è infatti sui diritti e sulle garanzie che il governo è atteso al varco. Ed è in quel momento – che non sarà domani – che si capirà se la parola “responsabilità”, tanto spesa dal premier in campagna elettorale, avrà il significato che gli elettori moderati gli hanno attribuito: la consapevolezza di guidare un paese profondamente diviso che soltanto una infelice legge elettorale gli consente di governare. Lo si può fare in due modi: o con la contrapposizione generatrice di violenza e sbocchi autoritari oppure cercando possibili intese senza venir meno al mandato elettorale della maggioranza parlamentare.

Le riforme di struttura
Che siano necessarie tutti lo dicono; sul come farle la confusione (anche metodologica) regna sovrana. Se non si vogliono ripetere gli errori commessi in passato (Renzi compreso) occorre predisporle una alla volta (evitando i “pacchetti” che uniscono inevitabilmente gli eterni avversari di ogni cambiamento), confrontarle apertamente con le opposizioni per cercare soluzioni condivise, e non attribuirsene ad ogni costo la paternità per finalità elettorali. Giorgia Meloni si era già espressa per un confronto aperto e deve insistere. A cominciare da alcune revisioni costituzionali (Senato, Regioni, legge elettorale, giustizia).
Qualcuno obietterà che si chiede alla Meloni di fare ciò che i suoi predecessori di centro-sinistra (con l’eccezione di Renzi) non hanno mai fatto. Ebbene sì; col suo curriculum la nuova presidente del Consiglio deve assumersi l’onere della prova.

Riuscirà Giorgia Meloni?
La domanda quindi è: riuscirà la giovane leader ad avviare un puzle così complesso? La sua inesperienza e le radici politiche non giocano a suo favore; ma paradossalmente, anche per il modo in cui ha saputo gestire la transizione, senza arroganza, sempre richiamandosi al principio di responsabilità, diversamente dal populismo straccione di Salvini e da quello paternalistico di Berlusconi, Giorgia Meloni si presenta chiedendo un’apertura di credito che una società liberale non può negare.
Ma – come dice il proverbio – dai nemici mi guardi Iddio, dagli amici devo guardarmi io. E lei di “amici” pericolosi ne ha tanti.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2022

Foto: sito www.fratelli-italia.it

La vittoria di Giorgia Meloni è stata netta e inequivocabile, inutile girarci troppo intorno.
Vale la pena invece fare qualche riflessione sulle ragioni del suo successo e sui rischi che presenta questo nuovo quadro politico per una società che noi liberali vorremmo aperta e integrata nelle istituzioni europee.
E non a caso dico “vittoria di Giorgia Meloni” e non del suo partito Fratelli d’Italia perché credo che in questo caso la specificità della leadership sia stata determinante.

Perché ha vinto
Tutti (compresi i suoi alleati dello schieramento di destra) attribuiscono la ragione principale del successo di FdI al fatto di essere rimasto sempre all’opposizione, anche nell’intera scorsa legislatura quando si è passati disinvoltamente attraverso maggioranze multicolori tra loro ideologicamente poco compatibili. L’opposizione paga sempre e certamente anche in questo caso il suo peso è stato fondamentale; ma bisogna essere ciechi per non vedere che c’è dell’altro, anche perché la storia, le radici, i punti di riferimento culturali della Meloni sono assai più netti di quelli espressi da movimenti effimeri come i Cinque Stelle, Italia Viva, e la stessa Lega che da “partito del nord” si era trasformata in un movimento populista nazionale. Certamente Giorgia Meloni ha saputo destreggiarsi nei labirinti della politica con maggiore abilità del suo più diretto concorrente Matteo Salvini il quale ha infilato una serie impressionante di errori a partire dal Papeete del 2019 fino alle ambiguità che hanno caratterizzato la partecipazione al governo Draghi, nei cui confronti invece la leader di FdI aveva costruito un rapporto di opposizione responsabile che ricordava il fair play della prassi parlamentare britannica (chiaramente apprezzata dal presidente del consiglio). Anche i Cinque Stelle, concentrando sul reddito di cittadinanza e sugli inceneritori buona parte della loro identità, hanno perso nel centro nord più consensi di quanti ne abbiano mantenuti al sud, lasciando campo libero alla Meloni che i suoi punti di forza in Lombardia li ha sempre avuti. In questo modo si è prodotto un incredibile rovesciamento dei ruoli che ha confinato la Lega “nazionale” a simbolo di un estremismo plebiscitario e sovranista (che fino a poco tempo prima pareva appartenere soprattutto all’estrema destra post-fascista) mentre il movimento fondato da Meloni, Crosetto e Larussa sulle ceneri di Alleanza Nazionale indossava un più rassicurante abito moderato (anche se qualche strappo di fanatismo nostalgico fuori controllo ogni tanto spuntava fuori). Una trasformazione che una parte consistente dell’elettorato leghista delle regioni settentrionali ha colto immediatamente esprimendo col voto alla Meloni il suo dissenso nei confronti di un estremismo anti-occidentale che di colpo era diventato la nuova carta d’identità della Lega nazional-populista; persino nell’aspetto fisico Salvini con la volgarità dei suoi social, con gli slogan di cartapesta insignificanti per chiunque avesse un livello conoscitivo medio, sembrava ricordare il Mussolini dei primi tempi. Anche Berlusconi ha fatto la sua parte: la consistenza parlamentare di Forza Italia deriva dagli accordi preliminari con i partner di destra ma il suo fallimento come punto di raccolta della destra moderata è dovuto alle ambiguità filo-putiniane e alla mancanza di un progetto in cui i ceti medi che avevano appoggiato il governo Draghi potessero riconoscersi. Alla fine la fermezza “senza se e senza ma” con cui la Meloni ha proclamato la fedeltà all’alleanza atlantica è risultata vincente perché rappresentava un’affidabile dimostrazione di serietà.
Molti hanno rilevato l’importanza del fattore “donna”, e hanno ragione. La novità (per l’Italia) di un capo del governo declinato al femminile ha certamente orientato il voto di molte donne soprattutto perché contrapposto al maschilismo volgarmente esibito da Salvini e Berlusconi.

Chi l’ha votata?
Le analisi del voto sono quasi unanimi: pensionati, anziani, prevalentemente ceto medio, distribuiti in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale; pochi giovani. Ma in un paese di vecchi come sta diventando l’Italia tanto basta, anche al netto dell’effetto trascinamento che, come sanno gli esperti della materia, si produce quando un partito è percepito come possibile vincente e che trasforma un successo elettorale in un trionfo. Con la fine dei partiti ideologici e l’affermazione delle leadership personali il fenomeno si è accentuato determinando spostamenti di milioni di voti: è successo con Berlusconi, con Renzi, con Grillo, con Salvini e oggi si ripete con Meloni. Voti però molto fluidi, non ancorati a ideologie né a radicamenti storici, senza chiare e definite priorità politiche e sociali, e quindi instabili e pronti a defluire in altre direzioni. Un contesto in cui i sondaggi contano più delle maggioranze parlamentari e di cui anche la Destra dovrà tenere conto.

Quali rischi?
Non credo che la nostra democrazia e i pochi elementi di liberalismo in essa contenuti corra pericoli nell’immediato. L’interesse di Giorgia Meloni è di proseguire nella strategia rassicurante che l’ha fatta vincere: ne avremo conferma nella composizione del governo dove cercherà di limitare le pretese identitarie di Salvini, nella collaborazione con Draghi per la gestione della fase di transizione (soprattutto per quanto riguarda il PNRR e i rapporti con la BCE), nell’apertura di un tavolo per le riforme costituzionali aperto all’opposizione e nella consapevolezza che le sue radici costituiscono un limite alla possibilità di avviare un rapporto costruttivo con le parti sociali (sindacati, Confindustria, ecc.).
Non temo quindi grandi cambiamenti nella politica economica; l’Italia è inevitabilmente vincolata ai trattati europei e il suo debito pubblico troppo dipendente dalla tolleranza dei partner per consentire colpi di testa che la farebbero finire in bancarotta. Chiunque occuperà il posto di Daniele Franco lo sa e dovrà tenerne conto al di là degli slogan “Italia first” e simili con cui la Meloni ha condito la parte demagogica inevitabile in ogni campagna elettorale (peraltro con molta prudenza in tema di bilancio).
I veri problemi sorgeranno in un secondo tempo quando, consolidata la sua leadership, la Meloni dovrà affrontare questioni che più attengono ai diritti individuali, sapendo che una parte importante del suo nuovo elettorato non si riconosce nell’ideologia familistica, anti-abortista e nazionalista che cova nella pancia identitaria del suo partito. Non saranno certo l’indifferenza narcisistica di Berlusconi, né una Lega a guida salviniana cosparsa di rosari e santini a frenare pericolosi scivolamenti verso i modelli polacchi o ungheresi; al contrario. Quello sarà il momento in cui l’opposizione di sinistra e ancor più un centro depurato dai personalismi e rifondato su una carta liberale che riproponga i valori di una società aperta potranno svolgere un ruolo determinante.

Franco Chiarenza
28 settembre 2022

Quali sono le possibili scelte elettorali di un liberale qualunque? Mi è stato chiesto.

Percorro l’offerta disponibile.

Escludo l’estrema sinistra (Fratoianni, Speranza, ecc.) non per avversione pregiudiziale ma per il semplice fatto che la radicalità socialista e statalista a cui essa fa esplicito riferimento, anche se velleitaria e di fatto irrealizzabile, non è accettabile per un liberale. Non nego che sul tema dei diritti alcune convergenze sarebbero possibili ma non mi sembra che questo sia al momento il punto centrale.

Il partito democratico, soprattutto in alcune sue componenti, può invece essere considerato uno schieramento dove alcune istanze liberali hanno trovato in passato e possono ritrovare oggi uno spazio adeguato. Recentemente però Enrico Letta e il gruppo dirigente del partito (che già dalle sue origini liberale non è mai stato, essendo nato dalle ceneri del partito comunista e di quello cattolico di sinistra) hanno orientato la sua immagine verso un’identità che in qualche momento non mi è più sembrata compatibile con la cultura liberale dello stato di diritto, non a caso privilegiando un’alleanza organica col sovranismo populistico dei Cinque Stelle. Quanto basta per escluderlo dalle mie preferenze, malgrado la presenza nel suo “campo largo” anti-fascista di personaggi come Emma Bonino (+Europa) e Cottarelli i quali certamente vanno ricompresi nella tradizione radical-liberale.

Il movimento Cinque Stelle, oggi guidato da Giuseppe Conte, è tornato a identificarsi con un volgare assistenzialismo paternalistico su cui contenere la perdita di credibilità su cui i sondaggi hanno impietosamente insistito. Non ho dubbi che dopo le elezioni, misurati i rispettivi rapporti di forza, Conte tornerà ad allearsi col PD in una piattaforma dove la demagogia rappresenterà la bussola di ogni scelta (specularmente a quanto ha fatto il partito della Meloni con il governo Draghi per raccogliere il consenso degli scontenti). Sempreché, come è già avvenuto in passato, non riemerga dalla nebbia l’imperscrutabile “Elevato” con qualche imprevedibile alzata di testa. So bene che alcune istanze dei Cinque Stelle (come la lotta alla corruzione e ai privilegi ingiustificati della classe politica) non lasciano indifferenti i liberali, i quali però contestano i mezzi e gli strumenti utilizzati che hanno inciso sull’equilibrio dei poteri, fondamento ineludibile dei sistemi liberal-democratici. Non è il caso di affidarsi a un movimento che fa dell’incompetenza la ragione della sua esistenza e respinge la meritocrazia.

Forza Italia, al cui interno molti liberali hanno esercitato in passato un ruolo importante, ha accentuato il suo carattere di “partito padronale” che ne costituì il limite sin dalle origini, e rappresenta oggi soltanto le velleità di rivalsa del suo vecchio leader. Invece di cogliere l’occasione per trasformarsi in una destra moderata al cui interno una parte dei ceti medi avrebbe potuto trovare un punto di riferimento, FI resta un partito di corte arroccato intorno a un “sovrano” delegittimato dai suoi ambigui rapporti internazionali, dai conflitti con la magistratura, dall’incapacità di prospettare un progetto credibile per la stabilizzazione del sistema politico. Io non l’avrei comunque votato perchè non dimentico il passato ma constato con amarezza che il suo crollo toglie alla destra un pilastro che avrebbe potuto arginare le tentazioni sovraniste e demagogiche delle sue componenti più estreme.

La Lega, pur attraversando una crisi di consensi nei confronti del suo leader Salvini, resta, soprattutto al nord, una forza radicata sul territorio ancora legata ad aspirazioni autonomistiche che ne costituirono molti anni fa la ragione del successo iniziale. La demagogia volgare di Salvini e le sue compromissioni di politica internazionale creano imbarazzo nel suo stesso partito ma soprattutto fanno temere azioni di governo che spingerebbero il Paese alla bancarotta e all’ uscita dall’Unione Europea e dall’alleanza atlantica per scivolare in un ambiguo neutralismo funzionale alla politica espansionista di Putin. Tanto basta per escludere che un liberale possa votare per la Lega, almeno fin quando essa si riconoscerà nella leadership sgangherata e pericolosa del suo capo. Ometto per brevità alcune considerazioni sulla mancanza totale di attenzione per i diritti umani esibita da Salvini che sembra ispirarsi a una visione arcaica e autoritaria della società che non appartiene alla cultura liberale.

Fratelli d’Italia costituisce il fenomeno emergente dell’attuale stagione politica. Nato dall’eredità post-fascista del MSI, il movimento raccoglie quanti sono sopravvissuti ai suoi traumatici passaggi attraverso l’Alleanza Nazionale di Fini e il “Popolo delle libertà” di Berlusconi. Una destra confusa che funge da bacino di raccolta di istanze non sempre compatibili tra loro la quale dagli errori altrui (compresa la Lega) si trova oggi sospinta alle soglie della responsabilità di governo. La sua leader, Giorgia Meloni, è riuscita abilmente a costruirsi una credibilità personale (non giustificata dalla sua storia), che le consente di apparire in Italia e all’estero interlocutrice affidabile – di destra certo, ma non diversa dai movimenti populisti che anche nel resto d’Europa si stanno affermando in contrapposizione ai modelli liberal-democratici fino ad oggi prevalenti. Illiberale per definizione, difensore dell’autoritarismo plebiscitario di Orban e di Erdogan, atlantista per opportunismo (e per non tirare troppo la corda col potente alleato americano, almeno finché i democratici saranno al potere), il “fraterno” movimento nazionalista non può essere nemmeno preso in considerazione da un liberale. Eppure sono certo che non mancheranno coloro che sosterranno il contrario; ci furono anche cent’anni fa quando il fascismo colse l’occasione degli errori altrui per proclamarsi difensore degli interessi dei ceti medi e insediarsi al potere.

Resta il “terzo incomodo” o meglio l’assemblaggio di quanti vorrebbero esserlo per non restare schiacciati dall’alternativa padella-brace. Si tratta naturalmente di quel terzo polo costituito frettolosamente intorno ad Azione (il movimento di Calenda), Italia Viva (Renzi) e un po’ di profughi provenienti da Forza Italia (Gelmini, Brunetta, Carfagna, ecc.); strutturalmente debole è caratterizzato più dal rifiuto della polarizzazione che da un chiaro indirizzo programmatico. Ma per quel che è stato possibile mettere insieme esso presenta un indirizzo liberal-democratico abbastanza netto anche se venato da sfumature stataliste più social-democratiche che liberali. Comunque convince la filosofia del “fare” che Calenda persegue da quando osò sfidare il PD nelle amministrative a Roma ottenendo un discreto successo (20%). Manca un adeguato impianto politico ideologico che offra indicazioni sulla politica internazionale, sulle scelte energetiche, sulle grandi riforme liberali che il Paese attende da cinquant’anni; il “buon governo” sui singoli problemi è un metodo valido per superare le pregiudiziali ideologiche ereditate dal passato ma non basta a segnare una nuova identità che le nuove generazioni possano considerare attraente.
Ma tant’è: malgrado i passi falsi che ne hanno minato la credibilità voterò Calenda e Renzi e altrettanto dovrebbero fare a mio avviso i liberali qualunque che me lo hanno richiesto.

Su queste elezioni, qualunque ne sia il risultato, incombe il fantasma di Mario Draghi. Inquietante per i partiti che devono prendere atto del consenso che ha suscitato nel Paese la sua azione di governo (65%, un record assoluto dopo un anno di scelte difficili e spesso divisive), imprescindibile per chiunque ne prenderà il posto a palazzo Chigi. Draghi ci lascia la nostalgia di un metodo di governo efficiente, di un prestigio personale costruito nel tempo, di una coerenza testarda nelle cose che contano. Noi liberali lo ricorderemo come raro esemplare di quei servitori dello Stato (grand commis, dicono i francesi) che nelle grandi democrazie liberali dell’Occidente hanno sempre rappresentato il telaio su cui i veri statisti possono realizzare i progetti di cambiamento di cui sono portatori. In Italia sono sempre più rari ma anche di statisti degni della definizione ne vedo pochi.

Franco Chiarenza
20 settembre 2022

Il 12 giugno, in coincidenza con il rinnovo di alcune amministrazioni comunali, si vota anche per i referendum proposti dai radicali per modificare l’ordinamento giudiziario. Il liberale qualunque vota sì e spiega perché.
Innanzi tutto per dare un segnale forte di protesta che prescinde dai singoli quesiti e dalle inevitabili tecnicalità che non sono alla portata di tutti; una protesta che riguarda l’inefficienza del sistema sia nella giustizia civile che in quella penale. Una giustizia lenta e inaffidabile non è soltanto ingiusta ma costituisce soprattutto un danno per l’intero “sistema Paese” perché compromette il funzionamento dello stato di diritto, fondamentale non soltanto per la tutela dei diritti individuali ma anche per assicurare la certezza dei diritti e delle regole in una sana e competitiva economia di mercato. Introdurre nell’ordinamento elementi di valutazione sulla produttività dei magistrati consentendo a rappresentanti dell’ordine forense e docenti di diritto di far parte degli organi a ciò preposti servirebbe a ridurre scompensi che penalizzano i tanti magistrati che fanno il loro dovere al meglio delle loro possibilità.
Ci sono poi due punti che ad ogni liberale stanno a cuore: la separazione delle carriere che sancisce competenze diverse e non intercambiabili tra le procure e i giudici, assicurando a questi ultimi quella terzietà tra accusa e difesa che è alla base del diritto penale nella più moderna tradizione giuridica occidentale. Lo sosteneva anche il più grande dei nostri magistrati inquirenti, quel Giovanni Falcone al quale innalziamo statue per meglio ignorarne gli ammonimenti.

In proposito sarebbe necessaria una riforma più radicale che seppellisse definitivamente l’eredità della scuola giuridica tedesca che, al contrario di quella anglosassone, si è sviluppata nell’Ottocento sul principio della superiorità dello Stato su ogni diritto individuale e alla quale dobbiamo il codice fascista di Alfredo Rocco, ancora in gran parte vigente. Ma questo va oltre i referendum di cui discutiamo.
L’altra questione che sta a cuore ai liberali è l’abuso della carcerazione preventiva, spesso utilizzata dalla magistratura inquirente (i pubblici ministeri, tanto per intenderci) come strumenti di pressione per ottenere “collaborazioni” assai poco spontanee e spesso rivelatesi poi inaffidabili.
Vi sono altre questioni, in parte affrontate dalla riforma Cartabia che dovrà essere votata in parlamento nei prossimi giorni: le “porte girevoli” tra politica e magistratura (chi sceglie la politica resti lontano da funzioni giudiziarie), il protagonismo mediatico che incrina seriamente il principio costituzionale della presunzione di innocenza, la violazione sistematica del segreto istruttorio, ecc.
A queste deficienze strutturali denunciate inutilmente da anni si sono poi accompagnate le “rivelazioni” di Luca Palamara che non aggiungono nulla a quanto già si sapeva ma sono gravissime perchè provengono da un protagonista che si auto-denuncia e per il silenzio imbarazzante che le ha accompagnate. Il sì ai referendum significa anche questo: basta a un sistema che ha prodotto danni gravissimi al prestigio della magistratura coprendo sistematicamente corruzione, privilegi, parzialità, trasformandola in un potere occulto su cui i cittadini non riescono ad esercitare alcuna forma di controllo.

L’obiezione principale che i fautori del no oppongono ai referendum riguarda la necessità di affrontare una questione complessa come certamente è la riforma della giustizia in sede parlamentare con tutte le cautele necessarie; il che sarebbe giusto se il parlamento, facendo proprie le resistenze corporative dell’associazione dei magistrati, non avesse sempre rinviato sine die ogni tentativo di trovare soluzioni ragionevoli quali possono scaturire soltanto da un confronto serio e partecipato. I referendum abrogativi che cercano di risolvere le carenze legislative attraverso complicati “taglia e cuci” delle norme esistenti non sono mai auspicabili ma rappresentano l’unico modo di interpretare i sentimenti della pubblica opinione quando il Parlamento non svolge i compiti che la Costituzione gli assegna. La stessa Corte costituzionale non fa che richiamare le Camere ai loro doveri, rifiutando giustamente un ruolo di supplenza che il principio della divisione dei poteri non gli consente.
Naturalmente il passaggio parlamentare sarà ineludibile ma altro è arrivarci con alle spalle un referendum che ha chiaramente indicato i punti critici che vanno affrontati e come risolverli, diversa cosa dare il pretesto per rimettere di nuovo tutto nei cassetti delle burocrazie di Montecitorio e palazzo Madama e ivi lasciarle ammuffire. Come si è fatto in passato.

Franco Chiarenza
9 giugno 2022