Personalmente non sono di quelli che si rammaricano della mancata approvazione della legge che concede la cittadinanza ai minori immigrati; e ciò per molte ragioni che proverò a spiegare nella speranza di potere continuare a frequentare anche i salotti buonisti della “buona società” (naturalmente di sinistra). Definire una legge discutibile come “scelta di civiltà” significa dare degli incivili a coloro che non la condividono e questo in un dibattito tra gente civile è inaccettabile. Naturalmente bisognerà lasciare passare la campagna elettorale per potere ragionare in maniera distesa perché è chiaro che l’argomento da qui a marzo sarà estremizzato dandogli una valenza che obiettivamente non ha.

Cittadinanza e nazionalità
Il concetto di cittadinanza confina strettamente con quello di nazionalità e in quanto tale dovrebbe essere una cosa seria da non concedere – al di fuori di coloro che la ricevono jure sanguinis per essere figli di almeno un cittadino italiano – a nessuno se non a precise condizioni che, implicando un’assunzione di responsabilità, non possono riguardare i minori. Basti pensare che la cittadinanza è condizione primaria per esercitare i diritti elettorali.
Per la verità proprio la destra – quando era al governo – per convenienze elettorali e sulla base di motivazioni altrettanto demagogiche di quelle oggi sostenute dalla sinistra – aveva già snaturato il concetto di cittadinanza concedendola indiscriminatamente agli italiani all’estero, anche quando da molte generazioni non vivevano in Italia. Ma il fatto che si sia compiuto un errore non significa che si debba ripeterlo, sia pure per convenienze rovesciate.

Riforme condivise
Le vicende della riforma costituzionale di Renzi dovrebbero averci insegnato che quando si tratta di questioni fondamentali che attengono alle regole dello stare insieme è necessario ottenere la massima condivisione possibile. Anche le buone ragioni, se imposte con la violenza di maggioranze parlamentari spesso motivate da ragioni politiche che prescindono dai contenuti delle leggi, finiscono per perdere la loro validità.
La legge sullo jus soli spacca l’opinione pubblica in due parti quasi uguali e basterebbe questo a imporre un supplemento di ragionamento. La legge sul testamento biologico, per esempio, ha invece ottenuto un largo consenso, non soltanto in parlamento ma anche nel Paese (come attestano tutti i sondaggi) e perciò può davvero essere definita una “scelta di civiltà” in quanto non impone nulla e consente una libera scelta anche sulla propria morte.

Cittadinanza e diritti
L’argomento più utilizzato dai fautori del cosiddetto jus soli riguarda l’opportunità che i figli degli immigrati possano fruire degli stessi diritti degli italiani, almeno quando sono nati e cresciuti nel nostro Paese; e, in effetti, certe legislazioni straniere lo prevedono (sia pure ad alcune condizioni). Ma si è sempre trattato di fenomeni quantitativamente limitati e che scontavano di fatto (spesso anche con norme specifiche) una rapida e facile omogeneizzazione culturale.
Nel caso degli immigrati in Italia la domanda è: esistono altre modalità per garantire ai loro figli gli stessi diritti che spettano ai nostri? Davvero non si può più ragionevolmente disporre, laddove ancora non avvenga, una loro generale estensione senza disturbare concetti gravidi di conseguenze politiche e morali come la cittadinanza e la nazionalità?
Una domanda alla quale la legge sullo ius soli cercava di rispondere in modo sbagliato: restringendo in modo considerevole le condizioni per ottenere la cittadinanza, con ciò creando nuove discriminazioni tra minori con genitori “regolarizzati” e consenzienti, ed altri che non rientrano nella previsione legislativa o i cui genitori non intendano rinunciare alla loro nazionalità. A forza di pensare agli immigrati ci si è dimenticati che le nostre scuole pullulano da anni di studenti americani, inglesi (molto numerosi a Roma e Milano) romeni, albanesi, ecc. per i quali il problema non si è mai posto e che, se vogliono, chiedono la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età ottenendola senza grandi difficoltà. Conosco personalmente molti casi.
Elena, figlia di una domestica romena a servizio da conoscenti, ha studiato in Italia con ottimi risultati e senza particolari traumi. A diciott’anni ha chiesto e ottenuto la cittadinanza ed è felice e contenta. Costantino, figlio di un operaio romeno che lavora in una ditta che svolge lavori di ristrutturazione edilizia, ha studiato in Italia con ottimi risultati e senza particolari traumi. A diciott’anni non ha voluto chiedere la cittadinanza ma vive in Italia come tanti altri, felice e contento.

Responsabilità e minore età
Da liberale aggiungo una considerazione: ai minori non dovrebbe essere imposta alcuna scelta, a cominciare dal battesimo, dalla comunione e dalla cresima. Ogni opzione, religiosa, politica, sociale, dovrebbe essere espressa al conseguimento della maggiore età, previa adeguata preparazione (come giustamente pretende la Chiesa nei casi di conversione) che accerti – quando si tratta della cittadinanza – l’esistenza dei requisiti linguistici, culturali, e di conoscenza dei diritti e dei doveri dello Stato di cui i richiedenti si accingono a far parte.
Basterebbe questa considerazione per spingere un liberale ad opporsi a una legge pasticciata, demagogica, irrilevante ai fini che dichiara di perseguire, come quella che aveva approvato la Camera.

Torniamo dunque a ragionare. L’obiettivo di far venir meno ogni discriminazione legale per i figli degli immigrati che studiano e crescono nel nostro Paese può essere largamente condiviso soprattutto per quanto attiene il diritto allo studio e alla salute. Lo stesso vale per l’attenzione alla loro formazione affinché possano liberamente compiere le loro scelte quando saranno giuridicamente in grado di farlo, rendendo automatico il diritto di conseguire la cittadinanza alla maggiore età quando tali condizioni siano rispettate.
Per quanto invece riguarda le discriminazioni che di fatto si registrano in molte scuole si tratta di un problema – ben noto a tutti gli esperti – molto grave che però non si risolve con norme e prescrizioni legali. I traumi scolastici derivanti dall’esclusione costituiscono d’altronde una realtà ben precedente all’arrivo dei barconi dall’Africa; chi non ricorda le discriminazioni che hanno colpito i figli degli immigrati meridionali (italiani) nelle scuole del nord Italia? Le ragioni del rifiuto dei giovani (e soprattutto dei giovanissimi) ad accettare le diversità hanno motivazioni culturali complesse che affondano le loro radici nelle famiglie e nella società; non è certo con un certificato di cittadinanza da sventolare ai compagni che i pochi studenti che riusciranno a conseguirlo potranno eliminare il disagio. Anzi forse otterranno l’effetto contrario.
Io penso che sia molto più educativo poter dire: “Io sono del Ghana e tu mi devi rispettare non perché fingo di essere italiano ma perché sono un essere umano che vive in questo Paese. Anche a prescindere dal fatto che abbia o meno genitori che lavorano qui, che pagano le tasse qui, che partecipano dei diritti e dei doveri di cui ogni residente dovrebbe disporre.”
Altrimenti finirà che, magari tra dieci anni, ci sarà qualche giovane del Ghana o dell’Eritrea che giunto alla maggiore età rifiuterà orgogliosamente la cittadinanza che gli hanno pretestuosamente affibbiato quando non era in grado di decidere, per riprendersi legittimamente la propria.

Così la penso io. Ma il mio punto di vista resta sempre aperto alle ragioni di chi la pensa diversamente. L’importante è che smettiamo di trattare cose serie con la solita faziosità a cui il nostro modo di fare politica non riesce a sottrarsi: si può essere contrari allo jus soli senza essere fascisti e razzisti, si può essere favorevoli senza essere comunisti che non rispettano l’identità nazionale.
Si potrebbe invece ragionare senza pregiudizi.

Franco Chiarenza
30 dicembre 2017

Del risultato delle elezioni in Catalogna – tanto atteso dopo le vicissitudini del tentativo di indipendenza unilaterale – si può dire quel che si vuole ma una cosa è certa: la Catalogna è spaccata in due sull’ipotesi di staccarsi dalla Spagna, e con una risicata maggioranza di poco più del 50% non è possibile sostenere che quasi tutti i catalani siano favorevoli all’indipendenza.
Al di là di un orgoglio campanilistico che affonda le sue radici in motivazioni culturali e storiche di tutto rispetto appare sempre più evidente – soprattutto agli abitanti di Barcellona – quanto sia sproporzionato il costo da pagare sia in termini economici che dal punto di vista politico rispetto a una secessione che comporterebbe molti più problemi di quanti ne dovrebbe risolvere e che, oltretutto, non aggiungerebbe granché ai poteri assai ampi di cui già gode la regione autonoma. La strada dell’indipendenza dunque, anche considerando l’atteggiamento duro della magistratura che riflette lo stato d’animo dell’opinione pubblica spagnola assai ostile nei confronti degli indipendentisti catalani, pare non più percorribile.
Ciò però non significa che una trattativa non possa aprirsi – soprattutto se al governo catalano parteciperanno gli unionisti – e che da essa possa scaturire un’ulteriore estensione dell’autonomia che potrebbe essere oggetto di un referendum condiviso che metta la parola fine a una controversia che danneggia la Spagna, ma anche l’Europa e la stessa Catalogna.
Il monito che ne deriva all’Europa – dove convivono da sempre tante “piccole patrie” – è evidente: i confini nazionali sono intangibili così come ce li ha consegnati la seconda guerra mondiale. I problemi delle diversità culturali o linguistiche – anche dove sono più che fondati, come in Catalogna, nei Paesi Baschi, in Corsica, in Alto Adige, in Istria, in Kossovo, in Bosnia – si risolvono con la concessione di ampie autonomie che l’Unione Europea dovrebbe promuovere e proteggere.
Non è un caso che anche i secessionisti di queste regioni non abbiano mai messo in discussione la partecipazione alla costruzione europea; una ragione di più per rafforzare l’unione politica dell’Europa appena le vicende elettorali tedesche e italiane lo consentiranno.

 

Franco Chiarenza
22 dicembre 2017

E’ il sottotitolo di un libro di Piero Tony, magistrato in pensione, pubblicato nel 2015 da un “editore di sinistra” (Giulio Einaudi). Ed è un impietoso atto d’accusa contro le distorsioni del sistema giudiziario di cui la sinistra italiana porta una rilevante quota di responsabilità.
Quando dico “sinistra” non intendo soltanto quella politica, ormai spesso tale più per tradizione storica che per un’effettiva visione sociale alternativa, ma piuttosto quella sinistra pedagogica e moralista che è maggioranza negli ambienti intellettuali che contano lungo l’asse che da Milano si spinge fino a Roma e a Napoli ma che è invece minoranza quasi sempre nel Paese.
Essa ha utilizzato la magistratura, in larga parte condizionata dagli stessi presupposti culturali e politici, per “raddrizzare” il Paese attribuendole una funzione sostanziale di governo che in Parlamento non riusciva a svolgere; il pensiero corre naturalmente a “mani pulite” ma non soltanto di questo si tratta, ma di una lunga e ininterrotta serie di interventi che gradualmente hanno trasformato l’Italia in una repubblica giudiziaria (come molti osservatori stranieri – a cominciare dall’Economist – non hanno mancato di rilevare).
I liberali – se sono davvero tali – non sono moralisti, non utilizzano la questione morale come strumento demagogico per conseguire obiettivi di potere. Se quindi le finalità di miglioramento della società fossero raggiunte attraverso mezzi istituzionalmente non ortodossi Machiavelli ci ricorda che sono i risultati che contano; anche se – come invece ci ha insegnato Erasmo – bisogna fare attenzione perché i mezzi utilizzati non sono indifferenti rispetto agli obiettivi che si intendono conseguire e finiscono per assumere una funzione che trascende le finalità di chi li ha utilizzati.
Per restare al nostro libro, se davvero una giustizia di parte avesse ottenuto il risultato di rendere migliore il Paese, al di là di ogni formalità istituzionale, si potrebbe anche convenire sulla sua necessità; ma è stato davvero così? E’ quel che si domanda Piero Tony in questo pamphlet forse troppo leggero per la quantità di problemi che solleva, ma molto utile come atto di denuncia e come testimonianza di una coscienza che ha il coraggio di interrogarsi pubblicamente.

Il libro contiene pagine da ricordare come quelle sulla responsabilità civile dei giudici (sancita da un referendum ma sempre boicottata dai magistrati), sull’abuso delle intercettazioni telefoniche, sui rischi di una interpretazione estensiva della discrezionalità, sui dubbi che solleva certa legislazione ambigua come quella che riguarda il concorso associativo, e infine sulle modalità scandalose che caratterizzano in Italia il funzionamento del sistema penitenziario.
Il libro di Tony ha il pregio di concludersi con alcune proposte concrete che andrebbero prese molto sul serio; sarebbe forse il momento che magistrati preparati e consapevoli che hanno ormai lasciato la carriera, per limiti di età o per scelte diverse, costituiscano un’associazione che proprio per essere al di fuori di qualsivoglia gioco di potere sia in grado di rappresentare un organo di consulenza utile al governo, al parlamento e soprattutto a una pubblica opinione sempre più sconcertata.

 

Franco Chiarenza
17 dicembre 2017

 

Piero Tony – Io non posso tacere – (Giulio Einaudi, Torino 2015) – pag. 125, euro 16

Il rientro in Italia delle salme di Vittorio Emanuele III e della regina Elena costituiscono atti dovuti di un paese civile nei confronti di regnanti che – nel bene e nel male – hanno rappresentato il vertice istituzionale della Nazione per quasi cinquant’anni. Una repubblica ormai pienamente condivisa e legittimata può permettersi questi atti di generosità e di riconoscimento storico che forse in passato sono talvolta mancati; sarebbe auspicabile che la vicenda venisse conclusa con la sepoltura in Italia di Umberto II, le cui spoglie si trovano ancora nell’antica abbazia sabauda di Hautecombe.
Ma, detto questo, che non si parli del Pantheon per favore. Lo dice un ex-giovane monarchico come me che anzi coglie l’occasione per lanciare una provocazione: che si restituisca all’antico tempio romano la funzione puramente archeologica per la quale è famoso nel mondo. La storia ha fatto il suo corso, il Pantheon torni a celebrare il panteismo delle antiche religioni, Umberto I e Margherita di Savoia vengano traslati in una sede più opportuna (come per esempio la basilica di Superga a Torino), Vittorio Emanuele II venga tumulato in un’apposita cappella nell’Altare della Patria a lui dedicato insieme a Cavour, Mazzini e Garibaldi che rappresentano le diverse concezioni risorgimentali convergenti nei principi di unità e di libertà ad esse comuni. A ciascuno il suo: alla Patria il definitivo suggello della sua storia nel monumento che la rappresenta a piazza Venezia, ai Savoia la centenaria basilica dove molti predecessori riposano, al multiculturalismo religioso e civile il tempio che fu eretto venti secoli fa per celebrarlo.

 

Franco Chiarenza
17 dicembre 2017

La questione di Gerusalemme ha sempre rappresentato – più ancora di quella del rientro dei profughi – l’impedimento maggiore a un accordo tra israeliani e palestinesi per mettere fine a un conflitto che si protrae ormai da settant’anni. Problema difficile da risolvere perché in esso, avvolti in una miscela inestricabile, si riproducono questioni religiose e di identità nazionale che vengono da lontano, da una storia millenaria che ha fatto della “città santa” il simbolo irrinunciabile di religioni che, pur avendo una comune origine, si sono combattute fino allo sterminio.
Quando l’ONU nel 1948 riconobbe, in base a un piano di spartizione elaborato l’anno precedente, l’esistenza dello Stato d’Israele, la risoluzione prevedeva per Gerusalemme uno statuto speciale garantito dalle stesse Nazioni Unite che tenesse conto dell’importanza fondamentale che la città aveva per le diverse tradizioni religiose, in modo che ebrei, cristiani e musulmani potessero convivervi senza sentirsi stranieri.
Dopo la guerra che seguì la mancata accettazione della risoluzione da parte dei paesi arabi Gerusalemme restò, al termine del conflitto, divisa a metà tra Israele e la Giordania; la situazione si aggravò nel 1967 quando nella seconda guerra tra arabi e israeliani i giordani furono sconfitti e l’intera città cadde nel regime di occupazione israeliano. Nel 1980 Gerusalemme fu proclamata da Israele capitale dello Stato, ma quasi tutti i paesi (compresi quelli occidentali più vicini alle ragioni di Israele) non riconobbero tale dichiarazione unilaterale per il suo evidente carattere destabilizzante in vista delle trattative che avrebbero dovuto suggellare la pace, e pertanto mantennero le loro ambasciate a Tel Aviv che aveva egregiamente svolto le funzioni di capitale fino a quel momento. Nel frattempo tuttavia Israele, proseguendo nella politica dei fatti compiuti, come nel caso degli insediamenti illegali nei territori occupati, costruiva a Gerusalemme nuovi quartieri interamente abitati da ebrei modificando strutturalmente la composizione etnica della città. Ciò nonostante gli occidentali – Stati Uniti in testa – avevano sempre mantenuto fino ad oggi una posizione molto netta perché lo status definitivo di Gerusalemme facesse parte integrante degli accordi di pace, anche se gli opposti estremismi delle parti in conflitto li rendevano sempre più lontani. In tale delicato contesto la decisione di Trump di infrangere questo precario equilibrio assomiglia all’irruzione di un elefante in un negozio di cristalleria e non poteva che suscitare le reazioni che conosciamo e che sembrano isolare, una volta di più, l’America di Trump dagli altri paesi non soltanto arabi, ma anche da quelli ad essa alleati.

Ma c’è un’altra tesi che prende le mosse dal fatto che la dichiarazione di Trump non accenna a una modifica dei confini e non esclude una soluzione del problema palestinese basata sul principio dei “due stati”. Secondo i suoi sostenitori Trump avrebbe semplicemente “rovesciato il tavolo” per uscire dalle sabbie mobili in cui si erano impantanate le trattative di pace; una manovra spericolata che potrebbe consentire agli Stati Uniti – una volta pagato il prezzo di Gerusalemme agli israeliani – di riprendere l’iniziativa per imporre il ritiro degli insediamenti ebraici illegali nei territori occupati e dar vita finalmente a uno stato indipendente palestinese. Ma tanta astuzia diplomatica è difficilmente attribuibile a un personaggio come il presidente americano, molto più interessato a dimostrare al suo elettorato la coerenza delle sue azioni con le promesse preelettorali piuttosto che a valutare gli effetti internazionali del suo operato.
Oltretutto, giunta in un momento in cui la Russia si propone come il solo interlocutore valido per risolvere i problemi medio-orientali, la decisione di Trump mette in discussione equilibri che vanno ben oltre la questione di Gerusalemme, anche considerando i cambiamenti che si stanno producendo nei paesi arabi dopo la sconfitta dell’ISIS, a cominciare dal Kurdistan e dall’Arabia Saudita. Come sempre Trump sacrifica qualsiasi considerazione di ruolo internazionale alla preoccupazione di recuperare consenso all’interno del Paese e credo che anche questa improvvisa decisione unilaterale su Gerusalemme sia stata ispirata soprattutto all’esigenza di consolidare i rapporti con la potente comunità ebraica americana.

Da un punto di vista liberale – che è quello che a noi interessa – la questione di Gerusalemme, come quella palestinese in generale, al di là della simpatia per uno stato che rispetta le forme della democrazia e garantisce i diritti politici fondamentali al suo interno, non può trovare soluzione fondandosi sulle pretese del soggetto più forte e la negazione delle ragioni altrui. Gerusalemme è effettivamente una città simbolo non soltanto per gli ebrei ma anche per i cristiani e per i musulmani; oltre alle vestigia del tempio giudaico distrutto dai romani (il cosiddetto “muro del pianto”) vi si trovano il sepolcro di Gesù Cristo e le più antiche moschee musulmane. Essa è passata di mano innumerevoli volte dai romani ai bizantini, dai crociati agli arabi, fino alla lunga dominazione turca, ma in effetti bisogna risalire al primo secolo dell’era cristiana – prima della sua distruzione da parte dell’imperatore Tito – per considerarla capitale riconosciuta del popolo ebraico. Certamente essa è rimasta centrale nella tradizione giudaica ma anche in quella cristiana (basti pensare alle sette crociate per strapparla agli arabi) e in quella maomettana per essere stata per secoli considerata la terza città santa dell’Islam dalla quale Maometto ascese al Cielo.
La soluzione più equilibrata e rispettosa dei diritti umani sarebbe quindi quella già delineata dall’ONU nel 1948: uno statuto internazionale e interreligioso almeno per il centro storico e l’attribuzione di Gerusalemme Ovest allo Stato di Israele e di Gerusalemme Est allo stato palestinese. Creare un fatto compiuto fondato sulla prepotenza, come vorrebbero Trump e Netanyahu, non soltanto non risolve il problema ma complica la ricerca di una soluzione condivisa.

 

Franco Chiarenza
12 dicembre 2017

Alfredo Rocco, giurista fascista, nel presentare alla Camera nel 1932 il nuovo codice penale, ebbe a dire: “Noi abbiamo seppellito il liberalismo definitivamente. Esso è morto e non resusciterà né ora né mai.” Per fortuna mai previsione si dimostrò più sbagliata, ma ciò che non riuscirono a fare i fascisti stanno tentando di fare alcuni antifascisti militanti legittimati dalle provocazioni velleitarie di sparuti gruppi di teppisti che – non da oggi – hanno trovato nelle rivendicazioni di estrema destra (più ispirate al nazismo, per la verità, che non al fascismo) la maniera di scandalizzare la grande maggioranza degli italiani che – pur nelle sue diversità – si riconosce nei valori della democrazia e del pluralismo politico. La reazione però di certi antifascisti militanti rischia involontariamente di distruggere un caposaldo della cultura liberale e di favorire sostanzialmente proprio quel neo-fascismo che si vorrebbe contrastare. La tentazione ricorrente di proibire per legge le idee sbagliate e la loro libera manifestazione rappresenta infatti un grave attentato ai principi del liberalismo che fonda la sua superiorità proprio per non ricorrere a metodi totalitari (propri della cultura dei suoi avversari) per difendere se stesso. Salvo naturalmente il caso che la democrazia si trovi realmente in pericolo mortale, il che non mi pare corrisponda alla realtà attuale, almeno nel nostro Paese.
Oltretutto queste leggi e proibizioni pretese dai giacobini dell’anti-fascismo, oltre a cadere nell’inevitabile contraddizione di utilizzare metodi “fascisti” per chiudere la bocca ai fascisti, sono da sempre inutili, inapplicabili e controproducenti.

  • Inutili perché non servono a modificare uno stato di fatto se davvero avesse dimensioni tali da renderlo preoccupante, il che per fortuna non è.
  • Inapplicabili perché la distinzione tra “istigazione” “propaganda” “esibizione di simboli” ecc. è talmente difficile da definire che o si riduce a una reale limitazione della libertà di espressione tutelata dalla Costituzione oppure può produrre la cancellazione della memoria storica (monumenti, opere d’arte, espressioni letterarie: il futurismo, per esempio, e certo D’Annunzio vogliamo inserirli in un nuovo “Indice” democratico?). Si rischia il ridicolo ancor prima dell’inutilità, tenuto conto che viviamo oggi in un mondo che attraverso internet non conosce più frontiere, nel bene e nel male.
  • Ma soprattutto sono controproducenti perché dando visibilità mediatica alle spericolate provocazioni di pochi esaltati finisce per dilatarne l’importanza e apre la strada a un martirologio fascista in nome della libertà di espressione di cui non sentiamo alcuna necessità.

Altri sono i rimedi “liberali” a questa esplosione – limitata ma comunque inquietante – di rifiuto delle forme e della sostanza della liberal democrazia; partendo dalla constatazione che alla sua base c’è soprattutto molta ignoranza.
Vogliamo restituire all’educazione civica quel ruolo fondamentale che dovrebbe avere in una scuola democratica? Vogliamo – attraverso gli stessi strumenti che la comunicazione contemporanea ci mette a disposizione – diffondere i principi di libertà, di rispetto delle diversità, di cosa significa lo “stato di diritto” in cui diciamo di riconoscerci, di quali sono i fondamenti di un’economia moderna e in essi quali le possibili opzioni?
In tale contesto vanno anche richiamati i valori della Resistenza ma non per metterne in rilievo i momenti di divisione, quando ha assunto l’aspetto di una guerra civile il cui ricordo ancora segna la memoria di tante famiglie, ma quelli su cui la grande maggioranza degli italiani si è riconosciuta dopo la guerra per fondare quel patto di convivenza che – con tutti i suoi limiti – è comunque rappresentato dalla Costituzione.
Altrimenti si rischia di ritornare a stucchevoli e superate contrapposizioni in cui riemergerà inevitabilmente anche il ricordo dell’essenza totalitaria del comunismo e delle ambiguità di quanti ad esso si ispirarono, facendo così il gioco dei burattinai che stanno dietro i quattro scalzacani di “Casa Pound”, quello di riabilitare il fascismo come resistenza al comunismo.
Un sillogismo che va semplicemente respinto al mittente.

Franco Chiarenza
10 dicembre 2017