Così avevo titolato il mio “pezzo” sul Cavaliere, faticosamente elaborato su sollecitazione dei pochi affezionati lettori di questo blog, stupiti che il “liberale qualunque” non avesse nulla da dire sull’inventore del “partito liberale di massa”. In effetti con una mossa a sorpresa, di quelle in cui eccelleva, avendolo letto in anteprima come è possibile soltanto ai fantasmi, “lui” ha spinto il mio dito sul tasto sbagliato del computer e in un secondo tre cartelle si sono evaporate. Forse è meglio così: il tempo trascorso mi consente di essere più tollerante.
Comincio da capo al netto di tante celebrazioni, beatificazioni, dannazioni, commenti psico-sociologici, compiacenze morbose sul suo harem continuamente rinnovato, analisi dettagliate sulla complessa giurisprudenza che ha caratterizzato il suo rapporto con la magistratura. Ei fu. Chi fu in realtà poco importa: un furbo palazzinaro? Un imprenditore che aveva capito prima di altri l’importanza fondamentale della televisione? Un abile piazzista che raccoglieva i voti con le stesse tecniche usate per conquistare i consumatori? Un presidente straordinario di una squadra di calcio? Oppure un imbroglione funambolo che riusciva abilmente a mescolare la dimensione pubblica con quella dei suoi interessi privati? Un mafioso espresso dalla “cupola”? Un massone nascosto nella P2 di Licio Gelli?
Fu tutto questo ed altro; fu – come ha detto nella sua omelia l’arcivescovo di Milano – un uomo che amava la vita. E l’amava talmente da cospargere intorno a se un’immagine falsa di piaceri illimitati, di relativismo morale, di ottimismo costruito sull’illusione che chiunque potesse plasmare la propria esistenza sul modello che impersonava.
Ma – ripeto – al liberale qualunque chi fosse Berlusconi, per quali motivi decise – dopo il fallimento di Mario Segni – di scendere in politica, con quali risorse abbia costruito il suo impero non importa granchè; voglio astenermi da qualsiasi giudizio morale. Importa invece cosa ha fatto (o non ha fatto) nella dimensione politica. Chi è stato dunque l’uomo politico Silvio Berlusconi che ha dominato la scena come nessun altro negli ultimi quarant’anni?
Un liberale?
Domanda lecita perchè tale sempre si è dichiarato. Peccato che non lo sia mai stato, non per ostilità preconcetta ma semplicemente perchè non sapeva cosa significava esserlo. Concetti come stato di diritto, libertà di espressione, tolleranza per le diversità, pluralismo politico, dialettica parlamentare, ecc. erano lontanissimi dal suo modo di pensare; aveva una vaga idea del liberismo economico (che è altra cosa dal liberalismo) che si esprimeva in un “laissez faire, laissez passer” tradotto concretamente in continui compromessi con le forze in gioco con cui necessariamente doveva confrontarsi.
Si potrà obiettare che però di “liberali doc” si era circondato, soprattutto nei primi tempi: Biondi, Urbani, Altissimo (con qualche riserva), Pera, Martino, Costa, e molti altri. Ciò avvenne perchè con lo scioglimento traumatico del PLI i liberali erano rimasti senza casa e alcuni di essi ritennero che Berlusconi col suo impeto dirompente e la sua ingenuità politica potesse non soltanto fornirgliene una ma anche lasciarsi guidare nella sua conduzione. Le cose andarono diversamente e dopo essersene servito per dare una vernice di credibilità alla propria leadership il cavaliere li abbandonò al loro destino.
Un socialista?
No, se non altro perchè rifuggiva da ogni tentazione egualitaria e di Marx e Lenin conosceva quel tanto che bastava per farne oggetto del suo anti-comunismo viscerale che esibiva in ogni occasione e su cui fondava la propria legittimazione di leader della destra. Ma fu amico di Craxi senza il cui aiuto non avrebbe mai potuto realizzare quel duopolio televisivo che è stato decisivo per il suo successo. Nel progetto craxiano le televisioni private dovevano servire a contrastare la cultura catto-comunista che occupava nella RAI posizioni preminenti, ma al di là di ciò tra il segretario socialista e Berlusconi non vi fu mai un disegno politico condiviso. Craxi immaginava un futuro bipolare di tipo tedesco con un partito conservatore di ispirazione cristiana e una social-democrazia in grado di raccogliere le istanze ideali della sinistra. Berlusconi invece ammirava i modelli paternalistici e illiberali dei regimi autoritari come quelli che si erano affermati in Russia, in Ungheria, in Turchia.
Però se socialista non fu, dei socialisti, anch’essi rimasti orfani dopo l’abbattimento di Craxi, largamente si servì, non soltanto per alimentare i quadri delle sue televisioni ma anche per ereditare gran parte dei loro quadri dirigenti specialmente a Milano. Ex socialisti come Tremonti, Brunetta e tanti altri furono, a fasi alterne, suoi collaboratori diretti.
Un fascista?
No, fascista non fu mai; al contrario, proveniva da una tradizione familiare anti-fascista. Ma con i neo-fascisti invece stabilì rapporti cordiali convincendoli a mandare in frantumi le anticaglie nostalgiche prive di prospettiva per trasformarsi in un moderno partito nazionalista; trovò in Fini l’interlocutore adatto e soltanto così potè realizzare l’unica vera operazione politica che – nel bene o nel male – gli va attribuita: l’alleanza elettorale con la Lega al nord e con AN al sud, imperniata sulla sua personale fideiussione politica. Forza Italia , che partito non era né di nome né di fatto, rappresentò il collante attorno al quale la destra dimostrò di essere maggioritaria nell’elettorato.
Un conservatore?
Dipende da cosa si intende per tale. Il mondo imprenditoriale, salvo poche eccezioni, accolse la sua vittoria elettorale come una svolta decisiva per sconfiggere definitivamente il dirigismo corporativo che soffocava il Paese (i famosi “lacci e lacciuoli” stigmatizzati da Guido Carli), ma in realtà tutte le proposte dell’ufficio studi di Confindustria si sono arenate fuori dai cancelli di Arcore perchè la vera scelta del presidente fu quella di lasciare tutto com’era fingendo di cambiare tutto: una perfetta sintesi della filosofia gattopardesca che coincideva in maniera impressionante non tanto con la vecchia DC (che era una costruzione complessa al cui interno convivevano differenti strategie politiche e sensibilità sociali) quanto piuttosto con la prassi di governo della sua parte più conservatrice, i cosiddetti “dorotei”.
Nè né
Penserà la storia, man mano che il tempo avrà steso il suo manto pietoso sulle imperfezioni umane del personaggio, ad approfondire la figura complessiva di Silvio Berlusconi. Ma da liberale non posso esimermi dall’affermare che la sua leadership, intrinsecamente rivoluzionaria per il modo in cui aveva sconfitto i progetti per trasformare l’Italia in un laboratorio politico dirigista e neutralista egemonizzato da una sinistra intrinsecamente illiberale (come si profilava il compromesso storico immaginato da Moro e Berlinguer), è stata un’occasione tradita. Non per la mancata costituzione di un “partito liberale di massa”, ma per non avere avviato – avendone la possibilità – quella rivoluzione culturale liberale che l’Italia attende sin dal compimento della sua unità.
Franco Chiarenza
4 luglio 2023