A PROPOSITO DI VITTORIO EMANUELE III

 

La traslazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della regina Elena in Italia nell’abbazia di Vicoforte in Piemonte costituisce un atto di civiltà doveroso e forse tardivo nei confronti di un sovrano che – nel bene e nel male – ha rappresentato il Paese per quasi mezzo secolo. Le ferite profonde lasciate dal fascismo peraltro non potevano mancare di suscitare polemiche nei confronti di un re che alle vicende del regime mussoliniano fu profondamente legato nel favorirne la nascita, nella progressiva marcia totalitaria, ma anche nel determinarne la dissoluzione. Bisogna sottolineare e apprezzare il modo sobrio e prudente con cui i vertici della Repubblica hanno gestito questo gesto umanitario, pur nella consapevolezza del significato politico che poteva assumere.
L’evento tuttavia – al di là di polemiche talvolta pretestuose – dovrebbe costituire l’occasione, soprattutto per le giovani generazioni, per ricordare e approfondire la figura di Vittorio Emanuele III e del contesto storico in cui il suo regno si è svolto. Approfondimento che riguarda in modo particolare i liberali che furono i primi ad essere traditi dai suoi comportamenti quando la violenza della piazza si sostituì al parlamento – cominciando dalle “radiose” giornate che ci portarono a entrare nella prima guerra mondiale, fino alla marcia fascista su Roma del 1922 – avallando con la sua autorità la fine dello stato liberale.
Il “Liberale Qualunque” dedica ai rapporti tra la monarchia sabauda e il liberalismo un intero capitolo, da pag. 315 a pag. 324, di cui riportiamo l’inizio:

La monarchia sabauda aveva rappresentato uno strumento essenziale nella strategia dell’unificazione nazionale realizzata da Cavour e bisogna dare atto alla dinastia di avere accolto e promosso questo processo in un momento in cui ciò era tutt’altro che scontato. Il passaggio da una monarchia decisamente reazionaria e fortemente condizionata dalla gerarchia religiosa (come quella della restaurazione di Carlo Felice) a una concezione di monarchia costituzionale coincide col regno tormentato di Carlo Alberto, al quale si deve, al termine di un periodo caratterizzato da incertezze e contraddizioni, il varo dello Statuto. Fondamentale si dimostrò l’accoglimento da parte della dinastia del principio di distinzione del proprio ruolo istituzionale dalla fede religiosa in cui pur si riconosceva la tradizione storica di Casa Savoia, il che consentì ai governi piemontesi e poi italiani di portare avanti la laicizzazione del Paese, fino all’occupazione di Roma nel 1870, quando nel discorso che inaugurava la sessione parlamentare Vittorio Emanuele II pronunciò parole ferme e decise: “L’Italia è libera e una; ormai non dipende che da noi il farla grande e felice”.
Il “padre della Patria” fu un sovrano incolto e poco carismatico ma saldo nelle sue convinzioni e fedele esecutore della strategia unitaria. Il suo successore Umberto I fu invece mediocre e ottuso, tendenzialmente reazionario, terrorizzato dall’acuirsi inevitabile della questione sociale. Ma il personaggio-chiave dei rapporti tra liberali e monarchia è stato certamente il terzo re d’Italia, Vittorio Emanuele III, più colto dei suoi predecessori ma introverso e ossessionato dalla possibilità che la dinastia potesse essere detronizzata; il ruolo da lui svolto nella decisione di entrare nella prima guerra mondiale e, dopo la guerra, nella legittimazione del fascismo, rappresenta il punto di rottura di quella che veniva definita la “monarchia liberale”.