Trump contro tutti
Chi, come me, sperava che il presidente Trump sarebbe stato per necessità e condizionamenti provenienti dal soft power dell’establishment di Washington persona diversa dal candidato alle presidenziali del 2016, deve ricredersi. Ogni volta che ha potuto Trump ha cercato di realizzare il suo modello di isolazionismo rivendicato nella campagna elettorale preferendo, anche nella scelta dei mezzi di comunicazione, le rozze semplificazioni e gli slogan di twitter a interventi più ragionati. Alla fine la sua idea di un’America militarmente potente, in grado di bastare a se stessa e quindi non legata a impegni multilaterali, arrogante e paternalistica nei rapporti con gli altri paesi (anche quelli europei più legati alla sua storia), forse non si è pienamente realizzata ma comunque ha sconvolto tutte le tradizionali alleanze che dopo la seconda guerra mondiale facevano perno su un’ idea diversa di America, fondata sull’accoglienza, sugli accordi multilaterali, sulla responsabilità di guidare tutto il mondo occidentale nella difficile sfida della globalizzazione.
Gli errori del presidente
Trump è però inciampato in due punti fondamentali: i rapporti con la Russia (al cui appoggio doveva in parte la sua elezione) e il potere di un’informazione indipendente che in America è ancora molto forte.
La sua idea di un accordo con la Russia che in sostanza lasciasse mano libera a Putin (al quale andava tutta la sua personale simpatia come si conviene tra convinti populisti) si è infranta su una resistenza dell’opinione pubblica che aveva sottovalutato; lo scandalo delle interferenze russe nelle elezioni presidenziali lo ha costretto a giocare in difesa accantonando ogni velleità di alleanza organica con Mosca. In questa ritirata la stampa e i mezzi di informazione indipendenti hanno giocato un ruolo fondamentale mentre il Congresso, dopo la vittoria democratica nelle elezioni mid term del 2018, tornava a farsi sentire avviando una procedura di impeachment basata su accuse più dimostrabili di quelle precedenti: le pressioni di Trump sul governo ucraino per ottenere rivelazioni sulle attività economiche del figlio di Joe Biden (ex vice presidente di Obama e possibile candidato democratico alle elezioni presidenziali del 2020), fino al punto di condizionare gli aiuti necessari a quel paese al soddifacimento delle sue richieste. La rimozione del presidente sarà ovviamente impossibile per la resistenza del Senato, ancora a maggioranza repubblicana, ma il colpo alla credibilità di Trump lascerà le sua tracce.
Un altro grave errore è stato la pagliacciata delle relazioni con la Corea del Nord che si è risolta con un nulla di fatto consentendo però al dittatore comunista Kim-Jong Un un successo di immagine che ne ha rafforzato il potere e soprattutto dimostrando il crescente potere di interdizione della Cina. Anche l’inasprimento delle sanzioni all’Iran (capovolgendo la politica di appeasement portata avanti da Obama) ha rafforzato la posizione dei “falchi” all’interno del regime islamico senza arrecare alcun vantaggio agli Stati Uniti. Non c’è partita di politica estera in cui Trump si sia impegnato che non sia stata fallimentare: dalla Cina al Medio Oriente. Il suo agitarsi menando fendenti a destra e manca fa pensare alle marionette di un tempo; ma purtroppo si tratta del capo della più grande potenza del mondo.
Le guerre commerciali
Un capitolo a parte riguarda i rapporti con l’Europa e il Giappone, paesi alleati che con gli Stati Uniti hanno condiviso la gestione di tutti gli strumenti multilaterali che ruotavano intorno all’egemonia americana: la NATO, il WTO, l’OCDE, il FMI, la Banca Mondiale, ecc. Una ragnatela che ha consentito in qualche misura di governare i processi di globalizzazione, una rete che ha protetto certamente i paesi europei da “invasioni di campo” destabilizzanti ma ha pure consentito agli Stati Uniti di mantenere una posizione centrale negli sviluppi dell’economia mondiale. Il prezzo da pagare era l’apertura del mercato americano alle importazioni dai paesi europei e dal Giappone che in effetti ha prodotto nel tempo un forte squilibrio della bilancia commerciale. Ad esso Trump ha attribuito la responsabilità dei processi di de-industrializzazione in atto da tempo e su tale convinzione ha avviato una politica di autarchia protezionistica che comporta la rottura di tutte le strutture e le alleanze costruite dagli Stati Uniti nel dopoguerra.
Ma le guerre commerciali provocano, prima o poi, le ritorsioni degli altri paesi, e quanto più estesi saranno i mercati e il potere d’acquisto che essi rappresentano tanto maggiore sarà il danno per gli Stati Uniti. Per questo Trump boicotta l’Unione Europea e preferisce trattare con i singoli paesi del Vecchio Continente; se infatti l’Unione si dotasse di strumenti politici adeguati rappresenterebbe un mercato equivalente a quello americano e quindi potenzialmente in grado di danneggiarne gli interessi in molti settori.
Trump non ha perso tempo: prima che l’Europa si riprendesse da questo brusco cambio di politica economica e cominciasse a reagire coi suoi tempi lunghi il governo americano ha avviato dazi protettivi che colpiscono soprattutto le esportazioni tedesche (ma anche francesi e italiane) riportando indietro l’orologio della storia. Se verrà rieletto l’anno prossimo è certo che le reazioni europee diverranno più consistenti soprattutto se si avvierà finalmente quel processo di unificazione politica (che non a caso Trump teme come il fumo negli occhi) e si procederà alla creazione di nuovi soggetti europei nel campo della comunicazione interattiva e delle nuove tecnologie in generale dove oggi le aziende americane sono egemoni. La decisione della Francia e di altri paesi europei di tassare le grandi imprese americane (Google, Amazon, ecc.) per i profitti realizzati nei loro territori costituisce un segnale che il presidente americano ha colto in tutta la sua gravità (minacciando ulteriori sanzioni). In pratica la politica di Trump, i cui effetti si vedranno tra qualche anno, finirebbe per favorire la creazione di nuovi poli di aggregazione potenzialmente in grado di arginare la supremazia americana: l’Europa unita innanzi tutto, ma anche la Cina (che potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per paesi come la Corea del Sud e lo stesso Giappone), la galassia dell’Asia sud orientale attraverso nuove forme di aggregazione (di cui l’ASEAN già rappresenta in qualche misura una prima struttura portante) e naturalmente la Russia che tornerebbe ad essere protagonista non soltanto in Europa ma anche in Medio ed Estremo Oriente. Con buona pace dell’idea infantile (ma elettoralmente accattivante) di un’America forte e priva di vincoli in grado di condizionare tutti gli interlocutori come un elefante può fare con creature infinitamente più modeste. Perchè prima o poi anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, come un famoso libro ci ha rivelato.
Franco Chiarenza
4 dicembre 2019
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