Il “gran signore” del liberalismo europeo, Valery Giscard d’Estaing, ci ha lasciato.
E’ stato una personalità di rilievo non soltanto per la Francia ma per l’intera Europa. Eletto presidente della Repubblica francese nel 1974 dopo la morte di Georges Pompidou (il successore di De Gaulle) restò all’Eliseo fino alla scadenza del mandato nel 1981. Una presidenza caratterizzata dalla sua formazione liberale, quindi molto attenta ai diritti umani e al rispetto dello stato di diritto, con in più la consapevolezza che l’unità dell’Europa non andava considerata soltanto un’opportunità da cogliere con cautela ma rappresentava ormai una necessità per la stessa sopravvivenza delle nazioni che ne facevano parte: da qui una linea di politica estera che cercava nell’asse con la Germania e l’Italia il perno su cui costruire forme di integrazione sempre più strette. Quando finalmente nel 2002 i paesi aderenti all’Unione Europea decidono di dotare le nuove istituzioni di una carta costituzionale e viene istituita per elaborarla una speciale Convenzione Giscard d’Estaing viene chiamato a presiederla (vice presidenti Giuliano Amato e l’ex premier del Belgio Jean Luc Dehaene). Il progetto, come è noto, naufragò nel referendum confermativo in Francia e in Olanda e, obiettivamente, per come era stato emendato dagli interventi cautelativi degli Stati, meritava questa fine: era farraginoso, confuso nelle competenze, poco innovativo nelle procedure decisionali, certamente insufficiente a configurare un salto di qualità verso una autentica confederazione europea. Non fu colpa della presidenza che lo aveva abbozzato in modo assai diverso, ma piuttosto di un’infinità di compromessi al ribasso che si rivelarono paralizzanti. Col trattato di Lisbona nel 2007 alcuni punti qualificanti del progetto furono ripresi e l’Unione potè compiere qualche passo avanti, ben lontano peraltro dalle aspirazioni degli europeisti.

Ma a noi liberali preme ricordare con quanto vigore Giscard difese una visione laica della cosa pubblica, nazionale o europea che fosse, quando sorse la questione del “preambolo” della Costituzione nel quale si voleva includere un esplicito riferimento alle “radici” cristiane dell’Europa (poi rettificate in giudaico-cristiane per paura delle proteste degli ebrei). L’opposizione di Giscard fu intransigente: un preambolo caratterizzato da un qualsiasi riferimento religioso costituisce la premessa di discriminazioni incompatibili con i principi laici e liberali su cui sin dalle origini si è fondata la comunità europea. Le pressioni della Chiesa (e in particolare di Wojtila e di Ratzinger) furono fortissime ma, nonostante la richiesta fosse stata fatta propria dal governo italiano (allora presieduto da Berlusconi), la proposta non passò.
Si disse di tutto, si interpretò in maniera disinvolta la storia di mille anni di intolleranza religiosa, si fece ricorso al preambolo della Costituzione americana (“In God We trust”) scritto due secoli fa in ben diverso contesto storico e comunque lontano da espliciti connotati confessionali (come poi viene stabilito nel successivo primo emendamento), si paventò l’islamizzazione del Vecchio Continente (rivelando così le reali intenzioni dei proponenti) e dobbiamo all’intransigenza di Giscard se il tentativo non sortì alcun effetto se non quello di aprire un interessante dibattito su come i partiti di ispirazione cristiana intendevano la laicità delle istituzioni pubbliche.
La questione in effetti non era secondaria, come sostenevano quanti la consideravano un innoquo dettaglio su cui si poteva transigere dato che esso non avrebbe comunque trovato nessun concreto riscontro nei successivi articoli della Costituzione. In realtà accettare la formulazione proposta da alcuni movimenti cristiani e dalla Chiesa cattolica significava rovesciare il principio di separazione tra lo Stato e le convinzioni personali, stabilendo che per ragioni storiche una determinata religione dovesse rappresentare una imprescindibile e privilegiata fonte di ispirazione negli orientamenti morali, in piena contraddizione con la concezione laica e liberale scaturita dall’Illuminismo (duramente contestata dalla Chiesa proprio per la sua intrinseca incompatibilità con le verità assolute che nella dottrina cristiana imponevano il rifiuto anche violento di ogni diversità religiosa o filosofica). Una distinzione dunque tra fede religiosa e diritti individuali che Giscard riteneva un punto fermo affinchè nella costruzione europea non trovassero spazio gli integralismi e le intolleranze che già in passato ne avevano minato le fondamenta.
Che il cristianesimo sia parte integrante della storia d’Europa è ovviamente innegabile (così come si può dire della civiltà greco-romana o di altre culture religiose come quella giudaica) ma nulla autorizza a collocarlo in posizione preminente in un testo costituzionale fondato su principi che col cristianesimo – comunque interpretato – poco hanno a che fare.

Non sempre la Francia col suo sciovinismo nazionalista e il suo statalismo invadente può essere considerata un modello per i liberali; ma sulla difesa della laicità delle istituzioni pubbliche Parigi ha sempre tenuto alta l’attenzione. Per questo saremo sempre grati a Giscard d’Estaing per un no che garantisce al Vecchio Continente un futuro non confessionale.

 

Franco Chiarenza
7 dicembre 2020

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