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Personalmente non sono di quelli che si rammaricano della mancata approvazione della legge che concede la cittadinanza ai minori immigrati; e ciò per molte ragioni che proverò a spiegare nella speranza di potere continuare a frequentare anche i salotti buonisti della “buona società” (naturalmente di sinistra). Definire una legge discutibile come “scelta di civiltà” significa dare degli incivili a coloro che non la condividono e questo in un dibattito tra gente civile è inaccettabile. Naturalmente bisognerà lasciare passare la campagna elettorale per potere ragionare in maniera distesa perché è chiaro che l’argomento da qui a marzo sarà estremizzato dandogli una valenza che obiettivamente non ha.

Cittadinanza e nazionalità
Il concetto di cittadinanza confina strettamente con quello di nazionalità e in quanto tale dovrebbe essere una cosa seria da non concedere – al di fuori di coloro che la ricevono jure sanguinis per essere figli di almeno un cittadino italiano – a nessuno se non a precise condizioni che, implicando un’assunzione di responsabilità, non possono riguardare i minori. Basti pensare che la cittadinanza è condizione primaria per esercitare i diritti elettorali.
Per la verità proprio la destra – quando era al governo – per convenienze elettorali e sulla base di motivazioni altrettanto demagogiche di quelle oggi sostenute dalla sinistra – aveva già snaturato il concetto di cittadinanza concedendola indiscriminatamente agli italiani all’estero, anche quando da molte generazioni non vivevano in Italia. Ma il fatto che si sia compiuto un errore non significa che si debba ripeterlo, sia pure per convenienze rovesciate.

Riforme condivise
Le vicende della riforma costituzionale di Renzi dovrebbero averci insegnato che quando si tratta di questioni fondamentali che attengono alle regole dello stare insieme è necessario ottenere la massima condivisione possibile. Anche le buone ragioni, se imposte con la violenza di maggioranze parlamentari spesso motivate da ragioni politiche che prescindono dai contenuti delle leggi, finiscono per perdere la loro validità.
La legge sullo jus soli spacca l’opinione pubblica in due parti quasi uguali e basterebbe questo a imporre un supplemento di ragionamento. La legge sul testamento biologico, per esempio, ha invece ottenuto un largo consenso, non soltanto in parlamento ma anche nel Paese (come attestano tutti i sondaggi) e perciò può davvero essere definita una “scelta di civiltà” in quanto non impone nulla e consente una libera scelta anche sulla propria morte.

Cittadinanza e diritti
L’argomento più utilizzato dai fautori del cosiddetto jus soli riguarda l’opportunità che i figli degli immigrati possano fruire degli stessi diritti degli italiani, almeno quando sono nati e cresciuti nel nostro Paese; e, in effetti, certe legislazioni straniere lo prevedono (sia pure ad alcune condizioni). Ma si è sempre trattato di fenomeni quantitativamente limitati e che scontavano di fatto (spesso anche con norme specifiche) una rapida e facile omogeneizzazione culturale.
Nel caso degli immigrati in Italia la domanda è: esistono altre modalità per garantire ai loro figli gli stessi diritti che spettano ai nostri? Davvero non si può più ragionevolmente disporre, laddove ancora non avvenga, una loro generale estensione senza disturbare concetti gravidi di conseguenze politiche e morali come la cittadinanza e la nazionalità?
Una domanda alla quale la legge sullo ius soli cercava di rispondere in modo sbagliato: restringendo in modo considerevole le condizioni per ottenere la cittadinanza, con ciò creando nuove discriminazioni tra minori con genitori “regolarizzati” e consenzienti, ed altri che non rientrano nella previsione legislativa o i cui genitori non intendano rinunciare alla loro nazionalità. A forza di pensare agli immigrati ci si è dimenticati che le nostre scuole pullulano da anni di studenti americani, inglesi (molto numerosi a Roma e Milano) romeni, albanesi, ecc. per i quali il problema non si è mai posto e che, se vogliono, chiedono la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età ottenendola senza grandi difficoltà. Conosco personalmente molti casi.
Elena, figlia di una domestica romena a servizio da conoscenti, ha studiato in Italia con ottimi risultati e senza particolari traumi. A diciott’anni ha chiesto e ottenuto la cittadinanza ed è felice e contenta. Costantino, figlio di un operaio romeno che lavora in una ditta che svolge lavori di ristrutturazione edilizia, ha studiato in Italia con ottimi risultati e senza particolari traumi. A diciott’anni non ha voluto chiedere la cittadinanza ma vive in Italia come tanti altri, felice e contento.

Responsabilità e minore età
Da liberale aggiungo una considerazione: ai minori non dovrebbe essere imposta alcuna scelta, a cominciare dal battesimo, dalla comunione e dalla cresima. Ogni opzione, religiosa, politica, sociale, dovrebbe essere espressa al conseguimento della maggiore età, previa adeguata preparazione (come giustamente pretende la Chiesa nei casi di conversione) che accerti – quando si tratta della cittadinanza – l’esistenza dei requisiti linguistici, culturali, e di conoscenza dei diritti e dei doveri dello Stato di cui i richiedenti si accingono a far parte.
Basterebbe questa considerazione per spingere un liberale ad opporsi a una legge pasticciata, demagogica, irrilevante ai fini che dichiara di perseguire, come quella che aveva approvato la Camera.

Torniamo dunque a ragionare. L’obiettivo di far venir meno ogni discriminazione legale per i figli degli immigrati che studiano e crescono nel nostro Paese può essere largamente condiviso soprattutto per quanto attiene il diritto allo studio e alla salute. Lo stesso vale per l’attenzione alla loro formazione affinché possano liberamente compiere le loro scelte quando saranno giuridicamente in grado di farlo, rendendo automatico il diritto di conseguire la cittadinanza alla maggiore età quando tali condizioni siano rispettate.
Per quanto invece riguarda le discriminazioni che di fatto si registrano in molte scuole si tratta di un problema – ben noto a tutti gli esperti – molto grave che però non si risolve con norme e prescrizioni legali. I traumi scolastici derivanti dall’esclusione costituiscono d’altronde una realtà ben precedente all’arrivo dei barconi dall’Africa; chi non ricorda le discriminazioni che hanno colpito i figli degli immigrati meridionali (italiani) nelle scuole del nord Italia? Le ragioni del rifiuto dei giovani (e soprattutto dei giovanissimi) ad accettare le diversità hanno motivazioni culturali complesse che affondano le loro radici nelle famiglie e nella società; non è certo con un certificato di cittadinanza da sventolare ai compagni che i pochi studenti che riusciranno a conseguirlo potranno eliminare il disagio. Anzi forse otterranno l’effetto contrario.
Io penso che sia molto più educativo poter dire: “Io sono del Ghana e tu mi devi rispettare non perché fingo di essere italiano ma perché sono un essere umano che vive in questo Paese. Anche a prescindere dal fatto che abbia o meno genitori che lavorano qui, che pagano le tasse qui, che partecipano dei diritti e dei doveri di cui ogni residente dovrebbe disporre.”
Altrimenti finirà che, magari tra dieci anni, ci sarà qualche giovane del Ghana o dell’Eritrea che giunto alla maggiore età rifiuterà orgogliosamente la cittadinanza che gli hanno pretestuosamente affibbiato quando non era in grado di decidere, per riprendersi legittimamente la propria.

Così la penso io. Ma il mio punto di vista resta sempre aperto alle ragioni di chi la pensa diversamente. L’importante è che smettiamo di trattare cose serie con la solita faziosità a cui il nostro modo di fare politica non riesce a sottrarsi: si può essere contrari allo jus soli senza essere fascisti e razzisti, si può essere favorevoli senza essere comunisti che non rispettano l’identità nazionale.
Si potrebbe invece ragionare senza pregiudizi.

Franco Chiarenza
30 dicembre 2017

Alfredo Rocco, giurista fascista, nel presentare alla Camera nel 1932 il nuovo codice penale, ebbe a dire: “Noi abbiamo seppellito il liberalismo definitivamente. Esso è morto e non resusciterà né ora né mai.” Per fortuna mai previsione si dimostrò più sbagliata, ma ciò che non riuscirono a fare i fascisti stanno tentando di fare alcuni antifascisti militanti legittimati dalle provocazioni velleitarie di sparuti gruppi di teppisti che – non da oggi – hanno trovato nelle rivendicazioni di estrema destra (più ispirate al nazismo, per la verità, che non al fascismo) la maniera di scandalizzare la grande maggioranza degli italiani che – pur nelle sue diversità – si riconosce nei valori della democrazia e del pluralismo politico. La reazione però di certi antifascisti militanti rischia involontariamente di distruggere un caposaldo della cultura liberale e di favorire sostanzialmente proprio quel neo-fascismo che si vorrebbe contrastare. La tentazione ricorrente di proibire per legge le idee sbagliate e la loro libera manifestazione rappresenta infatti un grave attentato ai principi del liberalismo che fonda la sua superiorità proprio per non ricorrere a metodi totalitari (propri della cultura dei suoi avversari) per difendere se stesso. Salvo naturalmente il caso che la democrazia si trovi realmente in pericolo mortale, il che non mi pare corrisponda alla realtà attuale, almeno nel nostro Paese.
Oltretutto queste leggi e proibizioni pretese dai giacobini dell’anti-fascismo, oltre a cadere nell’inevitabile contraddizione di utilizzare metodi “fascisti” per chiudere la bocca ai fascisti, sono da sempre inutili, inapplicabili e controproducenti.

  • Inutili perché non servono a modificare uno stato di fatto se davvero avesse dimensioni tali da renderlo preoccupante, il che per fortuna non è.
  • Inapplicabili perché la distinzione tra “istigazione” “propaganda” “esibizione di simboli” ecc. è talmente difficile da definire che o si riduce a una reale limitazione della libertà di espressione tutelata dalla Costituzione oppure può produrre la cancellazione della memoria storica (monumenti, opere d’arte, espressioni letterarie: il futurismo, per esempio, e certo D’Annunzio vogliamo inserirli in un nuovo “Indice” democratico?). Si rischia il ridicolo ancor prima dell’inutilità, tenuto conto che viviamo oggi in un mondo che attraverso internet non conosce più frontiere, nel bene e nel male.
  • Ma soprattutto sono controproducenti perché dando visibilità mediatica alle spericolate provocazioni di pochi esaltati finisce per dilatarne l’importanza e apre la strada a un martirologio fascista in nome della libertà di espressione di cui non sentiamo alcuna necessità.

Altri sono i rimedi “liberali” a questa esplosione – limitata ma comunque inquietante – di rifiuto delle forme e della sostanza della liberal democrazia; partendo dalla constatazione che alla sua base c’è soprattutto molta ignoranza.
Vogliamo restituire all’educazione civica quel ruolo fondamentale che dovrebbe avere in una scuola democratica? Vogliamo – attraverso gli stessi strumenti che la comunicazione contemporanea ci mette a disposizione – diffondere i principi di libertà, di rispetto delle diversità, di cosa significa lo “stato di diritto” in cui diciamo di riconoscerci, di quali sono i fondamenti di un’economia moderna e in essi quali le possibili opzioni?
In tale contesto vanno anche richiamati i valori della Resistenza ma non per metterne in rilievo i momenti di divisione, quando ha assunto l’aspetto di una guerra civile il cui ricordo ancora segna la memoria di tante famiglie, ma quelli su cui la grande maggioranza degli italiani si è riconosciuta dopo la guerra per fondare quel patto di convivenza che – con tutti i suoi limiti – è comunque rappresentato dalla Costituzione.
Altrimenti si rischia di ritornare a stucchevoli e superate contrapposizioni in cui riemergerà inevitabilmente anche il ricordo dell’essenza totalitaria del comunismo e delle ambiguità di quanti ad esso si ispirarono, facendo così il gioco dei burattinai che stanno dietro i quattro scalzacani di “Casa Pound”, quello di riabilitare il fascismo come resistenza al comunismo.
Un sillogismo che va semplicemente respinto al mittente.

Franco Chiarenza
10 dicembre 2017

Finalmente Veltroni l’ha detto. La sinistra è in preda a convulsioni che non accennano a diminuire perché ci troviamo di fronte a una “resa dei conti”. Una resa dei conti che parte da lontano e parte proprio da lui – da Veltroni – quando il suo progetto di costruire un nuovo partito democratico che finalmente tagliasse i residui legami con l’eredità comunista e si proponesse come una grande forza in grado di raccogliere consensi anche in quel serbatoio dell’elettorato di centro che pure in Italia – come altrove – rappresenta sempre l’ago della bilancia elettorale, fu contestato e affondato dall’ala sinistra rappresentata da D’Alema e Bersani, preoccupati che i tempi necessariamente lunghi di una rivoluzione palingenetica come quella proposta da Veltroni comportasse una rinuncia alle proprie origini e probabilmente – almeno in tempi brevi – una sconfitta elettorale.
Il conflitto è continuato riproponendosi con Renzi che del progetto veltroniano aveva colto il punto essenziale, sia pure con modi e toni indisponenti che certo non appartenevano al vecchio leader. E ancora una volta la vecchia sirena del “far qualcosa di sinistra” (anche se sbagliata) ha ripreso a suonare appigliandosi alla scarsa disponibilità del giovane segretario al “dialogo”. Anche se bisogna ricordare che “non essere disponibili al dialogo (o al confronto)” nel linguaggio della sinistra italiana significa non accettare la resa incondizionata alle idee della minoranza, sia essa politica o sindacale. E in effetti Renzi, pur avendo recentemente cambiato forma nei modi (che spesso in politica diventano sostanza) non sembra disponibile a cedere sul merito delle scelte programmatiche su cui ha caratterizzato il proprio governo (e che rappresentano anche la continuità del governo Gentiloni). Qualche incidente di percorso c’è stato, per esempio nel modo perentorio e ostinato con cui Renzi ha cercato di imporre una soluzione discutibile a una questione delicata come lo jus soli, e la successiva aggressione alla Banca d’Italia al momento del rinnovo del governatore, casi entrambi che hanno creato imbarazzo e difficoltà a Gentiloni e su cui un atteggiamento più soft avrebbe probabilmente sortito effetti più soddisfacenti.

L’eredità di Veltroni
Veltroni ha quindi ragione ma anche torto. Ha ragione quando denuncia che si tratta essenzialmente di una resa dei conti, ma ha torto se ritiene che si tratti di una questione personale. Non lo è oggi e non lo è stato ieri. Ed è per questo che i tentativi dei “pontieri” variamente configurati (come Fassino e Pisapia) sono destinati probabilmente a naufragare; e se dovessero riuscire si fonderebbero su compromessi ingestibili che mostrerebbero la corda già poche ore dopo le elezioni. Ha quindi ragione Roberto Speranza, giovane leader degli oltranzisti di sinistra? Credo di sì.
Il progetto del PD renziano (che peraltro comprende un fronte che va ben oltre il segretario) consiste essenzialmente in un programma socialdemocratico (anche se il termine è impronunciabile nei salotti della sinistra) fondato su un rilancio della produttività come condizione per la ripresa dell’occupazione (anche a costo di qualche attenuazione dei diritti dei lavoratori) nella consapevolezza che il modello sociale del passato fondato su un lavoro stabile e permanente non rappresenta più un obiettivo conseguibile per le trasformazioni profonde che il sistema capitalistico ha avuto in tutto il mondo; trasformazioni ancora in corso e che faranno emergere nuovi problemi con i progressi dell’automazione. In un contesto siffatto le protezioni sociali dovranno essere rafforzate ma anche modificate per essere funzionali al cambiamento, l’intervento dello Stato dovrà essere concentrato sulla costruzione del futuro attraverso la formazione e la ricerca, le grandi infrastrutture, l’eliminazione delle corporazioni, tutto ciò che serve a rendere attrattivi gli investimenti perché solo così si creano nuove opportunità di lavoro qualificato per i nostri giovani. Una prospettiva che guarda lontano e nel cui contesto l’appartenenza all’Europa non soltanto non può essere messa in discussione ma anzi rappresenta un’opportunità da rafforzare anche per fare fronte ai grandi cambiamenti sociali che si prospettano a livello mondiale e che comporteranno certamente anche una forte conflittualità politica. In questo quadro la questione degli immigrati va affrontata senza cedere a paure irrazionali in una visione del problema che guardi al futuro non soltanto in Africa ma anche da noi dove la contrazione della natalità comincia a far sentire i suoi effetti che diventeranno travolgenti nei prossimi vent’anni.

Progetti incompatibili
Se davvero questo è in sostanza il progetto di Renzi si tratta di una prospettiva su cui anche chi proviene da matrici culturali liberali può trovare delle convergenze ma che poco ha a che fare con una sinistra che mette al centro dell’attenzione il disagio sociale (sicuramente esistente) pensando di risolverlo con un aumento della spesa pubblica senza considerare gli effetti dirompenti che tale politica avrebbe sul piano internazionale e nella percezione della solvibilità del sistema Paese; come se non avessimo già visto come è andata a finire in Grecia dove Tsipras, andato al potere sull’onda di una protesta populista e anti-europea, ha dovuto andare a Canossa per interrompere un processo di insolvenza già in corso ottenendo soltanto così, dopo due anni di sacrifici e con l’aiuto dell’Europa, una ripresa consistente dell’economia la cui crescita quest’anno supera di un punto quella tanto sbandierata del nostro Paese. Se la sinistra pensa in questo modo di recuperare almeno una parte dell’elettorato scivolato nel territorio grillino si illude. Il successo di Grillo è dovuto solo parzialmente alle condizioni economiche e sociali del Paese mentre trova il suo fondamento nell’inaffidabilità e nella perdita di credibilità della classe dirigente dei partiti tradizionali (di cui Bersani e D’Alema fanno parte) dimostrate dalla corruzione endemica, dalla incapacità progettuale, dall’arrogante mantenimento di privilegi inaccettabili, dalla mancanza di una cultura di governo fondata sulla manutenzione, cioè quegli aspetti che per molti possono sembrare politicamente insignificanti ma che invece indirizzano molta parte dell’opinione pubblica e che sono anche alla base di una astensione elettorale che ha ormai raggiunto le dimensioni di una protesta di massa.

Quale maggioranza per il futuro?
A questo punto ci si domanda: se – come è prevedibile – dalle elezioni non uscirà una chiara maggioranza di governo sarà possibile trovare a sinistra quell’accordo di programma che è stato inutilmente cercato prima? E sarà numericamente sufficiente?
E se una maggioranza di centro-sinistra (o di centro-destra) non sarà possibile quale sarà lo scenario prevedibile? Grillo cambierà atteggiamento, e in favore di chi? Oppure si profila un’intesa Renzi-Berlusconi in nome del superiore interesse del Paese, magari patrocinato dal Quirinale, come molti commentatori prevedono? In questo caso però ci sarebbe il rischio che buona parte dell’elettorato non capirebbe e forse sarebbe meglio andare a nuove elezioni, magari con un diverso sistema elettorale che garantisca la governabilità (per esempio l’uninominale senza ballottaggio).
Ma è presto per fare previsioni; la data delle elezioni non è stata ancora fissata e molte cose possono ancora succedere.

 

Franco Chiarenza
27 novembre 2017

Non sapendo come differenziarsi in maniera comprensibile e senza utilizzare quei linguaggi criptici e quelle affermazioni generiche che richiamano i riti partitocratici del passato, la sinistra alternativa per smentire la calunnia che la propria alterità consista soltanto in una avversione personale nei confronti di Renzi, ha riesumato il fatidico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato in maniera sostanziale dal cosiddetto Jobs Act varato dal governo nel 2015. Per tornare a discutere di un eventuale accordo elettorale la sua restaurazione nella forma originaria sembra essere per questi movimenti conditio sine qua non, venendo così incontro alla richieste della CGIL che prosegue senza esitazioni nella sua lotta contro ogni forma di flessibilità nel lavoro.

Un feticcio ormai superato?
Molti politici e qualche economista sostengono che quello dell’articolo 18 sia un problema ormai scarsamente rilevante e che hanno torto coloro che lo sventolano come una bandiera (ormai un po’ consunta) ma anche quanti hanno pensato che eliminando i licenziamenti senza giusta causa (ché di questo sostanzialmente si tratta) sarebbero tornati gli investimenti e con essi nuovi posti di lavoro. Ragionamento che di fatto suggerisce di essere condiscendenti su tale questione se questo è il prezzo da pagare per un’intesa tra le diverse componenti della sinistra.
Se con ciò si intende affermare che le cause della disoccupazione sono altre e riguardano questioni complesse a cui non si è mai seriamente messo mano (formazione non corrispondente alla domanda, sperequazioni regionali, scarsa attrattività per gli investimenti industriali, eccesso di controlli e ostacoli burocratici, difesa di interessi corporativi, ecc.) chi sostiene tale tesi ha perfettamente ragione. Ma davvero l’articolo 18 è un residuo ideologico del passato che si può trattare con indifferenza per la sua sostanziale irrilevanza?
In realtà, a quanto mi hanno spiegato diversi imprenditori, il problema non riguarda tanto le grandi e medie imprese (quelle, per intenderci, che superano i cento dipendenti) dove in effetti i diritti dei lavoratori sono abbastanza garantiti, i contratti di lavoro vengono rispettati, e i tempi delle discriminazioni politiche (che avevano allora spinto all’adozione dell’art. 18) sono finiti da un pezzo. Diversa invece è la situazione delle piccole imprese, soprattutto di quelle dove la dimensione quasi artigianale ancora consente un contatto diretto della proprietà con i lavoratori; in esse il venir meno dell’elemento fiduciario, comunque motivato (non sempre con ragioni dimostrabili giuridicamente) rende impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Ecco perché la trasformazione del diritto automatico alla riassunzione in indennizzo economico è stato accolto con favore e non ha suscitato, se non in alcuni elementi legati alla CGIL, particolari reazioni negative.
Il mantenimento del Jobs Act, quindi, al di là di qualche aggiustamento marginale, è fondamentale per il sistema imprenditoriale italiano (notoriamente costituito da aziende di dimensioni medio-piccole) e coinvolge un punto qualificante del programma di Renzi tendente a diminuire la conflittualità sindacale e consentire un aumento della produttività, unica seria ricetta per richiamare gli investimenti (e quindi creare nuovi posti di lavoro).

Politiche del lavoro
Di “politiche del lavoro” tutti si riempiono la bocca, ma quando si arriva al dunque le misure proposte appaiono incongrue perché non affrontano il problema alla radice.
Il dilemma è semplice e le forze politiche farebbero bene a renderlo chiaro prima delle elezioni politiche: la globalizzazione è quello che è, può piacere o no, ci ha dato internet con tutte le sue applicazioni, ha aumentato i consumi, ha mantenuto bassi i prezzi. La libera circolazione dei capitali e delle persone però ha anche prodotto una competizione che, in mancanza di una efficace regolamentazione internazionale, genera un aumento della precarietà e una diminuzione dei posti di lavoro non qualificati; tendenza che sarà rafforzata dalle nuove tecnologie robotiche che nei prossimi anni sostituiranno molta mano d’opera non specializzata.
Si può rifiutare la globalizzazione? Certamente sì ma bisogna comprenderne le conseguenze che non sono quelle che i populisti in cerca di facili consenso fanno credere. Chiudersi nei propri confini e regolare con dazi, dogane, accordi bilaterali, la circolazione di persone e merci comporta una probabile diminuzione delle esportazioni, la fuga di molti capitali all’estero, e, in tempi non molto lunghi, un aumento dei prezzi al consumo e una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie; inoltre per compensare la diminuzione dell’iniziativa privata e per garantire quella sicurezza del posto di lavoro che i demagoghi hanno promesso è probabile che si dovrà allargare ulteriormente l’intervento pubblico. Insomma c’è il rischio concreto che – realizzando il sogno di Zalone – finiremo tutti felicemente poveri ma con la certezza di un posto fisso (pubblico naturalmente).

Europa
Io sono europeista per ragioni ideali, culturali, politiche e via enumerando. Ma quello che mi stupisce è che ci siano ancora tanti che invece di vedere nell’Europa la soluzione dei problemi che ci mettono in balìa di una globalizzazione incontrollabile, la considerano un nemico da rimuovere per rifugiarsi nelle proprie presunte certezze nazionali – e magari regionali – senza capire che al di fuori di sistemi che garantiscono e regolano il libero scambio sarebbero condannati a subire le decisioni e le regole imposte da chi, per dimensioni, per potenza finanziaria, per influenza politica internazionale, è in grado di farlo.
La soluzione del problema quindi, se vogliamo mantenere quanto abbiamo e trasmettere ai nostri figli qualche certezza, è duplice: fare pulizia a casa nostra (non soltanto su corruzione e malavita) e portare avanti il processo di integrazione europea; qualcuno non ci sta? Avanti lo stesso, vedrete che prima o poi si accodano scodinzolando.

 

Franco Chiarenza
13 novembre 2017

La vera novità di questo inizio di campagna elettorale che stiamo vivendo è la discesa in campo di Pietro Grasso. La candidatura del presidente del Senato si rivelerà probabilmente determinante per lo schieramento di sinistra per diversi motivi:

  1. si tratta di una personalità che per prestigio istituzionale può in qualche misura superare i veti reciproci tra PD e MDP.
  2. facendo asse con Giuliano Pisapia, Laura Boldrini e forse Luciano Violante può rappresentare il perno di un virtuale comitato di garanti con la benedizione dei padri nobili della sinistra, Walter Veltroni e Romano Prodi.
  3. può costituire motivo di attrazione nei confronti di forze collaterali come il movimento per gli Stati Uniti d’Europa messo in campo da Emma Bonino.
  4. può contare probabilmente di appoggi mediaticamente significativi come quello di Roberto Saviano.
  5. infine last but not least può utilizzare la propria immagine di ex procuratore nazionale anti-mafia per contrastare la campagna dei Cinque Stelle che, come sempre, punterà su una generica damnatio di tutta la classe politica.

Rose e spine
Naturalmente non saranno rose e fiori; al contrario, le spine sono molte e si faranno sentire. Renzi rischia di restare confinato in un angolo anche perché Grasso, nelle sue prime mosse, non gli ha fatto sconti ritenendolo responsabile della crisi del PD. Già in difficoltà dovendo impostare una campagna elettorale alternativa alla destra ma sapendo che probabilmente dopo le elezioni con essa, o con una sua parte, dovrà fare i conti, cerca disperatamente di raccogliere consensi su temi tipicamente populisti come quello dell’avversione alle banche (fino al contrasto esibito muscolarmente con la Banca d’Italia), senza tenere conto dei rischi istituzionali che ciò comporta e della debolezza inevitabile di un discorso fatto da chi per parentele ed amicizie con banche in difficoltà ha avuto a che fare.
Anche per ciò che riguarda il programma la pretesa dell’estrema sinistra di rimettere in discussione il jobs act e la riforma scolastica Giannini (senza parlare delle pensioni e di altri temi su cui la pubblica opinione vibra con sensazioni diverse e spesso opposte) non consente molti margini di manovra per un accordo. Resta l’esigenza di un’unità delle sinistre che la legge elettorale rende imprescindibile anche a costo di riserve mentali pronte ad esplodere un’ora dopo aver conosciuto i risultati elettorali, seguendo la strategia che Berlusconi ha imposto al centro-destra. Una strategia utile per vincere e arginare l’ondata dei Cinque Stelle ma non per governare il Paese e compiere le scelte difficili che lo attendono.

Scenari
E’ presto per andare oltre nelle previsioni. Certo è che rischia di venir meno quel progetto varato alla “leopolda” nel quale Renzi si proponeva al governo del Paese trasformando il partito democratico in un “partito della Nazione” sulla base di principi sostanzialmente liberali sia in economia (difesa dell’economia di mercato con regole severe che ne tutelino il corretto funzionamento, rimozione delle corporazioni che inceppano lo sviluppo del Paese, fisco orientato a favorire la produttività) che in politica estera (maggiore integrazione europea) e nella formazione (scuola e università che premino il merito). Un percorso su cui il governo Renzi si è faticosamente inoltrato, andandosi però a fracassare su una riforma costituzionale frettolosa, mal costruita e senza tenere conto che il patto con l’opposizione (patto del Nazareno) per riformare le istituzioni attraverso scelte condivise poteva funzionare soltanto comprendendovi l’elezione del Capo dello Stato e soprattutto rinunciando a quei toni spavaldi da piccolo Cesare che hanno costituito parte rilevante della sua rovina.

 

Franco Chiarenza
10 novembre 2017

La vicenda è nota: Paolo Giordana, capo di gabinetto della sindaca di Torino Chiara Appendino (Cinque Stelle), ha dovuto dimettersi per avere sollecitato la cancellazione di una multa inflitta a un conoscente. Poca cosa ma indice di un costume assai diffuso dove l’esercizio del potere è sempre connesso all’eccezione privilegiata, spesso anche esibita. E’ significativo che l’episodio sia avvenuto a Torino e non – come ci si aspetterebbe – in una cittadina della provincia meridionale.

La purezza degli amministratori
Qualcuno ha pensato che la vicenda possa danneggiare l’immagine dei Cinque Stelle dimostrando la loro incapacità a scegliersi i collaboratori (confermando così l’impressione negativa della collega sindaca di Roma). Credo che non sia così.
L’elettorato dei Cinque Stelle è essenzialmente costituito da gente che si ribella al potere (politico e amministrativo) soprattutto per i privilegi che esibisce, per la corruzione diffusa ad ogni livello, per il clientelismo che domina incontrastato in ogni settore della pubblica amministrazione, e conseguentemente contesta il principio di delega considerando delegittimata la classe politica. Se così è l’episodio torinese si inquadra perfettamente nelle aspettative dei militanti del movimento e susciterà consenso e approvazione.
E’ davvero incredibile la resistenza che i politici degli altri schieramenti oppongono a qualsiasi intervento che ne limiti i privilegi, senza capire che il problema non è di valutare quanto essi siano giustificati da circostanze obiettive e quanto invece frutto di demagogia ma semplicemente di prendere atto che questi sono i sentimenti prevalenti nell’elettorato, e non soltanto in quello “grillino”. D’altronde i dati reali giustificano l’indignazione: trattamenti pensionistici che continuano ad essere privilegiati, auto blu due o tre volte più di quelle in dotazione alla classe politica di altri paesi comparabili, scambio di favoritismi (comprese le assunzioni), concorsi truccati, e chi più ne ha più ne metta. Demagogia? In parte forse sì, ma è quello che si merita una classe politica cieca e sorda a fronte del mugugno che sale dal Paese dove la classe media si trova alle prese con problemi inediti (come la disoccupazione giovanile) e aspettative tradite. Le ragioni delle difficoltà sono tante, complesse e in gran parte derivanti da fatti esterni ma ciò non toglie che l’opinione pubblica le attribuisca anche alla incapacità e all’incompetenza di chi ci governa.
Per questo forse l’asserita incompetenza dei Cinque Stelle diventa secondaria; forse che gli altri hanno dimostrato di essere più capaci?

Pagare le multe
Dobbiamo cominciare dal basso: pagare le multe invece di cercare l’amico che ce le cancella, fare la fila invece di saltarla, pagare il biglietto dell’autobus anche se il controllore non passa mai, e man mano salendo di livello, non pretendere dalla scuole promozioni non meritate, attuare la raccolta differenziata dei rifiuti, ecc. Ripristinare la legalità nei comportamenti quotidiani è un problema che riguarda tutti ed è la premessa per governare i cambiamenti che certamente si imporranno, ma l’esempio deve venire dall’alto, da chi pretende di rappresentarci. E’ veramente drammatico per la nostra democrazia che sia dovuto scendere in piazza un brillante comico per ricordarlo e per mobilitare il consenso su questi temi.
Naturalmente sappiamo tutti che per governare non basta essere onesti; lo sanno pure loro, i Cinque Stelle. E per questo, avendo messo in piedi un sistema di selezione della classe dirigente demagogico e inadeguato che apre l’esercizio del potere a dilettanti allo sbaraglio, stanno cercando di costituirsi un supporto di competenze tecniche che sia in grado di aiutarli. In realtà le cose non funzionano così: le competenze politiche non si acquisiscono “andando a scuola”, altrimenti avremmo tutti i docenti di scienze politiche al governo invece che in cattedra. Occorre macinare esperienze, cominciando dai circoli di quartiere e procedendo in responsabilità crescenti con responsabilità amministrative e politiche locali, regionali e infine nazionali. E’ questo il modello che dai tempi della repubblica romana ci tramandano le grandi democrazie occidentali. La politica è anche una professione, illudersi che consista soltanto nella registrazione degli umori popolari ha come unica conseguenza un rafforzamento del potere reale dei “tecnici” ai quali si finiscono per delegare quelle scelte e quelle mediazioni che ogni attività di governo comporta.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2017

I referendum celebrati in Veneto e in Lombardia per chiedere maggiore autonomia non hanno evidentemente nulla a che fare con quello organizzato dagli indipendentisti catalani; li avvicina soltanto la coincidenza temporale e il fatto che sembrano entrambi segnalare un diffuso malcontento nei confronti degli stati nazionali.
C’è anche un altro aspetto che li accomuna: si tratta di regioni “ricche” che chiedono di separarsi da quelle più povere, e non è questione secondaria.

Gli “statuti speciali”
Ciò che in realtà chiedono veneti e lombardi (in parte) non è una indipendenza che sarebbe difficile e costosa da gestire e può essere pretesa soltanto sulla base di ragioni sentimentali, storiche, linguistiche che in Catalogna convivono con la convenienza economica, mentre non hanno serie motivazioni né in Lombardia né in Veneto, ma piuttosto il riconoscimento dello “status” di regioni a statuto speciale per i vantaggi economici che comporterebbe. La vicinanza con Regioni e Province a statuto speciale come il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino hanno giocato in questo senso un ruolo fondamentale. Perché a Trento tanti vantaggi economici e nell’adiacente provincia di Belluno no?
In effetti gli “statuti speciali” rappresentano nel nostro ordinamento una componente irrazionale di differente origine e diversissime motivazioni: il primo risale al 1945 e fu concesso alla Sicilia allora percorsa da un fremito indipendentista in cui confluivano velleità culturali, interessi poco limpidi, sentimenti autonomistici, nostalgie storiche variamente colorite e persino connivenze col brigantaggio. Al Trentino il riconoscimento “speciale” è arrivato come conseguenza di quello alto-atesino quando la minoranza di lingua tedesca ottenne a favore della Provincia lo svuotamento dei poteri della Regione Trentino/Alto Adige (che De Gasperi aveva voluto per mantenere la prevalenza italiana). L’autonomia sarda non poteva mancare in presenza di quella siciliana e aveva alle sue origini motivazioni culturali, storiche e linguistiche molto forti. Anche la Valle d’Aosta rappresentò un tributo pagato alla Francia a protezione della sua minoranza linguistica, mentre il Friuli/Venezia Giulia fu il frutto di una politica di convivenza nei confronti della Slovenia e della Croazia dopo la dolorosa amputazione dell’Istria e venne costruita a tavolino mettendo insieme realtà storiche e culturali assai diverse come Trieste e Gorizia da una parte e Udine dall’altra con Pordenone. Anche in questo caso la domanda dei veneti è: cosa c’è di diverso tra Conegliano e Pordenone che distano tra loro 30 km in un contesto sociale e culturale identico?
Un quesito che pongono naturalmente le Regioni più ricche perché si fa loro credere che la possibilità di disporre di tutte o quasi le risorse che producono le favorirebbe evitando di dovere in qualche misura “soccorrere” quelle del sud bisognose di assistenza. Atteggiamento immorale, egoistico, e, oltretutto, fondamentalmente sbagliato (se non altro perché al sud, alle sue risorse umane, al risparmio ivi raccolto, ai suoi mercati, lo sviluppo delle regioni settentrionali deve molto).
Ma, giusto o sbagliato che sia, il problema si pone.

La riforma regionale
Messo in imbarazzo dalla convivenza con la Lega, Berlusconi ha fondamentalmente colto nel segno quando ha detto “facciamo tutte le Regioni a statuto speciale”. Un paradosso che contiene tuttavia l’unica soluzione del problema (già posto, ma in maniera confusa e grossolana, nella fallita riforma costituzionale di Renzi). Tutti “speciali”, nessuno speciale. Rivediamo le competenze, attribuiamo a tutte le Regioni una parziale autonomia fiscale, istituiamo una cassa comune di compensazione per finanziare i progetti infrastrutturali nel Mezzogiorno (che rappresentano una convenienza per l’intero Paese), diamo al Senato una visibilità regionale, possibilmente senza ricorrere ai consiglieri regionali itineranti partoriti dalla fervida fantasia di Renzi, e aboliamo di conseguenza i privilegi che oggi sono concessi alle Regioni a statuto speciale, compreso l’Alto Adige. Per la pace etnica e linguistica abbiamo già dato e molto; adesso la massima autonomia deve restare garantita per quanto attiene questioni culturali, linguistiche, organizzative, ma basta con vantaggi fiscali diversi da quelli di ogni altra Regione. Sono sicuro che una riforma siffatta, proposta senza altre aggiunte, chiaramente motivata e illustrata, troverebbe ampio consenso, soprattutto se nascesse da un’intesa trasversale per evitare che un partito o una maggioranza se l’attribuisca.

Franco Chiarenza
30 ottobre 2017

Siamo l’unico paese – tra quelli più importanti coi quali pretendiamo di confrontarci – che cambia spesso la legge elettorale. Il che è una componente non secondaria del distacco tra società civile e classe politica di cui, a parole, continuamente ci si lamenta.
E non soltanto perché da qualche tempo, col venir meno del voto di preferenza, il parlamento sia composto da “nominati” piuttosto che da “eletti” (problema tutto sommato secondario in un sistema proporzionale, come dirò) ma per la fondata impressione che importanti “regole del gioco”, quali certamente sono quelle che definiscono i sistemi elettorali, vengano di volta in volta modificate in funzione di veri o presunti interessi di parte.

L’elettorato non è stupido
Ma talvolta il gioco non riesce perché si fonda su previsioni che possono risultare errate; può così avvenire (ed è successo) che norme studiate per “punire” gli avversari si ritorcano contro chi le ha immaginate e imposte perché anche gli elettori (non tutti ma quanti bastano) qualche volta ragionano e cambiano voto proprio in funzione della legge elettorale. L’effetto tuttavia più dannoso della variabilità delle regole elettorali è proprio quello che riguarda l’immagine della classe politica, di qualunque colore, finendo per coinvolgere la credibilità dello stesso sistema democratico.
Non entro nel merito del cosiddetto “Rosatellum”, celermente approvato dal parlamento a colpi di mozioni di fiducia (altra grave scorrettezza istituzionale; il voto di fiducia dovrebbe sempre riguardare l’attività di governo non le regole istituzionali). Si tratta di un sistema elettorale né peggio né meglio di altri, essendo poi a conti fatti un “Mattarellum” modificato aumentando la quota proporzionale e in tal modo avvantaggiando le coalizioni; per questo il movimento di Grillo, notoriamente contrario a qualsiasi alleanza, lo considera uno strumento creato per precludergli la possibilità di andare al governo. In realtà ogni sistema proporzionale comporta la necessità di creare alleanze per costituire maggioranze di governo; non si capisce perché i Cinque Stelle fossero favorevoli al sistema tedesco che, essendo fondamentalmente proporzionale, rende necessarie le coalizioni di governo, come dimostra l’esperienza della Merkel che, pur avendo vinto le elezioni, è alle prese con una difficile trattativa per realizzare una nuova maggioranza. A meno che la differenza non consista nel fatto che il “Rosatellum” impone la scelta delle alleanze prima del voto mentre il sistema tedesco consente di affrontare il problema dopo le elezioni; ma in tal caso è legittimo il dubbio che la declamata trasparenza dei “grillini” altro non sia che un lasciare le mani libere ai propri capi. Perché – da sempre – in politica sono le alleanze che determinano la credibilità dei programmi sventolati in campagna elettorale.
Ma anche la “furbata” (come si direbbe a Roma) messa a segno dai partiti che si accingono a combattersi senza esclusione di colpi (almeno a parole) mettendo intanto fuori gioco il movimento di Grillo dimostra una debolezza che potrebbe rivelarsi pericolosa.
Accantonare mediante artifici istituzionali un problema di moralità politica, a torto o a ragione ritenuto fondamentale da ampie parti dell’elettorato (e in gran parte intercettato dal movimento di Grillo) invece di affrontarlo alla radice eliminando dal costume politico e amministrativo quelle forme di corruzione e di clientelismo che si sono diffuse nel corpo sociale come metastasi inarrestabili, serve soltanto a rafforzare la rappresentanza della protesta che ormai i Cinque Stelle si sono assunti (e sulla quale riescono a mantenersi uniti). Non vorrei che a forza di giocare ai quattro cantoni si finisca per arrivare al crollo dei cantoni e che chi sta in mezzo finisca per avere partita vinta.

Come uscirne
La sinistra pone la questione delle preferenze come discriminante per una “accettabilità democratica” di qualsiasi sistema elettorale. Ma tale affermazione è quanto meno ingenua. Chiunque ricorda le elezioni delle prime legislature repubblicane quando si votava con un sistema proporzionale (leggermente corretto) sa benissimo che gli eletti erano quasi sempre i primi delle liste predisposte dai partiti, anche quando non si ricorreva alla diffusa prassi fraudolenta di aggiungere le preferenze alle schede che ne erano prive (sono stato rappresentante di lista in ancor tenera età e lo ricordo bene). In un sistema proporzionale per liste quindi le preferenze sono poco più di una formalità che peraltro comporta gravi rischi di voto di scambio, pressioni clientelari, costi non indifferenti; abbiamo dimenticato che il referendum vinto da Mario Segni nel 1991 (vinto col 96% dei voti e 63% di partecipazione) riguardava proprio la soppressione delle preferenze.
L’unico modo per uscirne è ancora quello proposto in quegli anni dal “manifesto dei 31” in cui si chiedeva l’adozione di una legge elettorale uninominale a doppio turno (come quella sostanzialmente adottata con successo per l’elezione dei sindaci). E’ il solo sistema che rende gli eletti responsabili davanti ai loro elettori, garantisce la governabilità e se anche talvolta può discostare la composizione del parlamento da una puntuale rappresentanza dell’elettorato ha il vantaggio di determinare con certezza chi vince, con quali alleati, con quali programmi. Viene da molti anni adottato in Francia e da sempre e senza nemmeno il ballottaggio in paesi di antica tradizione liberale come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. In Germania il sistema è misto ma la presenza di tre forti partiti tradizionali (democristiani, socialisti e liberali) ha sempre impedito una frammentazione parlamentare; quest’anno alcune “new entry” hanno già messo in crisi la governabilità e la Merkel sta incontrando molte difficoltà a formare un nuovo governo stabile.

Se da noi si vuole cercare un compromesso si potrebbe approfittare dell’esistenza di due camere per adottare per esempio un sistema proporzionale (corretto da una consistente soglia di sbarramento) per la Camera e eleggere i senatori in collegi uninominali su base regionale.
Ma tutto ciò, in un paese come il nostro, non basta. Occorre rendere definitivi i sistemi adottati costituzionalizzandone i contenuti, per evitare ad ogni elezione di tornare a discuterne.
E, con l’occasione, riformare alcune competenze del Senato su cui non sarebbe difficile trovare un accordo ampiamente condiviso se si rinuncia all’idea bislacca di renderlo non elettivo e costituito da consiglieri regionali in trasferta. Se proprio se ne vuole evitare l’elezione diretta si può adottare con qualche modifica il modello del Senato francese.

Franco Chiarenza
28 ottobre 2017

Un indecoroso balletto sta accompagnando il triste tramonto della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia costituita da Giovanni Malagodi nel 1962 e presieduta negli anni da personalità prestigiose come Gaetano Martino, Vittorio Badini Confalonieri, Franco Mattei, Ruggiero Moscati, Giancarlo Lunati, Valerio Zanone e Roberto Einaudi.
Fino ad oggi sono rimasto testimone attento e silenzioso nella speranza che un’istituzione prestigiosa alla quale avevo dedicato molti anni della mia esistenza arrivasse a un definitivo chiarimento, qualunque fosse. Adesso, anche per rispondere ai tanti amici e conoscenti che me lo chiedono, ho deciso di esprimere pubblicamente il mio pensiero ricordando sinteticamente cosa la Fondazione è stata in passato e perché ogni soluzione diversa dal suo scioglimento sarebbe impropria e non auspicabile.

Posta in liquidazione con una delibera dell’assemblea dei soci alla fine del 2014, riesumata l’anno successivo da un consiglio d’amministrazione falcidiato dalle dimissioni, rilevata dalla Fondazione Lucio Piccolo nel 2016 in cambio di una patrimonializzazione mai avvenuta, la Fondazione Einaudi di Roma era stata finalmente dichiarata estinta dalla competente prefettura nel luglio di quest’anno. Ma dopo l’estate, accogliendo un ricorso, la prefettura è tornata sui suoi passi concedendo una proroga in attesa che le ipotesi di ricapitalizzazione – sempre annunciate e mai realizzate – trovino finalmente conferma. Nel frattempo, non essendo in condizione nemmeno di pagare l’affitto, la Fondazione è stata trasferita dalla sede storica di largo dei fiorentini in un appartamento a Monte Mario messo a disposizione da una loggia massonica, i dipendenti sono stati licenziati, gli archivi e la biblioteca non sono consultabili per mancanza di personale, le attività si limitano alla presentazione di libri. La “marcia indietro” della prefettura è quindi difficilmente comprensibile: vero è infatti che con una sede concessa ad uso gratuito e la completa mancanza di personale dipendente le spese sono state azzerate ma è altrettanto vero che tale stato di cose impedisce alla Fondazione di svolgere i suoi compiti istituzionali che non sono certo quelli di trasformarsi in un circolo di affiancamento massonico. Rimane inoltre la contraddizione della mancanza di un patrimonio in grado di rappresentarne il presupposto legale. Si resta in attesa, come in una telenovela di cattiva qualità, di conoscere come sarà finalmente effettuata la sospirata “ripatrimonializzazione” (su cui insiste anche la prefettura), quale sarà il progetto culturale su cui la Fondazione dovrà stabilire le priorità operative (sempreché continui l’attività) e chi saranno i nuovi soci sostenitori che dovrebbero consentirle di resuscitare. In ogni caso è triste constatare come intanto la Fondazione abbia compromesso il patrimonio di prestigio e di credibilità che l’aveva accompagnata in passato, aggirandosi ormai come un ingombrante fantasma nel labirinto delle tante istituzioni culturali che si richiamano al liberalismo.

Le origini
Il 30 ottobre 1961 moriva Luigi Einaudi. Pochi mesi dopo Giovanni Malagodi costituiva la Fondazione a lui intitolata con l’intento di raccoglierne e rilanciarne la testimonianza politica e fornire al contempo un robusto inquadramento ideologico al partito liberale, alla cui ricostituzione dopo la guerra Einaudi (come Croce) aveva contribuito.
L’eredità politica di Einaudi andava ben oltre la semplice riaffermazione di un generico liberalismo. Lo statista piemontese aveva elaborato negli anni, anche attraverso le proprie variegate esperienze personali, una concezione del liberalismo capace di tenere insieme la grande tradizione del liberismo anglosassone, gli insegnamenti della scuola austriaca di Mises e Hayek, e l’idealismo liberale italiano di Benedetto Croce. Per questo il suo pensiero, articolato in una quantità di scritti che attraversavano quasi un secolo di storia italiana, parve a Malagodi il più adatto a disegnare un modello di società che, tenendo conto delle specificità italiane, si ispirasse alle nuove sensibilità sociali emerse dal manifesto di Oxford sottoscritto nel 1948 dai partiti e movimenti liberali di tutto il mondo. Un liberalismo quindi lontano dalle asprezze di un capitalismo incontrollato e capace invece di regolare l’economia di mercato liberandolo da quei “lacci e lacciuoli” corporativi e burocratici che più volte anche Guido Carli aveva denunciato.
Nacque con tali finalità ed obiettivi la Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia con sede in Roma; da non confondere con quella quasi omonima di Torino costituita poco tempo dopo per gestire la grande biblioteca di Luigi Einaudi e che aveva trovato ospitalità nel prestigioso palazzo d’Azeglio messo a disposizione dalla Fiat.
Nel 1984 la Fondazione modificò il proprio statuto sciogliendo i legami (peraltro già molto attenuati) di affiancamento al partito liberale, assumendo una connotazione indipendente da ogni militanza politica, ulteriormente ribadita e rafforzata nel 2002.

Le iniziative
Molto ha fatto la Fondazione nei suoi cinquant’anni di vita per diffondere la cultura liberale, guadagnandosi un meritato prestigio; negli ambiti più diversi essa si è confrontata con i ritardi e le inerzie delle nostre istituzioni mediante iniziative che sono sempre state riconosciute di livello elevato e per questo meritevoli di attenzione da parte di ogni settore della cultura politica ed economica.
Il suo Comitato Scientifico è stato per molti anni presieduto dall’economista Domenico Da Empoli e si deve anche al suo impulso il conseguimento di successi importanti, a partire dall’assegnazione di molte borse di studio a studenti meritevoli che hanno poi svolto ruoli importanti nell’economia, nella politica, nell’università e nel mondo della comunicazione.
Particolare attenzione fu dedicata sin da principio ai problemi dell’economia a partire, negli anni ottanta, dalla prima presentazione in Italia della teoria della public choise (con la prestigiosa partecipazione del suo ispiratore, il premio Nobel James Buchanan) cui hanno fatto seguito altre iniziative che hanno approfondito le trasformazioni dell’economia di mercato man mano che la globalizzazione andava dispiegandosi risolvendo problemi secolari ma anche sollevando perplessità per le conseguenze di taluni effetti collaterali. Convegni, seminari, ricerche, in cui si sono impegnati molti giovani studiosi che alla Fondazione hanno legato i loro primi successi: tra gli altri Salvatore Carrubba, Angelo Maria Petroni, Giuseppe Vegas.
Nel 1995 la Fondazione, precipitata in uno stato di inerzia per vicissitudini finanziarie ormai lontane persino nel ricordo, stava per essere cancellata anche dai contributi pubblici. Poi, col decisivo impulso di Valerio Zanone che ne era divenuto presidente, gradualmente ma con decisione essa si è rimessa in piedi realizzando nuovi progetti, trasferendo la sede dai locali prestigiosi ma angusti di palazzo Fiano a San Lorenzo in Lucina in un appartamento più comodo in un edificio che fa parte del complesso edilizio dei Sacchetti in largo dei fiorentini, rivitalizzando la direzione scientifica con l’apporto decisivo di Giovanni Orsina, al quale va riconosciuto il grande merito di avere valorizzato gli archivi storici (e in particolare quello di Malagodi), stabilendo rapporti di collaborazione con altre associazioni e fondazioni liberali (tra cui la Fondazione Cortese di Napoli e il Centro Einaudi di Torino), favorendo la creazione e le attività dell’Associazione Amici della Fondazione nella speranza che per suo tramite si potessero convogliare nuove risorse umane e finanziarie.
Le tematiche affrontate negli anni successivi sono state numerose e non è questa la sede per enumerarle dettagliatamente. Ne ricordo alcune particolarmente importanti, cominciando dalla questione della compatibilità del federalismo (tanto popolare in quegli anni) con la tradizione politica del liberalismo italiano, trattata nel 1999 con ricerche che per la prima volta ne hanno analizzato costi e benefici al di là di pregiudiziali ideologiche che trasformavano un problema storico che risaliva al Risorgimento in una rissa caratterizzata da luoghi comuni e approssimazioni. Le presentazioni della ricerca di base a Torino e a Roma costituirono un vero successo con la partecipazione di personaggi importanti dell’economia, delle imprese e delle istituzioni. La ricerca fu seguita da una significativa integrazione in cui venne approfondito il ruolo che veniva ad assumere la Capitale con il suo hinterland in un eventuale contesto federale; anche la sua presentazione fu occasione di serrato dibattito a cui parteciparono il Sindaco, i presidenti della Regione e della Provincia e molti rappresentanti della politica e della società civile.
I problemi della comunicazione e dell’informazione, cruciali per la cultura liberale in un momento in cui trasformazioni spettacolari ne cambiavano radicalmente le modalità di impiego e di diffusione, sono stati affrontati alla fine degli anni ’90 con varie iniziative culminate nei primi anni del 2000 con un ciclo triennale di seminari realizzati a Napoli in collaborazione con la Fondazione Cortese e l’Università Suor Orsola Benincasa. Incontri assai diversi dai consueti convegni-passarella dove gli invitati arrivano, dicono frettolosamente la loro, e se ne vanno spesso senza nemmeno ascoltare opinioni diverse; i seminari infatti, intitolati “L’informazione come condizione di libertà”, erano preparati da linee-guida elaborate da un ristretto gruppo di lavoro (costituito da docenti ed esperti della storia e della comunicazione) che nelle sessioni pubbliche venivano sottoposte a un ampio confronto cui partecipavano interlocutori impegnati direttamente nella gestione dei mass-media. Si superavano in tal modo le generiche asserzioni di principio sulla libertà di informazione e sul suo ruolo portante nelle democrazie liberali per affrontare i problemi concreti del sistema di informazione nel nostro Paese.
Sarebbe stato un campo immenso su cui attuare altri percorsi di ricerca (che furono anche tentati con la costituzione a Firenze di un gruppo di lavoro interdisciplinare coordinato da Gilberto Tinacci Mannelli) ma purtroppo mancarono le risorse e negli anni successivi non si andò oltre l’organizzazione di un convegno annuale – peraltro molto apprezzato – in cui veniva presentato un rapporto di aggiornamento sull’evoluzione delle tecnologie digitali realizzato dagli amici di Italmedia Consulting; un appuntamento ospitato non casualmente dalla Federazione Nazionale della Stampa al quale partecipavano sempre i massimi rappresentanti dei principali mass-media pubblici e privati e dove non mancava mai un intervento dell’ Authority della Comunicazione (AGCOM) e di un rappresentante del Governo al massimo livello.
Dei problemi della scuola in senso specifico la Fondazione non si è occupata molto, con mio grande rammarico; vanno comunque ricordate alcune iniziative culminate nel 1997 in un grande convegno dove venne riesumata (inutilmente) la proposta di Einaudi di sopprimere il valore legale dei titoli di studio.

Opef
Una delle iniziative più originali, anche se apparentemente estranea agli ambiti di ricerca che la Fondazione si era data, è stata la costituzione di un osservatorio per le politiche energetiche ed ambientali (OPEF). Ambiente ed energia non hanno mai rappresentato in passato un punto centrale della sensibilità dei liberali storici (come non lo fu per altre culture politiche del secolo scorso). Soltanto da pochi decenni i problemi della tutela ambientale, strettamente associati alla questione energetica, sono apparsi determinanti per il futuro dell’umanità, anche se certe tendenze estremiste di alcuni movimenti “verdi” allarmavano i liberali che hanno visto in esse emergere un pericoloso integralismo che, prendendo a pretesto l’emergenza ambientale, potrebbe facilmente degenerare nella negazione di alcuni fondamentali diritti individuali. Che tuttavia il problema di una più consapevole tutela ambientale fosse reale non era più da mettere in dubbio e che con esso la cultura liberale dovesse fare i conti era un fatto incontestabile. Da questa constatazione, da una felice intuizione di Marcello Inghilesi e dal sostegno di Massimo Romano, nacque l’OPEF il quale nel corso di un decennio ha sviluppato molti temi specifici soprattutto attraverso l’organizzazione di “laboratori” che hanno consentito, lontano da clamori mediatici e speculazioni elettoralistiche, a tutti i soggetti interessati di confrontarsi senza contrapposizioni strumentali e sbandieramenti ideologici. Intorno al tavolo (quasi sempre nella splendida sede dell’ABI in palazzo Altieri) si sedevano amministratori pubblici, esperti, banchieri, imprenditori pubblici e privati, rappresentanti delle Autorità di garanzia dei diversi settori. Una formula che permetteva scambi di informazioni e l’allacciamento di sinergie lasciando la politica politicienne fuori dalla porta, salvo confrontarsi con essa in occasione di convegni pubblici che per la concretezza delle proposte hanno registrato sempre grande interesse e ai quali hanno partecipato i protagonisti del settore energetico italiano ed europeo (in uno di essi intervenne il commissario per l’energia dell’Unione Europea). Ma quando – essendo divenuto presidente della Fondazione Mario Lupo – si tentò il “colpo grosso” di trasferire questa attività in una iniziativa di ancor maggiore visibilità da realizzare con la LUISS, facendola finanziare dall’industria petrolifera ed elettrica, si commise l’errore di abbandonare l’esperienza precedente col risultato inevitabile che i sogni di grandezza rimanessero tali mentre vennero meno i più modesti “laboratori” che pure si erano dimostrati utili e costruttivi.

L’associazione degli amici
L’Associazione degli amici della Fondazione venne costituita nel 1997 con tre principali finalità: innanzi tutto aprire la partecipazione a singole persone (va ricordato infatti che i soci della Fondazione erano prevalentemente enti privati e pubblici, come la Banca d’Italia, e fondazioni bancarie come la Compagnia di San Paolo di Torino e la Fondazione Banco di Sicilia, imprese e comunque soggetti collettivi). In secondo luogo per raccogliere risorse finanziarie crowdfunding che potessero in qualche misura compensare la riduzione dei contributi pubblici. Infine per gestire iniziative sul territorio come corsi di formazione, convegni su problemi d’attualità, e presentazioni di libri.
In tale contesto l’Associazione ha organizzato – anche per conto della Fondazione – moltissime presentazioni e incontri tra cui vanno ricordati quelli che, con grande successo, si sono svolti nello splendido Oratorio del Gonfalone su temi di attualità con la partecipazione di personalità di primo piano del mondo politico ed economico.
Un’altra importante funzione affidata all’Associazione, che operava in piena autonomia e aveva propri organi dirigenti, era quella di sostenere le “scuole di liberalismo” che da tempo venivano organizzate da Enrico Morbelli, e che hanno coinvolto centinaia di giovani in diverse città (Roma, Milano, Torino, Parma, Bologna, Napoli, Bari, Lecce, Sulmona, Catanzaro, Messina, Palermo).
La formula era (ed è tuttora) molto semplice: ogni corso consisteva mediamente in una quindicina di lezioni tenute da personalità della cultura liberale (talvolta anche prestigiose); i frequentanti che lo desideravano potevano concorrere attraverso l’elaborazione di tesine scritte all’assegnazione di modesti premi in danaro messi a disposizione da sponsor volontari (tra cui in passato la stessa Fondazione Einaudi) oppure fruire della possibilità di frequentare i corsi estivi dell’IES in alcune università europee (per esempio Aix en Provence, Gummersbach). Le scuole di liberalismo hanno consentito – soprattutto nel periodo che seguì la contestazione studentesca degli anni ‘60 – una diffusione dei principi liberali al di fuori dei canali istituzionali (scuole, università) troppo spesso egemonizzati da culture politiche ed economiche ostili al liberalismo. Per questo è sembrato opportuno ad alcuni di noi mantenerle in vita sottraendole alle recenti e inquietanti vicissitudini della Fondazione trasformando l’Associazione degli Amici della Fondazione Einaudi in Associazione Scuola di Liberalismo. In tal modo le scuole di liberalismo, sotto la direzione del “sempregiovane” Enrico Morbelli, continuano a svolgere la loro attività.

Imparzialità
Dopo avere definitivamente reciso nel 1984 i legami col partito liberale la Fondazione ha sempre rifiutato di appoggiare schieramenti politici ed elettorali pure quando in qualche modo si richiamavano alle dottrine liberali. Così fu per il centro-destra, dove pure militavano personalità importanti del mondo liberale come Antonio Martino, Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, e per il centro-sinistra in cui per un certo periodo si riconobbero Valerio Zanone, Raffaello Morelli, il gruppo di Critica Liberale. La barra della Fondazione rimase sempre ancorata al centro, non tra i diversi schieramenti ma al di sopra di essi, “una scelta – come recita una solenne dichiarazione del suo consiglio d’amministrazione del 2002 – non di neutralità ma di imparzialità: non di neutralità perché la Fondazione ha il suo fondamento ed orientamento nella cultura liberale, ma di imparzialità perché la cultura liberale, per gli stessi connotati che la distinguono, non conduce ad opzioni partitiche predeterminate”.
In piena coerenza con tali principi nel 2007, quando decise di impegnarsi politicamente nell’Ulivo (centro-sinistra), Valerio Zanone lasciò la presidenza della Fondazione che aveva mantenuto per diciassette anni. Gli succedette Roberto Einaudi, nipote diretto di Luigi. La sua presidenza fu caratterizzata da un’impresa straordinaria, quella di realizzare e portare in giro per l’Italia una grande mostra sulla figura di suo nonno, attraverso la cui vita era possibile ripercorrere la storia del nostro Paese nella prima metà del secolo XX. Il suo successo fu significativo dimostrando l’esistenza di una sensibilità liberale diffusa che andava ben oltre le contrapposizioni strumentali cui il liberalismo era stato sottoposto nel contesto italiano. La mostra fu inizialmente allestita al palazzo del Quirinale e inaugurata dal presidente Napolitano con un discorso molto importante perché segnò la definitiva presa di distanza dal suo passato comunista e il pieno riconoscimento della validità del pensiero liberale che negli scritti e nelle azioni di Luigi Einaudi trovava la sua migliore configurazione; un atto di onestà intellettuale che va riconosciuto. La mostra fu poi riallestita a Milano, Torino, Napoli e Ravenna. Difficoltà finanziarie e organizzative impedirono che continuasse il suo itinerario, ma comunque il segno che essa ha lasciato, soprattutto tra i giovani che l’hanno visitata in numero sorprendente, è stato importante.

La crisi
Da un certo momento in poi la Fondazione aveva cominciato ad avere serie difficoltà economiche. Il problema non era soltanto suo ma, quale più quale meno, di tutte le associazioni e fondazioni culturali, malgrado esse rappresentino in uno stato moderno quel tessuto connettivo della partecipazione che sin dai tempi di Tocqueville è considerato il fondamento di una democrazia liberale. Le cause di questa progressiva asfissia sono molte e tra queste possiamo menzionare innanzi tutto la diminuzione drastica dei finanziamenti pubblici (perché quando si tratta di tagliare le spese le prime vittime sono sempre le entità culturali). Il che di per sé non sarebbe un male se fosse accompagnato dal varo di una legislazione in grado di incoraggiare soggetti privati a finanziare la cultura (anche quella politica ed economica) attraverso adeguati vantaggi fiscali; ma diventa esiziale quando ciò non avviene.
Un’altra ragione – forse anche più importante – è legata al venir meno delle identità ideologiche su cui le fondazioni di cultura politica si erano prevalentemente costituite. Le loro specificità sono venute attenuandosi e il brodo, a forza di allungarsi, è diventato troppo omogeneo ed insipido, per cui molte di esse hanno finito per rappresentare soltanto strumenti di ricerca storica delle proprie matrici originarie e di conservazione degli archivi provenienti soprattutto dai protagonisti della prima repubblica. In questo quadro si comprende perché – in assenza di progetti di ricerca autenticamente innovativi e proiettati sul futuro – venisse meno l’interesse delle imprese e delle banche a impegnarsi finanziariamente nei confronti di strutture che avevano perso la capacità di analizzare i cambiamenti sociali e di proporre soluzioni innovative da immettere nel circuito del confronto politico. In un paese – come il nostro – disinteressato alla propria storia e in cui la politica procede con aggiustamenti di basso profilo senza essere mai in grado di superare l’ordinaria amministrazione, ogni tentativo di andare oltre la contingenza e di prospettare scenari di lungo termine è destinato a perdersi in una prassi riduttiva, miope quanto cinica, dove la regola dominante sembra essere quella attribuita a Luigi XV: après moi le dèluge.

Eppure non mancavano i grandi temi su cui la cultura liberale – soprattutto nel nostro Paese – doveva confrontarsi e cercare convergenze orizzontali che prescindessero dagli schieramenti politici tradizionali. Era su questi che la Fondazione doveva focalizzare i suoi sforzi anche per connotarsi come laboratorio prestigioso dell’evoluzione del pensiero liberale. Penso, per esempio, a una riforma liberale della giustizia che elimini i tribunali amministrativi o quanto meno ne riduca le competenze e soprattutto attui finalmente la separazione delle carriere e delle funzioni nella giustizia penale, alla delegificazione e alla riduzione della presenza pubblica per allineare la nostra società ai modelli funzionali delle democrazie nordiche e anglosassoni. Problemi da risolvere anche attraverso una coraggiosa riforma della Costituzione legittimata da un’assemblea costituente eletta esclusivamente a questo fine in modo da non confondere la normale dialettica politica tra maggioranza e opposizione con la ricerca di intese condivise sulle regole del gioco. Sembrava che su ognuno di questi temi le convergenze non mancassero ma ogni volta che la Fondazione cercava di affrontarli senza le cautele dovute alle corporazioni che presidiano lo status quo, quegli stessi amici che ci avevano incoraggiato hanno prudentemente preferito restare nel vago o addirittura scomparire. E senza convergenze e mezzi finanziari ogni iniziativa rischiava di trasformarsi in una giostra donchisciottesca contro i mulini a vento.

Lupus in fabula
Di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, dopo le dimissioni di Roberto Einaudi dalla presidenza, il consiglio d’amministrazione decise nel 2011 di affidare la Fondazione a Mario Lupo, un manager di lungo corso il quale, proprio per l’esperienza acquisita, pareva in grado di raccogliere le risorse necessarie per rilanciarla o quanto meno consentirne la sopravvivenza. Purtroppo, malgrado l’impegno profuso dal nuovo presidente, l’obiettivo non venne raggiunto e non è questa la sede per ricordare le ragioni del dissenso che portò me e Marcello Inghilesi a dimetterci dalla vice-presidenza; ma va detto che, al di là dei metodi di gestione, la questione di fondo restava la mancanza di una strategia in grado di creare un’immagine identitaria chiaramente percepibile mentre si procedeva invece nell’accattonaggio di qualche inutile ricerca su cui lucrare modesti margini. Sta di fatto che gli SOS della Fondazione cadevano regolarmente nel vuoto; finché si parlava di teoria e si facevano aulici appelli alla carenza di una cultura liberale tutto andava bene, quando si passava agli aspetti più concreti, tutti si voltavano dall’altra parte.
Fu allora – nel 2014 – che si profilò un possibile “salvataggio” da parte di un “cavaliere bianco”, che peraltro nel caso specifico assumeva indubbie tonalità azzurre; si trattava infatti di Silvio Berlusconi il quale, consapevole del deficit di cultura politica che caratterizza ancora oggi una parte rilevante della dirigenza di centro-destra, con evidenti conseguenze di dilettantismo, incompetenza, subordinazione agli inganni burocratici, debolezza nei confronti internazionali, e chi più ne ha più ne metta, deluso come può esserlo chi ha avuto in mano le carte migliori e non ha saputo giocarle, aveva “scoperto” tardivamente che la destra vince le elezioni ma non ha la cultura politica per governare. Su tale ipotesi di salvataggio, perseguita da Mario Lupo pur sapendo come essa avrebbe trasformato radicalmente la natura stessa della Fondazione (destinata probabilmente a diventare una scuola di formazione per quadri dirigenti di Forza Italia), i consiglieri d’amministrazione e i soci più importanti si divisero. Per alcuni di noi (Zanone,Einaudi, Inghilesi, Ortis, e altri) la Fondazione, con cinquant’anni di storia alle spalle, non poteva prestarsi a questa manovra; non soltanto perché contravveniva palesemente a un indirizzo che essa aveva posto a fondamento della sua stessa ragion d’essere ma anche perché – a nostro avviso – Berlusconi e il suo movimento politico non potevano essere considerati parte del pur variegato contesto culturale che si richiama al liberalismo: populismo, demagogia, culto del leader, rifiuto dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, ambiguità sulla laicità delle istituzioni, non appartengono alla cultura liberale, ma semmai al conservatorismo nazional-popolare. Il progetto comunque fallì perché Berlusconi si tirò indietro, forse anche per l’opposizione di alcuni importanti esponenti del centro-destra come Paolo Romani e Renato Brunetta. Pare che Giorgia Meloni, allora ancora nel berlusconiano “Popolo della libertà”, abbia esclamato: “Ma che c’entriamo noi con Einaudi?”.
E aveva ragione.

Epilogo (provvisorio)
La storia della Fondazione ha avuto un epilogo sconcertante di cui molti portano la responsabilità. Dopo il fallimento dell’ipotesi berlusconiana tutta la vecchia guardia (Zanone, Einaudi, Da Empoli, Inghilesi) e i soci più prestigiosi (Banca d’Italia, Compagnia di San Paolo ed altri minori) sostennero che l’unica soluzione onorevole fosse ormai rappresentata dallo scioglimento della Fondazione che infatti fu deliberato dall’assemblea dei soci alla fine del 2014. Ma Mario Lupo, e con lui la maggioranza di un consiglio d’amministrazione decimato dalle dimissioni, pur di evitarne la chiusura ritenne invece di dovere accettare l’offerta di una fondazione siciliana intitolata al poeta Lucio Piccolo; offerta che sin dall’inizio si presentava quanto meno discutibile considerando che la fondazione proponente non si occupava di problematiche affini, non aveva disponibilità liquide certe per onorare gli impegni che andava assumendo e non forniva alcuna adeguata garanzia. In breve l’avvocato Giuseppe Benedetto si trasferì dalla presidenza della Fondazione Piccolo a quella della Fondazione Einaudi, un’assemblea improvvisata avallò l’operazione, i soci più prestigiosi uscirono, Roberto Einaudi si dimise protestando (Valerio Zanone era nel frattempo morto, non senza esprimere pochi giorni prima la sua contrarietà).
I nuovi dirigenti, malgrado l’immissione di quadri giovani che apportarono inizialmente un interessante contributo di idee (senza peraltro risolvere i problemi di fondo della Fondazione), tentarono un rilancio che non andò lontano in assenza di una patrimonializzazione (o anche soltanto di adeguati finanziamenti). Il rifiuto di Giuseppe Benedetto di mettere a disposizione la presidenza per consentire su nuove basi il rilancio della Fondazione con il sostegno di una cordata di imprenditori e professionisti milanesi ha provocato uno scontro interno tra gli “occupanti” provenienti dalla Fondazione Piccolo (Benedetto, Giacalone, Pruiti Ciarello) e i fautori della “svolta” (tra i quali lo stesso Lupo, presidente onorario per norma statutaria); ne è conseguita un’epurazione dei dissenzienti (con modalità abbastanza sconcertanti) e l’abbandono di molti tra quanti avevano sperato di fare rivivere la Fondazione (tra gli altri Giovanni Orsina, che aveva accettato di presiedere il Comitato Scientifico, Lorenzo Castellani, che era stato nominato segretario generale, Piero Paganini, Enrico Morbelli, Saro Freni, Gianmarco Brenelli).
Una danza macabra sullo scheletro di un’istituzione che meritava di concludere i suoi giorni in maniera più dignitosa.

Mi sono chiesto il perché di tanto accanimento che certo non può essere attribuito a uno sviscerato amore per la Fondazione e la sua storia essendone il presidente Benedetto, il vice-presidente Giacalone (di chiare origini lamalfiane), l’avvocato Priuti Ciarello, rimasti in passato sempre estranei; la sola risposta che ho trovato è che gli attuali occupanti intendano trasformare la Fondazione in un soggetto partitico, perno di improbabili avventure elettorali. A confermare le mie supposizioni è giunta puntualmente la costituzione di un mini-partito, LiberItalia, – appoggiato formalmente dalla Fondazione – che si propone di affrontare la competizione elettorale.
Cui prodest?

Franco Chiarenza
20 ottobre 2017

P.S. Cinquant’anni di storia non si possono ridurre in poche pagine. Chiedo scusa quindi per le tante omissioni – specialmente per quanto riguarda le iniziative della Fondazione – che in questo scritto sono state inevitabili. Esse peraltro, insieme a inesattezze che molti dei protagonisti potranno contestarmi, non tolgono valore all’insieme del quadro che ho voluto tracciare per dare, soprattutto a chi non ha vissuto la nostra esperienza, il senso complessivo di ciò che ha rappresentato nel contesto delle culture politiche del dopoguerra la Fondazione Luigi Einaudi di Roma. E perché, nell’impossibilità di mantenerne il livello qualitativo, sia preferibile sancirne la definitiva cessazione. Parce sepulto.

La difficile questione degli immigrati non si risolve a colpi di cannone né verbali né sparati da navi da guerra; la partita va giocata con attenzione e tenendo conto dei rapporti di forza, delle coincidenze elettorali, delle sensibilità identitarie (talvolta minoritarie ma esibite con grande vigore contando sulla complicità dei media). Gentiloni e Minniti la stanno giocando bene, forti anche del fatto che Renzi in questo caso non li disturba più di tanto, ben felice se sarà questo governo di transizione ad accollarsene onori ed oneri (soprattutto questi ultimi).
Minniti sta cercando di mettere ordine nel caos delle prime accoglienze, delle ong, delle identificazioni, che rappresentano l’impegno italiano più importante e su cui il governo si gioca la propria credibilità nelle altre capitali europee.
Gentiloni da parte sua con una serie di mosse azzeccate ha ottenuto due risultati molto importanti: rimettere in primo piano la questione e condizionare l’adesione italiana a future integrazioni alla “europeizzazione” del problema della ricollocazione (a questo sono serviti gli incontri trilaterali con Merkel e Macron). Di più: il problema della Libia è tornato in evidenza con un significativo cambiamento di rotta. Non si parla più di improbabili governi libici unitari ma si tratta con chi c’è, rafforzando Serraj a Tripoli e cercando di comprare la collaborazione delle tribù che controllano il Fezzan da dove transitano in gran parte i profughi provenienti dai paesi sub-sahariani. Anche in questo caso l’intesa con Francia e Germania è necessaria per evitare che il sostanziale “protettorato” che si cerca di realizzare non venga percepito come un’azione unilaterale dell’ex-potenza coloniale.
In questa situazione in movimento la minaccia di respingere dai nostri porti le navi che non battono bandiera italiana (come la maggioranza delle ong) ha una valenza più psicologica e mediatica che realistica ma serve ad allarmare le opinioni pubbliche del resto d’Europa e spingerle a un’attenzione che finora era mancata. La vecchia idea di Renzi – riproposta forse per non sentirsi escluso – di non pagare più i contributi all’Europa se non verranno effettuati i ricollocamenti deliberati dalla Commissione Europea, appare semplicistica e irrealizzabile considerando i tempi e le procedure che i trattati prevedono per sanzionare i paesi inadempienti; peraltro le procedure di infrazione nei confronti di alcuni stati sono partite e suscitano il dovuto allarme in Ungheria, Cechia, Slovacchia, anche perché il crescente clima di ostilità tra le istituzioni comunitarie e la Turchia, ormai avviata sulla strada di un autoritarismo che lascerà sempre meno spazio alla libertà di espressione e all’attività politica degli oppositori, potrebbe preludere al venir meno del contenitore turco che fino ad oggi ha salvato l’Europa balcanica da una massiccia immigrazione da est.
In questo quadro si inserisce l’improvvisa richiesta americana all’Italia affinché svolga un ruolo più attivo – anche militare – per riportare l’ordine in Libia; sicuramente improvvisata e approssimativa come ormai ci sta abituando l’amministrazione Trump, essa significa tuttavia che il supporto strategico americano non verrà meno se, in altri modi e con altri mezzi, i paesi europei interessati alla stabilizzazione del Mediterraneo condurranno fino in fondo un’azione comune per fermare in Africa i flussi migratori. E soprattutto per riportare il problema dell’Africa e del suo sviluppo al centro della nostra attenzione perché – al di là di ogni ragione morale – è nel nostro interesse.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2017