TIZIANA FABI / AFP

La “Dichiarazione sull’avvenire dell’Europa” sottoscritta pochi giorni fa da sedici partiti nazionalisti di destra (tra cui la Lega e Fratelli d’Italia) è stata analizzata da Sergio Fabbrini in un interessante articolo sul “Sole 24 ore. L’autore ha rilevato come elementi positivi (e certamente lo sono) il fatto che per la prima volta partiti nati contestando l’integrazione europea ammettano la necessità di un’unione europea e di una sua collocazione nei valori occidentali euro-americani, il che non era scontato, considerando certi ammiccamenti nei confronti di Putin. Ed è quindi certamente importante e positivo che la critica alle istituzioni europee si muova nell’ambito di un riconoscimento della sua esistenza. Ma gli aspetti positivi della Dichiarazione si fermano qui.

Il punto nodale di questa sorta di “patto” tra nazionalisti è la supremazia delle sovranità nazionali su ogni altra considerazione e, di conseguenza, il rifiuto di qualsiasi cessione di poteri e competenze che non siano revocabili; il che di fatto significa respingere qualunque ipotesi di federazione, comunque configurata. Il corollario di tale impostazione ha un inequivocabile contenuto ideologico: “proteggere la cultura e la storia delle nazioni europee, il rispetto dell’eredità giudeo-cristiana dell’Europa dei valori comuni che uniscono le nazioni europee”. Il che significa in pratica non riconoscere altri principi di riferimento che non derivino dalla tradizione “giudaico-cristiana”, con tanti saluti ai diritti umani, alla laicità dello Stato e alla tutela del pluralismo. Una sorta di riedizione della “Santa Alleanza” del 1815 in funzione di sostegno all’autoritarismo; non a caso i modelli a cui i partiti sovranisti guardano sono quelli che si sono insediati in Polonia e in Ungheria e che sono ormai in aperto conflitto con l’Unione Europea. Anche Orban e Kaczynski però devono affrontare sulla questione europea ostacoli non indifferenti: all’interno per il prevalere di posizioni europeiste e liberal-democratiche nelle grandi città (non a caso sia Varsavia che Budapest hanno amministrazioni “liberal”), nei rapporti con l’Unione che si sono irrigiditi e potrebbero provocare contraccolpi economici pericolosi per la stabilità politica dei loro regimi, per quanto puntellata da una gestione autoritaria del potere.
Quella espressa dai movimenti nazionalisti è oggi una posizione minoritaria in Europa (in quanto non condivisa da popolari, socialisti, liberali e verdi) che però non va sottovalutata. Essa potrebbe infatti saldarsi con una diversa rivendicazione del primato della sovranità nazionale, molto diffusa in Scandinavia, per la quale la salvaguardia dei diritti umani e le protezioni sociali sarebbero meglio garantiti dal mantenimento di una piena autonomia degli stati nazionali, rieccheggiando in qualche modo alcune delle ragioni che in Inghilterra hanno fatto prevalere la Brexit.

In tale situazione, mentre nel resto del mondo si stanno ridefinendo i rapporti di forza tra Stati Uniti, Russia e Cina, l’Europa dei “piccoli passi” appare velleitaria e impotente, costretta ancora una volta a rifugiarsi sotto le ali protettive di Washington che, con la presidenza Biden, le ha aperte fin troppo generosamente.
Da questa situazione di dipendenza obbligata non si esce con le parole e i proclami, occorre fare un salto coraggioso; chi lo vuole compiere ben venga, prima o poi l’intendence suivra. Comunque vadano le elezioni in Germania a settembre e in Francia nella primavera prossima, toccherà ai vecchi fondatori della Comunità Europea (Francia, Germania, Benelux e Italia), integrati dai paesi iberici e da altri che lo vorranno, segnare modi e tempi di una ripartenza che senza ambiguità metta insieme le politiche estere e militari completando l’unione economica di fatto già operante tra i paesi che hanno adottato la moneta comune. Non c’è più tempo da perdere. L’asta per effettuare il salto con successo potrebbe essere rappresentata in questo momento dall’Italia di Mario Draghi; Salvini però ci faccia capire da che parte sta, se con la dichiarazione dei sovranisti o con un’Europa che parli all’esterno con una voce sola. E prima di rispondere si consulti con Giorgetti e Zaia.

Franco Chiarenza
20 luglio 2021

Le uniche parole di buon senso che ho letto sulla vicenda sempre più complicata del progetto di legge Zan sono quelle pronunciate da Ettore Rosato, esponente di spicco del piccolo partito dei renziani, quando ha affermato che quando sui problemi veri si cominciano ad appiccicare bandierine ideologiche è il modo peggiore di venirne a capo in maniera efficace e condivisa.
E’ appunto il caso del progetto Zan che scaturisce da un problema reale (la tutela dei diritti di quanti hanno tendenze sessuali diverse da quelle considerate normali) ma sul quale i partiti di sinistra e di destra hanno scatenato una pretestuosa contrapposizione ideologica. Letta infatti continua nella sua strategia di allargamento del consenso rivendicando per il suo partito il ruolo di protettore delle minoranze e degli esclusi, Salvini e Meloni si propongono come difensori della famiglia tradizionale minacciata, non si capisce perché, dal riconoscimento di tutele rafforzate alle identità di genere diverse. Quando poi, in maniera quanto meno prematura, è sceso in campo anche il Vaticano sollevando problemi di compatibilità col Concordato (e quindi di natura costituzionale per l’infelice decisione dei costituenti nel 1947 di inserire i patti lateranensi nella Costituzione con il famoso articolo 7) la questione si è ancor più complicata.
Per venirne a capo bisognerebbe avere l’umiltà di sedersi attorno a un tavolo e esaminare le ragioni di ciascuno, fermo restando che sulle finalità ultime della legge tutti (anche il Vaticano) dicono di essere d’accordo. Cos’è allora che impedisce un’intesa? Ve lo dico io: un incrocio di processi alle intenzioni e la voglia di criminalizzare gli avversari in vista delle prossime elezioni politiche. Ma a questo modo di fare politica i liberali dovrebbero dichiararsi estranei.

Le ragioni della Chiesa
Il motivo per cui la Chiesa, dopo qualche titubanza, ha deciso di scendere in campo, anche col rischio di essere accusata di ingerenza negli affari interni del nostro Paese, è il timore che la legge, con le sue durissime sanzioni penali, possa essere utilizzata per imporre il principio dell’equivalenza tra il matrimonio eterosessuale e altre forme di convivenza civile (matrimonio omosessuale, unioni civili, ecc.). E che pertanto la libertà della Chiesa di sostenere la loro illiceità religiosa possa essere messa in discussione per l’infelice formulazione del reato di “istigazione all’odio” che appare nel testo. Un timore che, per la verità, prescinde dal Concordato e riguarda invece il rapporto tra libertà di espressione e dottrine religiose (non soltanto cattolica perché condivisa sostanzialmente da tutte le religioni monoteiste).
Naturalmente si tratta di un problema che riguarda soltanto i fedeli e non lo Stato il quale, rivendicando la sua laicità, come ha fatto Draghi con fermezza, è libero di fare le leggi che ritiene opportune senza vincoli esterni che non siano quelli di ordine costituzionale che ne regolano la validità.
Si capisce però che se la Chiesa ottenesse precise garanzie che le norme della legge Zan non si applicano agli istituti religiosi e ai corsi di insegnamento della religione cattolica che purtroppo il Concordato affida alla vigilanza dei vescovi, la sua opposizione probabilmente verrebbe meno.

Le perplessità dei liberali (o almeno di un liberale qualunque come credo di essere).
Diverse sono le ragioni per cui molti liberali sono diffidenti nei confronti di un progetto di legge che appare in alcune sue parti come un tentativo di rendere obbligatoria una concezione etica che può anche essere condivisa ma non imposta con sanzioni penali (oltretutto quantitativamente irragionevoli). Per i liberali le leggi penali puniscono i comportamenti che danneggiano le libertà altrui, non le intenzioni o il dissenso. L’istigazione all’odio è una categoria giuridica illiberale perché si presta nel merito alle valutazioni più diverse (e potenzialmente estensive); poco conta quali fossero le intenzioni dei proponenti, la legge, come è noto, ha una autonomia propria affidata alle interpretazioni giurisprudenziali. Oltre tutto non si capisce la necessità di una nuova legge per regolare una materia già trattata dalla legge Mancino del 1993 che bastava estendere alla tutela dei diversi orientamenti sessuali. L’unica differenza che colgo è l’introduzione di un reato di istigazione all’odio che, per le ragioni già dette, mi pare passibile di pericolose estensioni per analogia. Per chi crede in uno stato di diritto le opinioni, anche le meno condivisibili, devono potersi esprimersi liberamente, almeno fin quando non costituiscano esse stesse un’istigazione a compiere un reato. Ma l’istigazione a un reato comporta la configurazione del reato stesso e non può essere un concetto generico come l’odio. Dove finisce il dissenso e comincia l’odio, e chi lo stabilisce? La variabile giurisprudenza di una magistratura come la nostra, intrisa purtroppo di ideologismo e contiguità politiche? Chi può garantire che il prete che dal pulpito ricorda che le unioni omosessuali comportano per chi le pratica la commissione di un peccato mortale non venga denunciato per “istigazione all’odio” ? E anche la prevista giornata di sensibilizzazione come verrà realizzata nelle scuole – soprattutto in quelle dell’obbligo – come richiamo al principio di tolleranza nei confronti di ogni genere di minoranza o come propaganda di comportamenti eterodossi che in molte famiglie potrebbero generare conflitti anche gravi?

In conclusione: da un’attenta lettura del progetto ho tratto l’impressione (mi auguro sbagliata) che attraverso questa legge si voglia imporre un cambiamento culturale; purtroppo però le vere trasformazioni non avvengono minacciando le manette a chi non le condivide. Occorre un lavoro di persuasione che passi attraverso il confronto, il dialogo e soprattutto, nel caso in oggetto, introducendo nelle scuole di ogni ordine e grado (anche parificate) l’educazione civica come materia fondamentale e, in essa, quei principi di tolleranza e di rispetto per le diversità che caratterizzano la nostra cultura occidentale. Il rischio della legge Zan è nel suo “dopo”, nel modo cioè in cui verrà applicata, al netto dei passaggi che ancora l’attendono dal contenzioso con lo Stato Vaticano al vaglio della Corte costituzionale dove, prima o poi, finirà per approdare. Ne valeva la pena?

Franco Chiarenza
2 luglio 2021