La democrazia è un sistema di governo irreversibile ma continuamente modificabile in relazione ai diversi modi di aggregare il consenso e di indirizzarlo a finalità di interesse comune; per questo essa deve prevedere al suo interno meccanismi di auto-limitazione che le impediscano di degenerare in forme di populismo plebiscitario, anticamera di ogni autoritarismo. E’ questa in qualche modo la conclusione che ho tratto dalla lettura dell’ultimo saggio di Sabino Cassese, giunto in libreria proprio mentre la crescita di movimenti populisti anti-sistema pone al centro del dibattito pubblico la crisi della democrazia.
La democrazia in realtà non è in crisi ma in espansione, sostiene Cassese; il populismo riflette una domanda di maggiore partecipazione di base che si esprime in una crescente domanda di partecipazione diretta (cosiddetta democrazia deliberativa) finendo per mettere in difficoltà lo stato liberale fondato su un equilibrio di poteri non tutti di origine democratica, ma essenziale per assicurare un governo che possa unire alla legittimazione elettorale le necessarie visioni strategiche e l’efficienza della pubblica amministrazione in tutte le sue componenti. La democrazia liberale pone un limite invalicabile alle maggioranze elettorali che è costituito dai diritti personali irrinunciabili e il costituzionalismo liberale lo garantisce attraverso un sistema di check and balance che presuppone l’esistenza di corpi autonomi intermedi in grado di esercitare funzioni di controllo e di intermediazione anche attraverso i mezzi di comunicazione (il che rende essenziale e non comprimibile la libertà di informazione e di comunicazione in generale). Al di là di ogni altra considerazione il modello “Cinque Stelle” applicato alla Costituzione produrrebbe un sistema di governo fondato su una serie continua di plebisciti (più o meno manovrati) attraverso i quali una ristretta oligarchia in grado di regolarne i flussi (la democrazia elettronica aiuta) farebbe le sue scelte senza condizionamenti intermedi in base soltanto alle indicazioni indiscutibili di un capo carismatico (eletto o no poco cambia; Grillo comunque non lo è). Per chi conosce la storia un modello che potremmo definire “giacobinismo elettronico”; e non a caso forse il motore digitale che ne regola il funzionamento è stato intitolato a Rousseau (per il quale – ricordiamo – la “volontà generale” espressa da una èlite di illuminati prevale sui diritti individuali).

Il libro di Cassese peraltro è molto interessante anche nelle parti in cui affronta altre tematiche di grande rilievo come i rapporti con le istituzioni “non democratiche” (magistratura soprattutto) il che lo rende particolarmente attuale. I riferimenti bibliografici, esposti con rara chiarezza e secondo linee guida indispensabili in una materia così ampiamente trattata, ne accrescono il valore.
Ne consiglio vivamente la lettura: serve a schiarirsi le idee anche per chi crede di sapere tutto sull’argomento. Come è stato per me.

 

Franco Chiarenza
30 aprile 2017

Sabino Cassese – La democrazia e i suoi limiti – Mondadori (Milano 2017) – pag. 120, euro 17

Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato sul Corriere della Sera del 29 aprile un articolo che farà discutere (“I promossi d’ufficio a scuola”). Non soltanto per l’autorevolezza dell’autore e per l’importanza del quotidiano che lo ospita ma soprattutto per avere centrato il problema fondamentale della scuola italiana che non è solamente quello delle sue molteplici inefficienze (reclutamento degli insegnanti, strutture, carenze didattiche, ecc.) ma soprattutto del modello cui si ispira (più o meno consapevolmente). Era ora!

Il modello di Don Milani
Di Don Milani si parla molto in questi giorni a proposito e a sproposito. Di lui, della sua personalità morale, delle virtù e dei difetti di un personaggio sicuramente carismatico, a noi in questa sede interessa poco; del suo modello formativo e didattico invece molto per l’influenza che ha avuto (insieme ad altri fattori concomitanti) nell’evoluzione della scuola italiana.
Un modello, quello proposto da Milani, fondato su un presupposto errato e foriero di conseguenze catastrofiche (come quelle denunciate da Galli della Loggia) in base al quale per ridurre la distanza culturale tra le classi sociali bisognasse abbassare il livello di apprendimento per renderlo accessibile ai meno favoriti e non invece fare l’opposto, consentire a tutti gradualmente di sviluppare le proprie potenzialità attraverso una valutazione del merito individuale.
La popolarità del “modello Milani” è facilmente comprensibile: schiacciando tutti verso la mediocrità e un grado di conoscenza elementare, generico, accessibile a chiunque, si va incontro a una concezione minimalistica della società sostanzialmente ispirata da una visione paternalistica che mantiene intatto il potere pastorale di chi si assume la responsabilità di guidare il gregge. Non solo: le famiglie meno avvedute vedono in questo modello scolastico una via facile per la promozione sociale dei propri figli e naturalmente i ragazzi perdono ogni stimolo allo sforzo individuale di miglioramento non vedendolo in alcun modo incoraggiato. A loro volta i sindacati preferiscono un sistema scolastico che copre più facilmente l’inadeguatezza di quella parte di insegnanti che sono giunti alla cattedra senza un’appropriata preparazione e spesso per motivi che hanno poco a che fare con la capacità didattica e molto invece con problemi di sbocco occupazionale (soprattutto nel Mezzogiorno).
L’egemonia culturale della sinistra democristiana assai diffusa nel primo ventennio della Repubblica ha entusiasticamente fatto proprie le idee di Don Milani, anche nella presunzione di rappresentare la sinistra di opposizione (comunisti e socialisti). Ma in realtà la concezione socialista della scuola, tracciata chiaramente da personaggi come Concetto Marchesi e dallo stesso Togliatti, era assai diversa; per essi l’accesso delle classi subalterne al potere passava attraverso una rigorosa selezione meritocratica in grado di formare gruppi dirigenti che potessero governare una società complessa come quella che – bon gré mal gré – il capitalismo aveva creato. Quindi: borse di studio e facilitazioni per accedere a un’istruzione superiore severa, non il contrario, abbassare il livello di apprendimento fino ai meno dotati. E’ paradossale (ma non tanto) che chi è liberale si riconosca più nella concezione togliattiana (e crociana) che non in quella cattolica.

Oltre Galli della Loggia ricordando Einaudi
Il citato articolo di Galli della Loggia si ferma alla diagnosi del fenomeno e delle sue degenerazioni, accentuate dagli sviluppi sociali e politici della recente storia della nostra Repubblica, e lì si ferma, forse perché scoraggiato dal disastrato panorama che ne emerge. Ma qualcosa si potrebbe fare, andando oltre la “buona scuola” della ministra Giannini, che pure si muoveva nella giusta direzione. Si potrebbe tornare a Luigi Einaudi e alla sua proposta di abolire il valore legale del titolo di studio. Basterebbe questo a mettere in moto alcuni meccanismi virtuosi: competizione tra le scuole per essere credibili nell’offerta di lavoro, selezione degli insegnanti, aumento della domanda di meritocrazia da parte delle famiglie, e via dicendo. Perché non ci proviamo?

Franco Chiarenza
30 aprile 2017

L’ennesimo fallimento del tentativo ricorrente di salvare l’Alitalia induce ad alcune riflessioni:

  1. Se l’Alitalia vola sempre in perdita ci saranno delle ragioni. Sono probabilmente molte (management incapace, resistenze sindacali, accordi sbagliati, venir meno del monopolio sui voli interni, concorrenza dell’alta velocità ferroviaria) ma alla radice ci sono sempre le interferenze politiche, anche dopo la privatizzazione.
  2. Ciò è dovuto anche alla difficoltà da parte della nostra classe politica ad abbandonare il concetto di “compagnia di bandiera” ormai completamente superato dalla nuova realtà competitiva del traffico aereo. Altri grandi paesi – come l’Inghilterra, la Spagna, la Germania – ne fanno a meno da tempo; negli Stati Uniti non è mai esistito.
  3. Non è più lecito scaricare – direttamente o indirettamente – le inefficienze sistemiche di Alitalia (ereditate dall’antico monopolio pubblico) sulla collettività. Migliaia di businessmen, giovani, turisti, viaggiano senza chiedersi di quale nazionalità sia l’aereo che utilizzano.
  4. L’opinione pubblica è rimasta giustamente scandalizzata dalle buonuscite milionarie di manager e dirigenti dell’Alitalia dopo ogni “tonfo” gestionale.

Adesso basta. L’Alitalia fallisca come ogni altra azienda che non riesce a mantenere in pareggio i propri bilanci; è giusto che si trovino ammortizzatori sociali per i suoi dipendenti e che possibilmente si salvi un marchio il quale forse ha ancora un valore commerciale, ma non è giusto invece che si chieda alla collettività di farsi carico di un’impresa fallimentare.

L’aeroporto di Fiumicino
Quello che ci preoccupa sono le possibili ripercussioni del fallimento dell’Alitalia sull’aeroporto di Fiumicino che dell’ex-compagnia di bandiera rappresentava l’hub principale. La funzione strategica dell’aeroporto romano resta insostituibile non soltanto per la città e il suo sviluppo ma anche per mantenere in Italia un hub degno di questo nome. Gli aeroporti dell’area milanese per la loro dispersione e per la vicinanza con hub europei di grandi dimensioni (come Zurigo, Colonia, Francoforte e, al limite, Parigi) non rappresentano un’alternativa valida per il traffico di transito; mantenere a Roma una funzione di redistribuzione del traffico da e per l’Italia rappresenta una opportunità geografica e un vantaggio per le regioni meridionali che vanno preservati.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2017

L’esito del referendum in Turchia pone alcuni interrogativi che vanno ben oltre la questione delle modifiche costituzionali imposte da Erdogan attraverso una consultazione assai dubbia per le circostanze che l’hanno accompagnata. Di per sé la trasformazione di una repubblica da parlamentare in presidenziale non è un’operazione autoritaria; esistono paesi come gli Stati Uniti, la Francia ed altri dove sono in vigore esplicitamente o di fatto regimi presidenziali e di cui nessuno mette in discussione l’identità democratica. Non è la forma istituzionale che caratterizza un sistema liberal-democratico ma la presenza di altre condizioni tra cui – fondamentali – la libertà di informazione e l’indipendenza almeno della magistratura giudicante; a cui si deve aggiungere per un corretto equilibrio dei poteri un parlamento regolarmente eletto e legittimato a svolgere la funzione legislativa senza impedimenti. Ha la Turchia di Erdogan questi requisiti ? E li ha mai avuti prima di lui ?

Il modello turco
Il modello di stato imposto dal “padre della patria” Kemal Ataturk alla Turchia negli anni ’20 del secolo scorso non era certamente democratico; anzi, erano note le simpatie del leader turco per i regimi dittatoriali esistenti o nascenti in Italia e in Germania. Si trattava piuttosto di un regime autoritario che piaceva agli occidentali – anche nei paesi liberal-democratici – soprattutto per i suoi caratteri laici e modernizzanti. Alla base della strategia politica di Ataturk c’era la convinzione (assai simile a quella dell’imperatore giapponese Meiji agli inizi del secolo XX) che la civiltà moderna diffusa in tutto il mondo dall’imperialismo europeo fosse non soltanto vincente rispetto alle culture preesistenti (come quella islamica) ma anche fondata su una indiscutibile superiorità derivata dagli sviluppi scientifici e dalle loro applicazioni tecniche. Uno stato in grado di competere nel mondo moderno doveva quindi adottare il modello occidentale. La trasformazione imposta da Ataturk fu impressionante: cambiò lingua, scrittura, calendario, tradizioni, modelli esistenziali, relegando la religione a un fatto residuale legato alle culture povere dei ceti sociali più emarginati.

L’esercito
Per ottenere tutto ciò e renderlo duraturo Ataturk identificò nelle forze armate la struttura che doveva garantire la laicità dello Stato e la continuazione del processo di modernizzazione. Ne derivò la costituzione di un esercito potente e autoreferenziale che, dopo Ataturk, si rese in qualche misura indipendente dal potere politico. Quando gli equilibri internazionali dopo la fine della seconda guerra mondiale resero necessaria l’attivazione di forme democratiche ne scaturì un sistema parlamentare bipolare caratterizzato dalla presenza pressoché esclusiva di due partiti, quello repubblicano, radicato soprattutto nelle grandi città e nella parte più occidentale del paese, che si considerava erede della rivoluzione kemalista, e quello democratico (variamente denominato) il quale raccoglieva i voti della parte di popolazione ancora legata alla tradizione islamica che il regime di Ataturk aveva ridimensionato ma non eliminato. Quando i democratici, vincendo regolarmente le elezioni, superavano i limiti ferrei della costituzione laica di Ataturk, l’esercito interveniva e rimetteva le cose a posto. Inutile ricordare che questa combinazione “laicità dello Stato – tutela militare – borghesia emergente”, fu sostanzialmente rilanciata dal movimento Baath nella seconda metà del secolo scorso con l’aggiunta di un richiamo alle concezioni socialiste, dando luogo ai regimi autoritari che si affermarono in Egitto, Siria, Iraq, Libia; anche i processi di laicizzazione e di modernizzazione avviati in Iran dallo scià Pahlevi II prima della sua deposizione si ispiravano sostanzialmente al modello turco.

Erdogan
Con la vittoria elettorale di Erdogan nel 2002 l’altalena tra progressisti kemalisti e reazionari musulmani sembrò avere raggiunto la sua conclusione. Non certo per le origini politiche del nuovo leader che era stato un fedele collaboratore di Erbokan, l’ultimo primo ministro di tendenza islamica fatto dimettere dai militari nel 1998, ma per alcune novità di cui egli si fece portatore. Soprattutto due: il definitivo superamento del “revanscismo islamico” con l’accettazione piena del modello laico di Ataturk e la promozione di un processo di adesione all’Unione Europea. Finalmente compariva all’orizzonte un leader islamico compatibile con i principi delle democrazie liberali occidentali; il nuovo “modello turco” fu entusiasticamente salutato in Europa e in America come valido esempio per gli instabili regimi del Medio Oriente.
Erdogan ha continuato per dieci anni a oscillare tra la fedeltà all’Occidente (in particolare accentuando un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti tramite la NATO) e ricorrenti tentazioni di intervenire nella complicata matassa della questione medio-orientale, ma, nel complesso ha rispettato le “regole del gioco” così come il fondatore della patria le aveva stabilite. La sua involuzione verso un modello sostanzialmente autoritario è cominciata negli ultimi anni con alcune misure filo-islamiche e soprattutto con una pressione crescente sui mezzi di informazione e sulla libertà di associazione; il pretesto era fornito dal problema curdo, per la preoccupazione che gli sviluppi militari della questione mediorientale potessero sfociare nella costituzione di uno stato curdo nei territori settentrionali dell’Iraq e della Siria il quale, diventando confinante con la Turchia, avrebbe esercitato un’attrazione fatale per le minoranze curde ampiamente presenti della parte orientale del paese.

Il colpo di stato
Il tentato colpo di stato dello scorso anno presenta tuttora lati oscuri. Non solo per le motivazioni ma anche per le modalità che lo hanno accompagnato. In apparenza sembrava il ritorno ai tradizionali golpe militari del passato per riportare la Turchia all’ortodossia kemalista; ma si vide subito che così non era, sia perché sin dall’inizio gli alti comandi non furono coinvolti (il che contrasta con le finalità politiche dei precedenti colpi di stato e con una tradizione militare rigidamente gerarchica) ma anche perché il riferimento a Gulen, leader politico religioso esiliato in America, appare fuorviante. Gulen è un ideologo musulmano non fondamentalista a cui fa capo un movimento molto diffuso e influente in Turchia. E’ stato un deciso sostenitore di Erdogan e probabilmente l’ispiratore della sua politica filo-europea. La rottura tra i due è avvenuta soltanto nel 2013 non per ragioni “ideologiche” ma soltanto per il potere eccessivo che Gulen stava assicurandosi in strutture portanti dei ceti medi islamici (soprattutto nelle scuole, nella magistratura, nell’università) e che Erdogan considerava potenzialmente alternativo al suo.
Il modo maldestro con cui è stato tentato il colpo di stato fa escludere complicità estere (del genere CIA o FSB russo) mentre ha consentito al presidente turco di mettere a segno una repressione di dimensioni sproporzionate rispetto alla reale pericolosità dell’evento. Da ciò l’impressione – ampiamente diffusa in Occidente – che in effetti esso sia stato utilizzato da Erdogan per eliminare tutti i quadri intermedi che gli erano avversi nella magistratura, nelle università, nei mezzi di informazione, nelle scuole, negli enti locali. L’annuncio di un referendum su una riforma costituzionale che avrebbe ulteriormente rafforzato i suoi poteri è stato inevitabilmente letto come un passaggio alla dittatura personale.

Il referendum
In tali condizioni l’esito del referendum era dato per scontato. Il fatto che sia stato vinto con un margine così esiguo rappresenta dunque una sconfitta per Erdogan, tenuto anche conto delle denunce per irregolarità (che coinvolgerebbero centinaia di migliaia di schede), del peso determinante degli elettori residenti all’estero (che sono circa tre milioni), della completa mancanza di par condicio nella campagna elettorale. Se Erdogan voleva dimostrare di avere il consenso della grande maggioranza dei turchi non ci è riuscito; al contrario ha mostrato al mondo un paese profondamento diviso. Un esito elettorale risicato e contestato rischia adesso di provocare un ulteriore irrigidimento dell’Europa (che peraltro egli non teme, sicuro com’è di poterla ricattare fermando il flusso degli emigranti dalle zone di guerra del Medio Oriente), ma anche la diffidenza degli investitori internazionali preoccupati dalla possibilità di un rigurgito fondamentalista islamico. Ma soprattutto viene meno l’immagine cui erano rimasti appesi quanti vedevano nel modello turco un esempio di compatibilità tra i valori occidentali e la tradizione musulmana. Gli resta l’appoggio di Trump; ma non è molto affidabile.

 

Franco Chiarenza
19 aprile 2017

Con la morte di Piero Ottone il giornalismo italiano perde uno dei suoi pochi protagonisti che interpretarono la loro professione con il distacco elegante ma penetrante che caratterizza la tradizione dei grandi giornali inglesi e americani. Sapeva osservare, conosceva l’arte della non partecipazione diretta, riusciva a distinguere ciò che conta da ciò che è superfluo (anche se talvolta inevitabile).
Pier Leone Mignanego (questo il vero nome di Ottone) raggiunse la vetta del giornalismo italiano andando a dirigere il Corriere della Sera in un periodo cruciale dopo l’ondata del ’68 – tra il 1972 e il 1977; Giulia Maria Crespi rappresentante autorevole della proprietà, protagonista indiscussa in quei salotti milanesi che civettavano con “le ragioni” dei terroristi rossi (anche quando non ne condividevano i metodi di lotta), lo aveva scelto per dare una svolta all’organo di stampa più autorevole della borghesia lombarda e spingerlo su posizioni meno conservatrici, quelle, per intenderci, che vedevano sin dagli anni ‘50 in Indro Montanelli e nel suo intransigente anticomunismo un simbolo inossidabile. E fu proprio con lui che Ottone aprì un duro confronto che portò nel 1973 alla rottura da parte di Montanelli e di altre firme prestigiose che fondarono – in aperta e polemica contrapposizione col Corriere – un nuovo quotidiano, “Il Giornale”, molti anni prima che la “discesa in campo” di Berlusconi negli anni ’90 lo trasformasse in organo del nuovo movimento di destra che si candidava alla guida del Paese; una destra molto diversa da quella “risorgimentale” che Montanelli pensava di rappresentare e che costrinse il giornalista lombardo ad emigrare ancora una volta fondando un nuovo quotidiano – La Voce – il quale però, schierato su posizioni anti-berlusconiane, dimostrò col suo fallimento l’inconsistenza politica del suo progetto.
Quando Montanelli fu ferito dalle Brigate Rosse nel 1978 il Corriere ne dette notizia senza nominarlo nel titolo di prima pagina e ciò creò una frattura che in realtà non si ricucì mai anche perché Ottone e Montanelli rappresentavano due modi di concepire il giornalismo se non antitetici certamente assai diversi: distaccato e attento alle trasformazioni sociali in atto il primo, militante e aggressivo il secondo. Lo dimostra, tra l’altro, la collaborazione di Pier Paolo Pasolini al Corriere della Sera tra il ’73 e il ’75 che certamente il Montanelli di allora non avrebbe gradito.

Conobbi Ottone quando accettò di presentare alla sala convegni della Federazione della Stampa a Roma il libro che avevo scritto insieme a Giuseppe Corasaniti e Paolo Mancini (“Il giornalismo e le sue regole. Un’etica da trovare” – Etas Libri 1992). Lo aveva letto attentamente (cosa che non tutti i presentatori fanno) e gli era piaciuto tanto da affermare nel dibattito che si trattava di uno degli scritti più pregevoli sul tema tra quelli di cui era venuto a conoscenza, giudizio duramente contestato da Vittorio Feltri – anch’egli tra i “discussants” – che accusò il libro di essere un panegirico inaccettabile del modello giornalistico di “Repubblica”. Certo, riletto dopo più di vent’anni il libro – che ebbe una scarsissima diffusione anche per l’aperto boicottaggio nei suoi confronti operato dall’Ordine dei Giornalisti – mostra tutti gli acciacchi dell’età, ma si capisce benissimo perché Ottone lo avesse apprezzato. Il fulcro del discorso era infatti costituito dal sottotitolo “un’etica da trovare” perché l’informazione è un’arma essenziale per difendere la democrazia liberale ma è pur sempre un’arma; se gestita senza regole, a cominciare da un’etica della comunicazione fondata sul suo ruolo di “guardiano del potere” nell’interesse dei cittadini e non dei partiti, nel rispetto delle idee anche le più diverse, nel rifiuto di svolgere una funzione di propaganda che non dovrebbe mai coinvolgerla, diventa – come tutte le armi usate senza controllo – un pericolo, anche per quella stessa democrazia che si pretende di difendere.

Ciao Ottone. Restano coloro che tu hai formato – ne conosco tanti e sono tutti bravi – a tenere alta la bandiera di un’informazione corretta, che non vuol dire piatta e priva di sentimenti ma, al contrario, viva, polemica quando occorre, ma sempre attenta e consapevole della sua forza, più simile quindi a una missione piuttosto che a un mestiere. A loro tocca un compito molto difficile, quello di affrontare il rapporto tra la comunicazione digitale in tutte le sue forme e il diritto/dovere di garantire un’informazione corretta e responsabile. Da far tremare i polsi ovunque, ma in Italia più che altrove.

Franco Chiarenza
18 aprile 2017

Mai come in questo momento Erasmo da Rotterdam torna d’attualità, mentre l’Europa è squassata da ondate populistiche e minacce esterne che ne mettono in pericolo la stessa esistenza. Non so quanti degli studenti che hanno usufruito in questi anni delle borse Erasmus hanno avuto la curiosità di conoscere il pensiero di questo grande personaggio il quale, come loro, ha in qualche modo rappresentato l’unità dell’Europa. La quale, ieri come oggi, non era priva di confini e parlava linguaggi diversi, ma era una nel dibattito religioso e filosofico, una nello scambio di esperienze e nella riscoperta del suo passato nella lettura dei classici, una nella ricerca di una difficile compatibilità tra l’eredità cristiana, portatrice di valori assoluti, e la libertà di coscienza, avanguardia obbligata della libertà di ricerca e di espressione. Hanno fatto bene i governi europei, nell’istituire questa rete di scambi che ha consentito a migliaia di studenti di mescolare esperienze di studio e di relazioni in tutto il continente, a intitolare il progetto a Erasmo; nessuno meglio di lui poteva simboleggiare l’unità profonda che lega nella sua molteplicità di forme la cultura europea.
Dobbiamo a Carlo Ossola, studioso profondo del pensiero letterario, la pubblicazione di un bel libro che ripercorre la storia d’Europa in un momento essenziale della sua trasformazione attraverso l’opera tormentata di Erasmo. Con una scrittura scorrevole l’autore ripercorre i fondamenti del pensiero di Erasmo, l’importanza che ebbe in un periodo cruciale quando l’Europa si confrontò con la scissione cristiana, quando si posero le fondamenta della legittimità del dissenso da cui doveva scaturire l’essenza di quella filosofia che più tardi sarà chiamata liberalismo.
Ossola spiega molto bene la contrapposizione tra Erasmo e l’altro gigante della filosofia politica rinascimentale, Machiavelli; che rappresentano anche in qualche misura le differenze culturali tra l’Europa del nord e quella mediterranea. Ripercorrere le ragioni di questa dialettica tra due personaggi che non si conobbero mai ma che sono stati entrambi fondamentali è molto istruttivo anche per capire le trasformazioni che stiamo vivendo.
Il “Principe” di Machiavelli vide la luce nel 1513, l’”Institutio principis christiani” di Erasmo due anni più tardi; Ossola li contrappone polemicamente ed è chiaro che la sua simpatia va al secondo. E non c’è dubbio che, trattando entrambi il problema dell’esercizio del potere, anche la nostra simpatia va a chi – come l’olandese – lo fonda sulla ricerca del consenso piuttosto che al fiorentino che ne ricerca i rapporti di forza. Ma si tratta di semplificazioni che non rendono conto della complessità degli scritti dell’uno e dell’altro e delle contraddizioni che in entrambi sono frequenti, a cominciare – per quanto riguarda Erasmo – dalla compatibilità tra il suo pensiero e la tradizione cattolica alla quale fino alla fine rimase fedele.
Certo, con la scissione luterana Erasmo è costretto a confrontarsi per ragioni geografiche ma anche perché di Martin Lutero egli conosce bene le ragioni e il pensiero; ed è sul problema del libero arbitrio e della sua compatibilità col principio imperscrutabile della grazia divina che avviene la rottura. Tema complesso che si allarga alle concezioni calviniste che tanto inchiostro hanno fatto scorrere per comprenderne le relazioni con la libertà dei moderni ma che richiederebbe ben altro spazio di quello di una recensione.
Un libro quindi da leggere anche nella sua parte in cui Ossola si sofferma sull’influenza che gli scritti di Erasmo hanno avuto nei secoli successivi, sulle interpretazioni del suo pensiero, sulle manipolazioni ideologiche di cui è stato oggetto.

 

Franco Chiarenza
14 aprile 2017

Carlo Ossola – Erasmo nel notturno d’Europa – Vita e Pensiero editore (Milano 2015) – pag. 134, euro 13,00

Che ci sarebbero state delle correzioni di rotta rispetto agli annunci elettorali era immaginabile; meno prevedibile che i cambiamenti sarebbero stati così rapidi e drastici. Vediamo i diversi fronti aperti dal nuovo presidente americano.

Rapporti con la Russia
E’ il terreno su cui Trump si è trovato in maggiore difficoltà. Le sue aperture verso Putin in campagna elettorale hanno dovuto subito misurarsi con i sentimenti anti-russi prevalenti nelle forze armate e nello stesso establishment del partito repubblicano; le rivelazioni sulle interferenze russe nella campagna elettorale attraverso fake news orchestrate da Mosca, vere o false che siano, hanno profondamente colpito l’opinione pubblica. Non manca chi pensa che Trump sia ricattabile per qualche trascorso durante i suoi soggiorni moscoviti. In ogni caso il presidente ha immediatamente compreso che il problema dei rapporti con la Russia rappresenta un terreno minato e conseguentemente da un lato ha allontanato i consiglieri più sospetti di connivenze filo-russe (e in particolare Michael Flynn e Steve Bannon) e dall’altra ha alzato i livelli di scontro con Putin. In quest’ottica vanno lette l’azione militare contro Assad in Siria e il sostanziale fallimento della missione di Tillerson a Mosca. Putin lo sa e mostra pazienza; si limita a blindare la posizione di Assad rinsaldando sulla politica siriana i rapporti con l’Iran.
Nella conferenza stampa congiunta di Tillerson e Lavrov il ministro degli esteri russo ha ripetutamente richiamato i precedenti dell’Iraq e della Libia quali esempi da non imitare; come dire che prima di rovesciare Assad bisogna essere d’accordo con chi e cosa sostituirlo.

Rapporti con l’Europa
Anche Trump – come tutti – attende l’esito delle elezioni francesi e tedesche; sicuramente “tifa” per Marina Le Pen all’Eliseo e spera in una sconfitta della Merkel a Berlino. Nel frattempo i rapporti con l’Europa (Gran Bretagna esclusa, ma fino a un certo punto) restano in sostanza gelidi. Al centro del contenzioso le misure protezionistiche contro alcuni prodotti europei come ritorsione per analoghi comportamenti europei nei confronti della carne americana. Un atto dovuto nei confronti degli allevatori statunitensi (che della candidatura Trump sono stati sostenitori) e che, in toni più morbidi, era già stato sollevato da Obama.

Rapporti con la Cina
La visita di Xi Jinping a Washington è andata meglio del previsto, anche per l’atteggiamento pragmatico di entrambi gli interlocutori. Le bellicose intenzioni preannunciate da Trump sono rimaste nel cassetto anche probabilmente per le perplessità espresse da Wall Street e dalle multinazionali ormai strettamente integrate nell’economia cinese. I problemi esistono e sono gli stessi che Obama voleva regolare con un accordo multilaterale in grado di contenere l’egemonia cinese; l’avversione di Trump per ogni forma di multilateralismo ha congelato il progetto ma le pressioni giapponesi, australiane e di altri importanti paesi del Pacifico (a cominciare dall’India) non mancheranno di farsi sentire.

La politica interna
La fretta è sempre cattiva consigliera. L’ossessione di annullare subito l’Obamacare sull’assistenza sanitaria ha prima generato un topolino (modifiche molto parziali) poi una sconfitta. Ricordando le resistenze di alcuni settori del partito democratico Trump era convinto di neutralizzare gli estremisti del suo partito; invece le opposizioni si sono coalizzate e Trump è stato costretto a ritirare il suo progetto. Una sconfitta soprattutto di immagine.
Restano intatti i problemi di fondo: come conciliare la diminuzione delle tasse promessa in campagna elettorale con la politica di investimenti infrastrutturali e di potenziamento militare che si vorrebbe mettere in atto. Una contraddizione risolvibile soltanto con un ulteriore
indebitamento, con tutti i problemi che ciò potrebbe comportare nel medio e lungo termine.

Conclusioni (per ora)
I primi cento giorni di Trump appaiono caratterizzati dalla preoccupazione di mostrare una sostanziale discontinuità dalla politica dell’amministrazione precedente; consapevole della debolezza derivata dalla modalità della sua elezione, dall’ostilità dei media che riflette la sfiducia di una parte dell’opinione pubblica che ha un peso rilevante nell’establishment, cerca di consolidare i rapporti con alcuni poteri forti a cominciare da quello militare. La realtà delle cose tuttavia lo spinge inesorabilmente a una sostanziale continuità con la politica estera di Obama: contenimento delle aspirazioni egemoniche della Russia, ridefinizione dei rapporti economici con la Cina, rinuncia al paventato isolazionismo.
Dove si registra una differenza non è nelle prove muscolari, destinate probabilmente a restare manifestazioni di immagine, ma piuttosto nel volere sostituire alla politica multilaterale di Obama, fondata su alleanze e trattati vincolanti, una totale autonomia limitata tutt’al più da intese bilaterali in cui fare valere il peso specifico degli Stati Uniti. In questo quadro si comprende l’ostilità verso la NATO, il ridimensionamento delle Nazioni Unite, la diffidenza nei confronti del WTO (proprio nel momento in cui la Cina, dopo una lunga attesa, sta entrando a farne parte), e così via. Se tale prospettiva sarà mantenuta e non dovrà anch’essa fare i conti con i problemi complessi della globalizzazione e con la stessa convenienza degli Stati Uniti al rispetto di regole condivise, potrebbero verificarsi cambiamenti importanti su due versanti: quello dei rapporti con l’Europa e ancor di più la politica ambientale. Ma anche su questi punti Trump dovrà affrontare il dissenso di parti importanti dell’opinione pubblica presenti anche nel suo partito.
Insomma malgrado le contorsioni dovute all’immersione improvvisa di un personaggio impreparato e mal consigliato nel mare della complessità di una potenza globale, il terremoto provocato dall’imprevisto esito elettorale americano continuerà a registrare scosse di assestamento per un periodo ancora lungo. Non tali però da provocare cambiamenti epocali. Almeno speriamo.

 

Franco Chiarenza
14 aprile 2017