E’ morto Paolo Bonetti. Una perdita grave per il liberalismo italiano, perché liberale fino in fondo Bonetti lo era davvero. Altri scriveranno del suo pensiero filosofico, della sua attività accademica, della sua sensibilità per i diritti umani ivi compresi quelli che derivano dal fenomeno dell’immigrazione (un problema complesso su cui la cultura liberale occidentale non ha ancora trovato un punto di convergenza condiviso). Lo ricordo nella sua compostezza, nella capacità di ascoltare e di confrontarsi senza mai rinunciare all’intransigenza sui principi che lo portava anche a simpatizzare con le campagne anti-clericali di “Critica Liberale”, il periodico diretto da Enzo Marzo, col quale collaborava intensamente. Era un “liberale di sinistra”, e di questa importante componente del liberalismo italiano scrisse anche una storia.

Abbiamo discusso tante volte, era un amico sincero della vecchia Fondazione Einaudi di Roma – quella di Zanone, per intenderci – e ne apprezzavo la profondità di pensiero unita alla rara capacità di esporre le sue convinzioni in termini semplici e facilmente comprensibili; doti essenziali per un buon “maestro” come infatti dimostrò di essere nei suoi numerosi incarichi didattici.
Quando venne, invitato dai giovani della LUISS, a presentare il mio libro “Il liberale qualunque”, lui che di ogni forma di qualunquismo era avversario, fu il solo a comprendere il senso divulgativo e didattico del testo che avevo faticosamente elaborato, e, rispondendo a una domanda di un giovane che ne lamentava la dimensione “tuttologica”, rispose che il libro era da tenere sul comodino, come un livre de chevet, un manuale del buonsenso liberale da consultare di tanto in tanto. Lo apprezzai molto.

Lo incontravo talvolta anche nei dibattiti e negli incontri organizzati nella chiesa valdese di piazza Cavour e alla sua competenza in materia di rapporti tra Stato e Chiesa devo la comprensione dell’importanza che ha avuto ed ha tuttora la questione. E del perché un liberale, al di là ovviamente di qualsiasi convinzione religiosa, non può non seguire con attenzione quanto avviene nella Chiesa per comprenderne il travaglio nell’affrontare un’impietosa secolarizzazione che rischia di distruggerla non tanto come organizzazione terrena quanto nella sua dimensione morale in grado di condizionare valori e comportamenti. I liberali non hanno distrutto il potere temporale della Chiesa per eliminare quei valori cristiani che nella tradizione occidentale si erano fusi con le certezze dell’illuminismo, ma per esaltarne il valore civile; il nulla dell’anarchia individualista che sembra oggi averne preso il posto nulla ha a che fare con il vero liberalismo. Quello di Bonetti.

 

Franco Chiarenza
31 gennaio 2019

Mio nipote (anni ventuno), simpatizzante del PD, mi ha chiesto: non ti sembra che alcune proposte dei Cinque Stelle siano giuste? Per esempio il reddito di cittadinanza non dovrebbe far parte di una politica di sinistra? Vedi – ho dovuto rispondergli (ma non so se l’ho convinto) – il problema non è cosa si vuol fare ma come si fanno le cose. Il “come” è importante perché costringe a considerare le conseguenze.
Un liberale, come credo di essere, non può negare che, al di là delle forme bizzarre che caratterizzano la loro azione politica, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio porti avanti anche alcune ragioni e battaglie in cui i liberali non possono non riconoscersi. Dove si resta perplessi (e talvolta sconcertati) è nelle soluzioni proposte dai Cinque Stelle, quasi sempre confuse e incerte, spesso approssimative fino al limite di un dilettantismo demagogico. Sembra sempre che Di Maio sia attento soltanto al mantenimento di un consenso che, provenendo da motivazioni diverse e contrastanti, è destinato a modificarsi ogni volta che il movimento dovrà compiere delle scelte di governo. Per esempio:

a) – pubblica moralità
I partiti che hanno governato fino a ieri hanno molto sottovalutato l’importanza di questo aspetto per un’opinione pubblica stanca degli scandali continui che si sono succeduti. Il successo dei Cinque Stelle è in parte fondato su questa indignazione, probabilmente esagerata rispetto alle reali dimensioni del fenomeno, ma considerata invece nella percezione di molti giunta a livelli di guardia (come già avvenne vent’anni fa con “Mani pulite”). Certe arroganti difese di privilegi inaccettabili (come i vitalizi dei parlamentari), certi abusi visibili a tutti (come l’uso di auto e aerei “blu”), certi condannati che impunemente restavano alla ribalta, certi processi conclusi con prescrizioni scandalose, hanno alimentato la protesta come benzina sulla brace.
Un maggiore rigore morale non può dunque che essere accolto con favore dai liberali, ma non deve trasformarsi nel suo contrario cioè nel venir meno dei principi di garanzia di ogni stato di diritto. Quando si sospende “sine die” la prescrizione dopo il giudizio di primo grado si agisce frettolosamente e demagogicamente e si rischia di peggiorare la situazione facendo venir meno il diritto di essere giudicato in tempi certi. Anche la sospensione dai pubblici uffici prima di una sentenza definitiva appare in contraddizione con la presunzione di innocenza stabilita dalla Costituzione. A fronte quindi di un problema reale come quello di evitare che la prescrizione divenisse – come talvolta è avvenuto – una tattica utilizzata per ottenere assoluzioni per decorrenza dei termini bisognava agire diversamente: mettere in piedi una riforma complessiva della giustizia penale in grado di eliminare molte procedure dilatorie che oggi consentono troppo spesso l’impunità. Tempi lunghi? Non necessariamente se c’è una volontà politica e una capacità di condividere anche con le opposizioni una riforma così importante.

b) – la casta
Uno dei bersagli preferiti dai Cinque Stelle è la cosiddetta “casta”. Con questo termine essi si riferiscono in realtà alla classe dirigente, in particolare a quella politica, che a loro avviso si rinnova per cooptazione, è insensibile a qualsiasi promozione sociale dal basso, ed esercita una sorta di egemonia totalizzante non soltanto nella politica ma anche nei giornali, nell’economia, nella finanza, nell’università, ecc. Il problema è reale e nessuno più di un liberale può essere sensibile al mancato funzionamento dell’ “ascensore sociale” (che è poi anche una delle cause della “fuga dei cervelli” a parole tanto deprecata, nei fatti incoraggiata per lasciare spazio ai figli dei soliti noti).
Ma, ancora una volta, la soluzione non può essere cercata nel trionfo dell’incompetenza. Per progettare il futuro mantenendo i piedi per terra nel presente servono competenze politiche (non soltanto tecniche) che non si improvvisano; per evitare gli inevitabili ostacoli occorrono esperienze maturate nei poteri locali, pubbliche relazioni durevoli, capacità di contemperare – quando si può – interessi diversi, pur mantenendo come una stella polare le idee e le ragioni per le quali si è chiesto il consenso dei cittadini. L’idea balzana che chiunque dall’oggi al domani possa governare realtà complesse come quelle che caratterizzano la politica contemporanea, che cioè si possa esercitare il potere su mandato fiduciario di poche migliaia di individui (siano essi iscritti ai partiti o a una piattaforma digitale poco cambia) è non soltanto velleitaria ma anche foriera di esiti catastrofici; lo abbiamo già visto in passato con i partiti fondati su ideologie totalizzanti, da quello fascista dopo la prima guerra mondiale a quelli comunisti dopo la seconda. Lo slogan “uno vale uno” è giusto se attiene ai diritti (e ai doveri) di cittadinanza non se riguarda le competenze di ciascuno di noi: faresti aggiustare l’impianto elettrico a una persona qualsiasi o ti faresti difendere in tribunale da chi non esercita come avvocato?
La democrazia è fondata sul pluralismo delle idee e sul confronto civile che vanno esercitati nel contesto di una carta fondamentale che ne regola le modalità; minare la rappresentanza parlamentare basata sulla responsabilità di ciascun deputato o senatore di fronte al Paese (e non al partito che lo ha fatto eleggere) è estremamente pericoloso. La prima repubblica cadde anche per le degenerazioni della partitocrazia che avevano quasi svuotato i poteri del parlamento. La politica non è una partita di poker in cui chi vince prende tutto il piatto, e dove le campagne elettorali si trasformano in tifoserie che si scambiano insulti incitando all’odio; è invece una competizione fondata sul confronto tra progetti di governo diversi (e talvolta anche opposti) dove si discute e si decide in base a una delega che andrà verificata alla fine del mandato e non giorno per giorno in base ai sondaggi. I bilanci di casa si fanno a fine d’anno, quelli della politica a fine legislatura.
Quanto conti la competenza, l’esperienza, lo dimostra l’esperimento di Virginia Raggi a Roma: ha impiegato sei mesi per crearsi una giunta stabile, ha affrontato i problemi più scottanti in modo superficiale, ha peggiorato le condizioni di vita della città già rese precarie dai suoi predecessori. Per non parlare di alcuni ministri (come l’ineffabile Danilo Toninelli) ormai oggetto di quotidiano sarcasmo su quegli stessi “social” che avrebbero dovuto rappresentare la forza dirompente del movimento.
Questo non significa che qualcosa non si possa fare, anche in termini di ingegneria istituzionale: per esempio stabilire alcuni limiti al rinnovo del mandato, come si è fatto – con ottimi risultati – nell’elezione dei sindaci. O anche adottare forme di recall (già sperimentate negli USA) che però sono possibili solo rendendo definitivo almeno per una camera il sistema elettorale uninominale (il che, oltre tutto, consentirebbe un legame organico e continuo tra elettori ed eletti). Misure che vanno studiate attentamente, concordate con maggioranze più ampie di quelle di governo, e attuate con regole chiare non suscettibili di interpretazioni distorcenti (come è avvenuto in passato per alcuni casi di incompatibilità stabiliti dalla legge, per esempio per i magistrati che scendono in politica).

c) – reddito di cittadinanza e pensioni
Sul fatto che fossero necessarie misure di sostegno per la parte più povera del Paese credo siano tutti d’accordo; già il governo Gentiloni si era mosso in questa direzione con il cosiddetto reddito di inclusione. Il problema è come realizzare tale legittima esigenza in presenza di un bilancio che dispone di poche risorse realmente spendibili (e su questo punto si è consumato il duro confronto con la Commissione dell’Unione Europea). La legge sul reddito di cittadinanza voluta da Di Maio si muove nella stessa logica assistenziale degli 80 euro di Renzi: una gigantesca operazione di voto di scambio. Le misure di contenimento e di controllo previste nel provvedimento rischiano di essere inattuabili e di produrre nella loro concreta attuazione un pasticcio confuso e indecoroso. In un paese come il nostro (e non soltanto al sud) il reddito di cittadinanza potrebbe incrementare il lavoro nero e produrre infiniti aggiramenti fraudolenti praticamente impossibili da scoprire e sanzionare.
Se è vero che la mancanza di lavoro costituisce il problema più grave da affrontare non è certo col reddito di cittadinanza che si risolve; anche ammesso (e non concesso) che – come prefigura Di Maio – l’incremento dei consumi dovesse aumentare la domanda fino a generare significativi aumenti della produzione (e quindi dell’occupazione) gli effetti si vedrebbero soltanto in tempi lunghi. Hanno quindi ragione gli imprenditori quando sostengono che i pochi mezzi disponibili (in gran parte derivati da un’ulteriore aumento del debito pubblico) dovrebbero essere utilizzati non per finanziare misure prevalentemente assistenziali dai dubbi risultati espansivi ma per facilitare attraverso la riduzione delle imposte gli investimenti produttivi in grado di generare occupazione.
Perchè il vero problema non è fare lavorare chi non vuole (e potrebbe accontentarsi del “salario di cittadinanza”) ma creare il lavoro che non c’è.

Anche per le pensioni vale lo stesso ragionamento. A prescindere dalla retorica anti-Fornero cavalcata spregiudicatamente (e secondo me infondatamente) da Salvini, si tratta di capire se sia utile impiegare ingenti risorse per consentire ai pensionandi di anticipare l’uscita dal lavoro (oltretutto in presenza di un fenomeno come l’allungamento delle aspettative di vita, in sé positivo, ma foriero di un appesantimento dei conti previdenziali). Si tratta infatti di una misura assistenziale che non genera sviluppo né nuova occupazione; e nemmeno garantisce quel ricambio generazionale auspicato da Salvini se non accelerando di poco quel che sarebbe comunque avvenuto (nella pubblica amministrazione, perché nel settore privato è molto improbabile).

Entrambe le riforme poi presentano anche un lato oscuro non sufficientemente valutato. In un paese come il nostro dove l’economia sommersa ha dimensioni gigantesche (e occupa non meno di tre milioni di lavoratori) si rischia di aumentarne l’estensione con l’immissione sul mercato del lavoro reale di migliaia di soggetti ancora validi che, avendo la pensione o il reddito di cittadinanza, andranno a costituire una forza-lavoro retribuita in nero a basso costo. Spesso, soprattutto nel sud, per le piccole imprese marginali il lavoro nero, con l’evasione fiscale e contributiva che l’accompagna, è una condizione di sopravvivenza; ed è questa la ragione vera per cui tutti, politici, sindacalisti, mezzi di informazione, fingono di non vederlo. Di Maio minaccia per costoro fuoco e fiamme; ma vivendo a Pomigliano d’Arco non può non sapere qual’è già oggi la realtà sotto gli occhi di tutti e la difficoltà di applicare le leggi (anche quelle che già ci sono) per contrastare l’economia sommersa. Lui e il suo compagno Di Battista hanno “scoperto” che i rispettivi padri nelle loro piccole imprese utilizzavano il lavoro nero! Che sorpresa!!!
In tale contesto le sanzioni minacciate da Di Maio rischiano di fare la fine delle “grida” di manzoniana memoria. C’è una vecchia storiella messa in giro per dimostrare il carattere pragmatico degli inglesi: se in una sala affollata dove è proibito fumare i trasgressori sono pochi puoi cacciarli fuori, ma se sono la grande maggioranza è meglio togliere il cartello di divieto. Noi di solito facciamo peggio, manteniamo il cartello e fumiamo lo stesso.
Per noi liberali dunque su una questione tanto importante e condivisibile negli obiettivi bisognava intervenire diversamente: con misure di sostegno transitorie per i disoccupati potenziando seriamente i centri per l’impiego, mettendo in atto percorsi individuali differenziati (e ci vorranno molti mesi); con un’assistenza familiare mirata nei casi di esclusione irreversibile, cercando nel contempo di riorganizzare in maniera efficiente tutto il settore dell’assistenza pubblica oggi caratterizzato da provvedimenti parziali e incongrui e dalla confusione delle competenze, fonte di sprechi e corruzione (ricordi i ricorrenti scandali dei falsi invalidi? Ciechi che giocano a calcio, zoppi che corrono la maratona, ecc.)

d) – rapporti con i mezzi di comunicazione
L’Ordine dei giornalisti, creato dal regime fascista per controllare la stampa ed esistente quasi esclusivamente in Italia, non va riformato; va semplicemente soppresso. Costa molto, serve soltanto a creare barriere corporative all’accesso ai mezzi di informazione, potrebbe essere sostituito da organismi più flessibili concordati tra editori e sindacato dei giornalisti senza veste istituzionale. Lo ripeto (insieme a tanti altri) da anni attirandomi l’ostilità della corporazione. Se il movimento Cinque Stelle lo farà i liberali non potranno che essere d’accordo, anche perchè la soppressione dell’Ordine dei giornalisti fu sostenuta a suo tempo pure da Luigi Einaudi.
Lo stesso vale per i finanziamenti pubblici all’editoria contro i quali i liberali si battono da sempre. Se un giornale non riesce a farsi finanziare dai suoi lettori e dalla pubblicità deve chiudere; farlo sovvenzionare dallo Stato costituisce un’inaccettabile violazione del principio di libertà dell’informazione, anche a prescindere dalle modalità sostanzialmente discrezionali con cui lo si realizza. Tanto più oggi che l’informazione transita assai più su internet che non sulla carta stampata e le minoranze dispongono di infiniti mezzi per fare conoscere le loro opinioni..

e) – difesa dell’ambiente
Si tratta di un problema della cui importanza tutti sono consapevoli. In Italia la questione è vitale per la particolare natura del territorio, unico al mondo non soltanto per ragioni idrogeologiche ma anche e soprattutto per gli assetti urbani e paesaggistici che la sua storia ha lasciato. Ciò però non significa fermare tutte le opere necessarie a facilitare la produzione di beni e servizi, i quali hanno bisogno di grandi infrastrutture ben funzionanti nei trasporti, nell’edilizia urbana, nella comunicazione. Spetta alla politica naturalmente valutarne la convenienza di volta in volta ma le decisioni devono essere trasparenti nelle loro motivazioni, adottate in tempi certi, rese definitive rapidamente, evitando che ogni progetto si incancrenisca in passaggi burocratici e decisionali che non finiscono mai dando luogo a contenziosi che durano anni. Abbiamo opere pubbliche per 500 miliardi sostanzialmente ferme; basterebbe riavviarle per creare un volano per la ripresa economica e l’occupazione.
La preoccupazione dei Cinque Stelle che le grandi opere pubbliche progettate siano talvolta inutili o comunque sproporzionate in una corretta logica costi-benefici, e che spesso siano fonte di corruzione e di malversazioni, ha un indiscutibile fondamento. Le tante opere incompiute, le “cattedrali nel deserto” che punteggiano le regioni meridionali, stanno a dimostrarlo. Ma si tratta di inconvenienti che si contrastano con leggi appropriate (a cominciare da una revisione di quelle che regolano gli appalti), con una attenta vigilanza che deve partire dalla pubblica amministrazione prima ancora di finire nelle aule giudiziarie. Non fare le opere pubbliche perchè generano corruzione è come non costruire automobili perchè provocano incidenti.
Invece i Cinque Stelle si attardano in battaglie di retroguardia a fini puramente ideologici, come nel caso della TAV, del TAP, del traforo del Brennero, dell’alta velocità ferroviaria, delle linee metropolitane nelle grandi aree urbane. In qualche momento (e in qualche dichiarazione improvvisata) sembra quasi che auspichino una società modellata su quelle comunità quacchere americane dove per evitare la corruzione e fare prevalere i buoni sentimenti ogni comodità moderna viene bandita, vengono riesumate le carrozze a cavalli, e il governo è affidato a saggi anziani che lo esercitano con modalità patriarcali.

In conclusione un po’ di pragmatismo e di gradualità non guasterebbe. Per esempio la questione dei termovalorizzatori (definiti sprezzantemente inceneritori e “tumorifici” da Grillo) andrebbe affrontata come si fa in paesi che in tema di ambientalismo possono darci delle lezioni, come quelli scandinavi. A Copenhagen (e altrove) nuovi impianti assolutamente sicuri non soltanto hanno risolto il problema dei rifiuti (assorbendo a caro prezzo anche rifiuti altrui come quelli napoletani) ma producono anche energia elettrica consentendo l’illuminazione di interi quartieri (lo hanno fatto anche a Brescia). In sostanza accade che noi siamo costretti a portare (sempre a caro prezzo) i nostri rifiuti ai termovalorizzatori che l’indegna gazzarra incosciente di Grillo vorrebbe distrutti; il povero Pizzarotti, divenuto sindaco di Parma coi voti dei Cinque Stelle si è subito reso conto dell’assurdità della situazione ed è stato cacciato dal movimento (non dalla sua città che lo ha trionfalmente rieletto). E’ mancato poco che la Raggi dirottasse i rifiuti romani proprio nell’impianto di Pizzarotti. Certo, il ciclo integrale costituisce una soluzione ideale, ma per farlo funzionare occorrono una diffusa coscienza civica e organizzazioni efficienti che da noi sono molto carenti e per venirne a capo ci vogliono tempi molto lunghi. L’idea che intanto dobbiamo tenerci la puzza così impariamo più presto a fare la raccolta differenziata mi ricorda la pedagogia staliniana; manca solo la Siberia.
Lo stesso discorso vale per l’energia. Una delle ragioni della ridotta competitività del nostro sistema industriale è notoriamente il costo dell’energia; avere escluso drasticamente e precipitosamente l’opzione nucleare ci è costato caro. Un’opinione pubblica allarmata, disinformata, ha deciso con un referendum senza rendersi conto che le centrali francesi, austriache, slovene ci circondano; il rischio è rimasto uguale e spesso abbiamo dovuto comprare l’energia dalla Francia. Le ragioni degli anti-nucleari erano parzialmente fondate, ma bisognava muoversi in maniera graduale, d’intesa almeno con i partner europei (come poi si è fatto con decisioni comuni sull’incremento delle fonti energetiche rinnovabili). Avremmo risparmiato qualche miliardo e non ci saremmo ridotti a dipendere totalmente dall’estero.
Ora tocca al gas. Ne avremo bisogno ancora per molti anni e, a quanto affermano gli esperti, ne abbiamo in quantità nei mari che ci circondano; ma il solito oltranzismo ideologico si oppone alle trivellazioni. Finirà che il nostro gas lo tireranno fuori gli albanesi e i greci (i giacimenti, come le radiazioni nucleari, si diffondono senza passaporto) e poi ce lo rivenderanno (sempre a caro prezzo).
Si tratta soltanto di alcuni esempi; altri se ne potrebbero fare. Sembra di scorgere una strategia di fondo ostile alle grandi industrie, agli investimenti strutturali, alla stessa economia di mercato, con la finalità di favorire il “piccolo è bello”. Il problema non è se sia giusto o sbagliato (per noi liberali è sbagliato) perchè tutti hanno diritto alle loro opinioni, ma se davvero i tanti che hanno votato i Cinque Stelle sono consapevoli di tali obiettivi e delle conseguenze che la loro strategia comporterà nell’economia del Paese.

Preoccupa però noi liberali qualunque – al di là di una ideologia non condivisibe – l’assetto politico che si cerca di configurare. Ci domandiamo se insistendo in modo quasi maniacale nel condannare gli errori e le degenerazioni del passato per avere via libera nel buttare l’acqua sporca, il vero obiettivo non sia quello di buttare con essa il bambino che richiedeva soltanto di essere lavato. Fuor di metafora se l’intenzione non sia quella di eliminare la democrazia liberale coi suoi equilibri istituzionali, un sistema politico che ha consentito più di ogni altro in ogni epoca della storia di assicurare il massimo di libertà in un contesto economico che ha liberato dalla fame e dall’indigenza milioni di esseri umani. Non ci sarebbe da stupirsi; le ideologie si trasformano spesso in fondamentalismi e questi ultimi – sempre richiamandosi a una superiore legittimazione popolare – rifiutano ogni confronto e, prima o poi, reprimono il dissenso.
Ci preoccupa per esempio l’allergia ad ogni confronto pubblico che vada oltre gli slogan elettorali, una discutibile democrazia interna nel movimento, i rapporti poco chiari tra il gestore del portale Rousseau e la dirigenza politica, la diffidenza per ogni corpo intermedio che si frapponga tra la “volontà popolare” espressa in modo plebiscitario e il potere, l’ignoranza elevata a valore di eguaglianza sociale, un certo “giustizialismo” vendicativo che raccoglie gli umori più negativi della “pancia” del Paese, il disprezzo per le forme istituzionali. E infine un’idea di “democrazia diretta” che eliminerebbe ogni possibilità di mediazione costruttiva, una forma di plebiscitarismo che – anche senza scomodare i totalitarismi di Mussolini, Hitler e Stalin – ha sempre prodotto governi sostanzialmente autoritari anche quando formalmente fondati sul consenso popolare: ieri i Bonaparte, oggi le “demokrature” di Putin, Erdogan, Orban, Kazinski, ecc.
No grazie. Noi italiani abbiamo già dato.

 

Franco Chiarenza
24 gennaio 2019

Con una cerimonia solenne nella sede della Banca d’Italia, alla presenza del Capo dello Stato e del presidente del Consiglio, è stato presentato qualche giorno fa il primo volume dell’edizione nazionale delle opere di Luigi Einaudi. Un’occasione per il governatore Visco di ribadire alcune preoccupazioni molto attuali e per il curatore Pier Luigi Ciocca di ricordare alcuni passaggi fondamentali del pensiero di Einaudi. Un’opportunità per un liberale qualunque come me per riflettere ancora una volta sulla sua eccezionale personalità.

Einaudi presidente
Non avrebbe mai potuto immaginare che la sua lunga esistenza politica si sarebbe conclusa al Quirinale, in quel palazzo che aveva ospitato papi e re, e che lui stesso – monarchico – rispettava come simbolo dell’unificazione nazionale. Ci arrivò in un momento difficile di passaggio istituzionale dal regno dei Savoia alla nascita della Repubblica in seguito a un referendum che aveva profondamente lacerato il Paese. La sua presidenza costituiva un precedente nel quale avrebbero in qualche misura dovuto riconoscersi i successori, un esempio per un’opinione pubblica incuriosita dalla novità, una garanzia per i monarchici che la loro preferenza istituzionale non sarebbe stata oggetto di discriminazione (come invece, necessariamente, si doveva fare in quel momento nei confronti dei nostalgici del fascismo).
Einaudi seppe svolgere il suo compito con uno stile ineguagliabile, unendo alla modestia personale un rispetto per le forme necessariamente solenni del ruolo istituzionale, utilizzando tutti gli strumenti che la Costituzione gli riconosceva per esercitare un ruolo di persuasione e di controllo sugli atti di governo. Non per questo smise di scrivere; lo “Scrittoio del Presidente” rappresenta una testimonianza preziosa di questa sua esperienza e, con le più note “Prediche inutili”, un testamento politico fondato sulla convinzione che la nuova classe dirigente dovesse con l’esempio, con chiare scelte politiche ed economiche, favorire la crescita morale e materiale del popolo italiano che usciva dalla terribile esperienza del fascismo e della seconda guerra mondiale

Einaudi economista
Einaudi era certamente un sostenitore dell’economia di mercato. Ma, proprio per questo, riteneva che il sistema italiano ereditato dal fascismo fosse lontano da quel modello, dato il peso che in esso avevano ancora le corporazioni, i monopoli, i vincoli di ogni genere che caratterizzavano la presenza dello Stato. Ma non era contrario all’intervento pubblico per principio; al contrario lo riteneva necessario quando serviva a garantire l’uguaglianza delle opportunità, quando cioè era finalizzato ad assicurare quanto più possibile le condizioni minime di partenza nella competizione esistenziale. Da qui l’importanza che Einaudi attribuiva alla scuola e alla sua capacità di rispondere efficacemente alle esigenze della società; da qui la sua ostilità al riconoscimento legale del titolo di studio che favorisce inevitabilmente la mediocrità a scapito della competenza. Nella sua concezione la scuola avrebbe dovuto essere diffusa ovunque secondo i diversi livelli di formazione, severa quanto basta per operare una giusta selezione, attenta a promuovere competenze da riversare sul mercato del lavoro, sensibile all’innovazione, in grado sostanzialmente di consentire a chiunque di possedere le conoscenze necessarie per potere deliberare consapevolmente nelle scelte che la società civile impone a ciascuno dei suoi componenti. Così non è stata e ne paghiamo le conseguenze anche in termini di coesione sociale.
Il medesimo principio valeva negli assetti produttivi; toccava allo Stato intervenire nelle infrastrutture necessarie e ogni qual volta potesse svolgere un ruolo di “volano” per lo sviluppo. Temeva però come la peste – ben conoscendo i vizi della classe politica – che strumenti pensati per realizzare tali compiti finissero per trasformarsi in giganteschi serbatoi di sottogoverno. La questione morale e le teorie economiche erano nel suo pensiero strettamente associate. Da qui la sua diffidenza per i colossi statali come l’IRI e l’ENI, troppo grandi e potenti per essere controllati dalla politica ma, al contempo, troppo infestati da logiche politiche clientelari per svolgere una funzione di sostegno all’iniziativa privata sufficentemente elastica da assecondare le variabili di un mercato sempre più ampio.

Einaudi governante
Come governatore della Banca d’Italia e poi ministro dell’Economia operò scelte molto nette: lotta all’inflazione (da lui considerata la più iniqua delle tasse perché colpisce maggiormente in proporzione chi meno ha), stabilità monetaria e contenimento del debito pubblico. Si deve a quelle decisioni (e a quelle successive di apertura dei mercati al commercio internazionale) se il Paese poté riprendersi con una velocità che stupì tutto il mondo, creando quel “miracolo” economico degli anni ’50 che miracoloso non fu ma semplicemente il frutto di scelte lungimiranti e di buon senso che non tutti avevano inizialmente apprezzato. Il futuro dell’Italia nell’idea di Einaudi coincideva con quello dell’Europa, la quale soltanto mettendo insieme le proprie risorse e le diverse espressioni culturali avrebbe potuto ritrovare un ruolo importante nella nuova distribuzione delle egemonie politiche che si stava delineando nel mondo. Se fosse vivo oggi si riconoscerebbe nello slogan “Più Europa”.
All’Europa Einaudi affidava anche le sue speranze perchè fosse finalmente abbattuto il muro dei privilegi corporativi che impediva lo sviluppo del Paese nel cruciale settore dei servizi; un fardello che ancora oggi frena l’innovazione e pesa sulla crescita almeno quanto l’esistenza di un debito pubblico ingestibile. E in effetti quel poco che si è riusciti a liberalizzare lo si deve ai trattati europei. Ma la strada da percorrere è ancora lunga; restano ancora radicati negli italiani alcuni vizi che hanno ereditato dalla loro storia, tra i quali quello di cercare sempre nella protezione dello Stato la risposta a tutti i problemi, anche di quelli che potrebbero risolvere da soli.

Einaudi giornalista
Molti non ricordano che Einaudi è stato anche un grande giornalista, sin dalle sue origini. Dalla pratica giornalistica ha ereditato probabilmente la sua scrittura rigorosa ma semplice e sempre comprensibile, convinto che la divulgazione corretta è altrettanto importante della competenza scientifica. E’ stato un collaboratore storico del “Corriere della Sera” prima dell’avvento del fascismo e dopo la caduta di quel regime; ma la sua firma compariva spesso anche sull’Economista. Nel periodo tra le due guerre, impedito nell’attività politica, diresse riviste specializzate di grande rilievo come “Riforma sociale” e “Rivista di storia economica”. Molto sensibile al tema della libertà di informazione, da lui giustamente considerato cruciale per le democrazie liberali, si schierò contro la decisione della DC di mantenere l’Ordine dei giornalisti, creato dal fascismo per controllare i giornalisti.

La terra di Einaudi
La famiglia Einaudi era molto legata alla terra, rivelando in ciò le antiche origini contadine. Anche Luigi Einaudi era attaccato a quel mondo, ai suoi riti, ai suoi valori; da lì aveva tratto quei convincimenti sull’importanza della competenza, del rigore morale, della concezione del rischio come fattore ineludibile dell’esistenza per affrontare il quale occorre prepararsi senza contare troppo sulla protezione dello Stato. Principi che aveva messo in atto nel podere di San Giacomo a Dogliani che lui stesso aveva acquistato dai conti Marenco e del quale si occupava attivamente nei momenti liberi e dove si rifugiava per scrivere e meditare. Anche da Presidente non mancò mai a una vendemmia, e ancora oggi un bicchiere di dolcetto Einaudi vale una gita in quei luoghi bellissimi, a contatto con le valli che hanno visto il fiorire di eresie protestanti le quali hanno lasciato un’eredità culturale che per secoli ha garantito il mantenimento di valori liberali fondamentali nella costruzione del Piemonte moderno, primo mattone dell’unità d’Italia.

Franco Chiarenza
20 gennaio 2019

Nei giorni scorsi ho pubblicato sul mio blog un articolo in cui cercavo di capire quanto corrispondesse a verità lo slogan del “cambiamento”, continuamente ripetuto dalla nuova maggioranza. L’articolo ha suscitato molte reazioni, più di quante immaginassi, fino a raggiungere un numero di interazioni per me senza precedenti. Ne sono lusingato ma mi sono anche chiesto perché e ho quindi cercato di analizzare le risposte e i dialoghi che ne sono scaturiti, al netto naturalmente degli insulti e delle dichiarazioni di fede che sono per me ovviamente irrilivanti. Premesso dunque che i consensi e le contestazioni si dividono circa a metà, interessa esaminare le motivazioni dei contestatori che ho cercato di riassumere in quattro punti.

Cambiamento purchessia
Un primo gruppo di interlocutori non nasconde che il cambiamento è importante per sé stesso, a prescindere dai risultati. Occorreva cambiare radicalmente la classe dirigente e se per farlo bisogna anche pagare un prezzo in termini di esperienza di governo non importa. Il giudizio finale andrà dato al termine dell’esperienza di governo e se sarà necessario si potrà sempre cambiare di nuovo.

Le colpe del PD
Molti hanno espresso – anche in termini piuttosto violenti – un forte rancore nei confronti del partito democratico. Le ragioni sono sostanzialmente sintetizzabili in tre punti: 1) il PD ha tradito le ragioni di giustizia sociale con leggi che hanno danneggiato le parti più deboli del Paese. 2) Il PD (e soprattutto Renzi) ha tollerato la corruzione e la disonestà, si è alleato con i “poteri forti” contro il popolo. 3)La disastrosa situazione economica e sociale è imputabile all’alleanza tra PD, banche voraci e dissestate, e sottomissione all’Europa dominata dagli interessi della finanza internazionale. Qualcuno attribuisce all’”inciucio” tra Renzi e Berlusconi la ragione dell’inaffidabilità del PD.

L’onestà vale anche un po’ di incompetenza
Sul tasto dell’onestà insistono in molti. La figura di Renzi viene accostata agli intrecci familiari con Banca Etruria, mentre i vitalizi per deputati e senatori e “pensioni d’oro” sono meno presenti nei commenti di quanto immaginassi. Qualcuno ammette che errori di ingenuità e di incompetenza sono stati compiuti nei primi mesi del nuovo governo ma che essi vadano messi in conto all’inevitabile inesperienza dei nuovi arrivati e che bisogna dare loro il tempo necessario. La colpa non è loro se hanno ereditato una situazione così difficile.

Immigrazione e orgoglio nazionale
Il consenso sulla politica di contrasto all’immigrazione è stato ovviamente totale, con punte spiacevole di razzismo e ripetizione di fakenews da tempo smentite. Su questo tema si innesta un forte anti-europeismo (inteso come responsabilità dell’Unione per non avere aiutato l’Italia) e una rivendicazione dell’orgoglio nazionale che i precedenti governi, asserviti alla Germania e alla Francia, avrebbero colpevolmente ignorato.
Nessun accenno alle grandi opere infrastrutturali. Qualche puntualizzazione difensiva sugli effetti espansivi del “reddito di cittadinanza” e dei pensionamenti anticipati.

Conclusioni
L’impressione che il voto di marzo sia stato determinato in larga misura da un rancore profondo nei confronti di una classe politica ritenuta incapace di gestire la crisi economica resta confermata; ad essa si aggiunge un profondo fastidio per i riti politici e parlamentari della vecchia maggioranza. In sostanza nessun progetto alternativo, molta rabbia contro i governanti precedenti, richiamo continuo all’onestà come valore predominante (quindi adesione ai tagli ai vitalizi, agli stipendi, alle pensioni d’oro, ecc,).
Colpisce, nei commenti negativi, l’assenza quasi totale delle problematiche di bilancio: il debito pubblico, le opere pubbliche, la riforma fiscale, ecc. L’Europa è vista sempre in proiezione negativa ma si nota chiaramente che di essa nulla si sa: quali siano i suoi poteri, come funziona, quali ricadute ha sul sistema produttivo italiano, ecc. I sostenitori della Lega ribadiscono che il partito di Salvini è cosa diversa dalla vecchia Lega di Bossi; si conferma quindi la percezione che essa abbia svolto una funzione di raccolta in chiave nazionalistica, estranea alla cultura politica dei Cinque Stelle, e questo spiega il riposizionamento, confermato dai sondaggi più recenti, che vede la Lega molto al di sopra dei pentastellati. In pratica c’è una parte di elettorato che ha votato per il partito di Grillo che oggi preferirebbe Salvini (e tale tendenza potrebbe aumentare se gli esiti concreti del reddito di cittadinanza dovessero produrre qualche delusione) ma cambiati gli addendi il totale resta uguale: le soluzioni per il futuro sono diversificate, spesso confuse, ma il rifiuto del passato è netto e condiviso.
Se questo è vero il PD, anche a guida Zingaretti, è destinato a restare sotto la quota del 20% e si apre invece uno spazio al centro dello schieramento politico che non si sa da chi potrà essere occupato; non certo da Berlusconi. Dal partito che verrà?

Franco Chiarenza
16 gennaio 2019

Gianmarco Pondrano d’Altavilla, storico e umanista, e Antonio Scala, fisico e ricercatore (ovviamente di formazione scientifica) si sono messi insieme (e già questa è una lodevole eccezione) per analizzare una interessante ricerca che quest’ultimo, insieme a Walter Quattrociocchi, ha condotto in ambito accademico con un campione molto esteso e articolato sugli effetti di polarizzazione indotti dall’uso dei social-network e sulle conseguenze che le cosiddette “echo chambers” – già descritte nel 2001 da Cass Sunstein – possono avere su un corretto funzionamento dei sistemi politici liberal-democratici.
Non riassumo in questa sede le interessanti considerazioni degli autori del saggio (che è stato integralmente pubblicato su Micromega) ma mi limito a suggerire qualche integrazione, ferma restando la mia condivisione con le conclusioni di Pondrano e Scala.

Io credo che vada fatta una netta distinzione tra la realtà presente e i “rimedi” futuri.
Il presente si evolve ormai in termini talmente veloci da avere scavalcato non soltanto i tradizionali passaggi generazionali ma limiti temporali fino a poco tempo fa considerati insuperabili; per tale ragione la dinamica dei cambiamenti sociali e politici influenzati dai nuovi mezzi di comunicazione non può essere affrontata allo stesso modo – soprattutto volendo suggerire qualche rimedio – nel breve e nel lungo periodo.
La “chiave” del futuro infatti, in una visione liberale dell’evoluzione sociale che faccia i conti con le trasformazioni globali del XXI secolo (che riguardano la comunicazione ma non soltanto) sta, a mio avviso, in una parola magica: educazione. Che ovviamente non va intesa nel senso di comportamenti corretti (come viene oggi quasi sempre utilizzata) ma nel suo senso originario e letterale di processi di conoscenza che consentano ad ogni essere umano di comprendere, almeno nei suoi fondamenti, il mondo che lo circonda. Parliamo dunque ovviamente di scuola, aggregazioni sociali spontanee, ricerca di regole etiche condivise fondate sul principio di responsabilità.
La scuola non può continuare a ignorare la nuova realtà di internet; ma non per aggiungere un insegnamento tecnico ai programmi già sovrabbondanti (le nuove generazioni arrivano all’età scolare già conoscendo quanto meno le modalità di utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione) ma le regole etiche che devono accompagnarne l’impiego fondate sul principio di responsabilità. Responsabilità per ciò che si fa ma anche per ciò che si dice o si scrive. Ogni progetto formativo di qualsiasi genere e grado deve insegnare prima di ogni altra nozione quali sono i principi etici che regolano uno stato di diritto perchè su di essi si fonda la cittadinanza. Un concetto valido da almeno due secoli ma che oggi assume una pregnanza ancora maggiore se si vuole che internet cessi di essere – per le democrazie liberali – un problema e diventi invece un’opportunità. Da una corretta definizione della cittadinanza liberale scaturisce quasi naturalmente la capacità del confronto (la cui mancanza è giustamente rilevata nella ricerca citata), il principio socratico del dubbio e della contestabilità di ogni verità rivelata, fosse anche dalla scienza accademica, purchè lo si faccia adottando un metodo di confronto scientifico fondato su dati e fatti dimostrabili. Alla base del rifiuto pregiudiziale (e spesso infondato) che pervade talvolta (non sempre) l’infinito chiacchiericcio universale dei “social” c’è l’ignoranza e la paura generata dalla consapevolezza di non essere in grado di capire e interpretare le complesse realtà che avvolgono l’umanità in una nebbia di dubbi e di diffidenza per tutto ciò che appare come “istituzionale”. E’ una nuova versione del contadino di una volta, analfabeta e ignorante, che diffidava di ogni ragionamento che proveniva dalle “istituzioni” (padroni, preti, funzionari dello Stato) per il timore di esserne raggirato. E magari si fidava di più del consiglio della fattucchiera o dell’amico – spesso ignoranti come lui – ma sentiti come più vicini al proprio mondo di valori e certezze ereditati dalla tradizione. E come allora il primo rimedio fu la scuola elementare oggi bisogna ripensare l’intero processo formativo fondandolo non sui contenuti ma sui metodi di apprendimento.

Ma si tratta di tempi lunghi e alla fine di quel percorso noi contemporanei (io certamente) saremo morti – come diceva Keynes – o quanto meno avremo già subito gli effetti negativi delle polarizzazioni dogmatiche dilagate nelle contrapposizioni politiche, con buona pace di quella dialettica improntata all’ascolto e al confronto che non dovrebbero mai mancare in una società liberale.
Che fare dunque oggi? La mia risposta (del tutto compatibile con le conclusioni di Pondrano e Scala) è che occorre servirsi con maggiore convinzione di quegli stessi strumenti che oggi favoriscono la polarizzazione. Si dovrebbe disegnare una strategia liberale di contrattacco fondata su gruppi diversificati che operino sistematicamente in rete offrendo puntuali contestazioni alla cultura “fake” cercando di penetrare nelle “tribù” delle certezze pregiudiziali, seminando dubbi da opporre alle certezze (evitando le certezze contrapposte) nella speranza che dal ragionamento germogli la curiosità del confronto e con essa l’affermazione di un metodo dialettico che costituisce la principale eredità delle democrazie liberali del secolo scorso. Vedo con piacere che gli autori del saggio citano Stuart Mill che nel suo celebre saggio “On the liberty” fissò in modo inequivocabile la superiorità del metodo liberale nella politica, nella conoscenza, nei comportamenti quotidiani; alcuni amici che si definiscono liberali affermano che Stuart Mill fu più socialista che liberale per avere egli compreso che la riduzione delle diseguaglianze rappresentava (e costituisce tuttora) una condizione di sopravvivenza per gli stati liberali. Ma se per tale convinzione Stuart Mill va considerato un socialista dichiaro di esserlo anch’io.

Sarebbe utile tuttavia anche mettere mano ai meccanismi procedurali della democrazia parlamentare. Non si può non prendere atto che la disintermediazione politica è irreversibile e che – come appunto dimostra la ricerca diretta da Quattrociocchi – la nascita delle aggregazioni sulla rete interattiva non sostituisce la dialettica “ideologica” dei vecchi partiti ma favorisce invece una contrapposizione tra gruppi monolitici e settari, infrangibile al dialogo e al confronto. In tale contesto le procedure parlamentari tradizionali restano inevitabilmente travolte dalla prevalenza di sentimenti irrazionali ed emotivi che generano tifoserie insensate alimentate da verifiche di popolarità registrate puntualmente giorno per giorno, come dimostra anche l’esperienza recente che stiamo vivendo in Italia. E ogni volta che si propongono soluzioni che almeno in parte potrebbero rilegittimare la funzione fondamentale della rappresentanza si contesta che il problema non si risolve con l”ingegneria istituzionale”. Eppure tante degenerazioni nascono anche dalle forzature istituzionali che – soprattutto nella elaborazione delle leggi elettorali – hanno caratterizzato l’azione di forze politiche poco lungimiranti, di destra e di sinistra. Invece io credo che qualcosa si possa fare.
Parlarne diffusamente significherebbe andare fuori tema; un vizio che mio vecchio professore di italiano nelle medie mi rimproverava sempre. Ma in conclusione mi permetto di suggerire uno studio sulle conseguenze che potrebbero avere varie forme di democrazia deliberativa (ampiamente trattate dalla pubblicistica soprattutto americana) in un contesto che vede la prevalenza di internet su ogni altro strumento di formazione dell’opinione pubblica. Senza cadere nelle utopie della “democrazia diretta” alcuni correttivi al principio del mandato irrevocabile potrebbero probabilmente essere adottati – soprattutto nell’ambito di un sistema elettorale uninominale – senza travolgere i fondamenti della costruzione della democrazia rappresentativa. Forse sarebbe il caso di parlarne evitando arroccamenti tanto insensati quanto quelli di chi si propone di ridurre il parlamento a “un’aula sorda e grigia” chiamata soltanto a ratificare le decisioni dei partiti di governo. Dejà vu.

 

Franco Chiarenza
10 Gennaio 2019

La legge Salvini sulla sicurezza è discutibile e si presta a molte critiche. Ma in uno stato di diritto non si consente a nessuno di disobbedire a una legge approvata da un parlamento regolarmente eletto e promulgata dal Capo dello Stato, il quale, se vi avesse ravvisato violazioni davvero fondamentali ai diritti costituzionali avrebbe potuto rinviarla alle Camere con le proprie osservazioni. In ogni caso nel nostro ordinamento della sua costituzionalità non decidono i sindaci di Napoli e di Palermo ma la Corte Costituzionale alla quale giustamente si è appellata la Regione Toscana.
Il rifiuto di applicare la legge da parte di un pubblico ufficiale (come sono i sindaci) configura la possibilità di una loro rimozione da parte del consiglio dei ministri. Naturalmente il governo si guarderà bene dal farlo ben comprendendo che si tratta soltanto di un gesto politico spettacolare utile alla popolarità di due sindaci che storicamente non provengono dalle file del partito democratico, anche se le loro amministrazioni ne sono appoggiate, a conferma del fatto che stiamo già entrando in campagna elettorale.

Detto questo va fatta una riflessione sui contenuti della legge. Pur sbagliata negli strumenti che mette in atto essa risponde a una lamentela che ho visto molto diffusa riguardo la situazione precedente; quella che riguarda l’utilizzazione di strutture sociali da parte di immigrati a scapito di cittadini italiani. E’ arduo spiegare a una madre che non trova posto per il proprio figlio negli asili comunali che in base alla normativa vigente può passargli davanti il figlio di un immigrato, magari in base a requisiti che spesso non corrispondono alla realtà (per esempio i redditi provenienti da lavoro nero). Non voglio dire che questo giustifichi il modo rozzo con cui l’attuale maggioranza – in questo come in altri casi – tenta di risolvere il problema; penso però che la sinistra, alla ricerca di un’identità che dovrebbe cercare altrove, sottovaluti l’importanza che assumono certe questioni che incidono sulla vita quotidiana delle parti più deboli della società, quelle appunto che la sinistra dice di volere rappresentare.

 

Franco Chiarenza
7 gennaio 2019.

La retorica del “cambiamento” ha accompagnato il governo Conte sin dalla sua nascita. In questo omogenei, sia Di Maio che Salvini hanno continuamente ripetuto come un “mantra” ossessivo lo slogan della diversità rispetto ai governi precedenti – di centro-sinistra ma anche di centro-destra – ritenendo in questo modo di mantenere un consenso elettorale costruito più su una sommatoria di proteste (spesso tra loro contraddittorie) che non su un credibile progetto alternativo. C’è dunque stato questo cambiamento? E se c’è stato rispetto a che cosa? Ora che la manovra economica è stata finalmente approvata è possibile abbozzare una prima risposta. Anche se bisognerà attendere le leggi attuative per completare il ragionamento.

Rispetto alle istituzioni
Per quanto riguarda la prassi e i riti istituzionali un cambiamento c’è stato sin dagli esordi. Le consultazioni al Quirinale sono avvenute in modo inconsueto e hanno sfiorato pericolosamente la rottura col Capo dello Stato (del quale il leader del partito di maggioranza è arrivato a minacciare l’impeachment). La formazione del governo è stata caratterizzata da una continua alternanza di dichiarazioni ostili seguite da rassicurazioni, quasi che la politica fosse un gioco dove le parole non vanno prese troppo sul serio, come si faceva una volta nelle partite di pallone tra ragazzi e si fa oggi in molti social-network. L’accordo di governo, pomposamente e erroneamente definito “contratto” (che ha un diverso significato civilistico), ha richiesto una lunga trattativa, in parte svolta a Milano sotto l’attenta vigilanza del clan Casaleggio il cui ruolo effettivo nelle scelte del movimento resta ambiguo e molto opaco.
I rapporti tra governo e parlamento sono stati improntati a una completa subordinazione di quest’ultimo agli accordi (spesso poco trasparenti) tra Di Maio e Salvini. In questo caso però un vero cambiamento sostanziale non c’è stato: si faceva così anche nella prima repubblica quando le intese tra i partiti forzavano la volontà dei parlamentari. Ma almeno allora si salvavano le forme mentre oggi non se ne fa mistero e all’intenzione dei Cinque Stelle di aprire il parlamento “come una scatola di sardine” per garantirne la trasparenza e il controllo popolare sembra essere subentrata una realtà molto diversa somigliante all’ ”aula sorda e grigia” che Mussolini nel 1922 minacciava di trasformare in un bivacco di manipoli fascisti. Il colmo è stato raggiunto con l’approvazione della legge di bilancio – la cosiddetta “manovra” – che dopo essere stata votata dalla Camera è stata frettolosamente sostituita da una nuova versione concordata con la Commissione dell’Unione Europea per evitare l’avvio di una procedura d’infrazione e presentata al parlamento come un pacchetto non modificabile sostenuto da un voto di fiducia che impediva a deputati e senatori di svolgere quel lavoro di verifica e di bilanciamento degli interessi che ha sempre costituito un momento decisivo del controllo parlamentare sul governo.
Va anche rilevata la tendenza di alcuni ministri, in particolare Matteo Salvini, a comportarsi in ogni occasione come uomini di parte, esibendo spesso una volgarità anche verbale che forse sarà utile a raccogliere un po’ di consenso sui socialnetwork più cafoneschi ma certo non contribuiscono a dare del nostro paese un’immagine di serietà, almeno istituzionale. Anche Di Maio e i suoi amici rischiano di sfiorare il ridicolo quando si esibiscono in comportamenti da “curva sud”, come i brindisi dal balcone di palazzo Chigi o le rumorose pagliacciate con le quali trasformano il parlamento in un palcoscenico di avanspettacolo di provincia.
Infine: l’esperienza insegna che comizi elettorali e azione di governo sono cose diverse ed è opportuno che così sia. Qualsiasi governo, una volta costituito, riveste una funzione istituzionale che impone rispetto anche nei confronti di chi non lo ha votato perchè rappresenta la nazione intera; conseguentemente l’attuazione del programma politico in base al quale è stato nominato deve seguire procedure più attente e prudenti delle intenzioni proclamate in campagna elettorale, le parole devono essere pesate. In caso contrario si producono effetti che vanno ben oltre i sondaggi di popolarità ormai settimanali che sembrano ispirare ogni atto dell’attuale governo; i mercati finanziari internazionali, per esempio, si innervosiscono e finiscono per indicare livelli di rischio crescenti (il famoso spread) che un paese indebitato come il nostro non può permettersi. Nell’orgia di dichiarazioni incoerenti che hanno accompagnato i primi mesi del nuovo governo è dovuto intervenire lo stesso presidente della BCE per ammonire che le parole, quando sono pronunciate da persone che hanno rilevanza istituzionale, sono come pietre e vanno attentamente pesate; perchè se poi le pietre tornano indietro come boomerang non ci dobbiamo stupire.

Rispetto all’attività legislativa
I provvedimenti fondamentali che dovrebbero certificare il “cambiamento” sono sostanzialmente tre: il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, la riforma pensionistica “quota 100” e la sicurezza (variamente declinata nel contrasto all’immigrazione, la legittima difesa, il sostegno alle forze dell’ordine).

Il “reddito di cittadinanza” è sicuramente una misura di cui non si può sottovalutare l’importanza; se riuscisse davvero ad attenuare il disagio di quelle fasce sociali che consideriamo “povere” e contestualmente promuovesse l’accesso al lavoro e, attraverso l’aumento dei consumi, favorisse la produzione, come sostengono i seguaci di Grillo, si tratterebbe di una rivoluzione di non poco conto. Ma è così? Molti ne dubitano, a mio avviso con fondate ragioni di merito, di metodo e di compatibilità finanziaria che ho già espresso e che comunque mi riservo di approfondire quando la legge attuativa sarà nota e si conosceranno i dettagli. Solo allora si capirà se il reddito di cittadinanza potrà essere davvero considerato un cambiamento radicale o non piuttosto un allargamento e un perfezionamento del “reddito di inclusione” varato dal governo Gentiloni che già si muoveva nella direzione di un sostegno alle fasce più disagiate danneggiate dai processi di trasformazione delle attività produttive. Il fatto è che, soprattutto al sud, il reddito di cittadinanza è stato percepito come un’erogazione indifferenziata e i Cinque Stelle rischiano che i paletti che inevitabilmente la legge conterrà possano deludere molte aspettative con significative riduzioni del consenso elettorale. In ogni caso appare già chiaro che il provvedimento esce ridimensionato rispetto alle intenzioni iniziali: la dotazione è stata ridotta, i centri per l’impiego richiedono una ristrutturazione che richiederà tempi e risorse maggiori del previsto, la platea degli aventi diritto risulterà probabilmente sforbiciata da condizioni più rigide, la decorrenza è fissata al primo aprile (giusto in tempo per essere esibito in campagna elettorale come una grande vittoria del “popolo” pentastellato).
Tutto da vedere: per ora il “reddito di cittadinanza” è soltanto una indicazione della legge di bilancio supportata da una dotazione cospicua ma non tale da coprire le attese, anche se spalmata in otto mesi (anziché dodici).

La riforma delle pensioni dovrebbe consentire di raggiungere la famosa “quota 100” (sommando l’età con gli anni di lavoro). Ma anche in questo caso per arginarne gli effetti deleteri sul bilancio (soprattutto per gli anni a venire) si stanno studiando disincentivi di varia natura (tra cui essenziale quello della diminuzione degli importi), lo spostamento ad aprile del suo avvio, la durata ricondotta a un triennio (dopo di che? Si ritorna alla Fornero?). La misura è accompagnata da un taglio alle cosiddette “pensioni d’oro” che non serve a trovare le risorse necessarie alla riforma (che copre solo in minima parte) ma a soddisfare il rancore vendicativo contro la “casta” dei privilegiati che costituisce una componente importante del consenso elettorale (purtroppo facendo finire sotto tiro anche tanti che hanno onorevolmente servito lo Stato in posizioni di responsabilità). Travestito da “contributo di solidarietà” e limitato a un triennio il taglio alle pensioni di maggiore importo dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, superare l’inevitabile vaglio della Corte Costituzionale la quale già in passato (in occasione di una “limatura” delle pensioni operata dal governo Renzi) si era espressa in proposito ammettendo la possibilità di violare il principio dei diritti acquisiti in casi di comprovata necessità e solo transitoriamente. Anche in questo caso i dettagli fanno la differenza e bisognerà vedere come in concreto il provvedimento sarà attuato.

Per quanto riguarda la sicurezza, trattandosi di leggi a costo zero (o comunque limitato) Salvini è riuscito facilmente a fare passare provvedimenti contro l’immigrazione irregolare. Qui il cambiamento c’è stato ma non per merito del movimento Cinque Stelle all’interno del quale anzi l’anima terzomondista non manca di manifestare un certo disagio. In cambio l’immagine internazionale dell’Italia è passata da un eccesso di “buonismo” (arginato soltanto dalle misure prese e progettate dal ministro Minniti) a una fama (altrettanto eccessiva) di insensibilità per le sofferenze umane di gente che fugge da guerre, fame e condizioni di miseria; il che ha consentito agli altri paesi europei che ipocritamente fingevano di volerci aiutare di chiudere la partita indignandosi nei nostri confronti. La chiusura dei porti alle navi delle ONG che fungevano da traghetti tra la Libia e l’Italia è stata una misura ritenuta necessaria anche da una parte dell’elettorato che non ha votato per l’attuale maggioranza, ma andava accompagnata da una chiara strategia di regolamentazione dell’immigrazione che, superando definitivamente i vincoli assurdi della legge Fini-Bossi, affrontasse in modo organico e senza pasticci demagogici (come quelli in cui si è esibita la sinistra nella vicenda della nazionalità automatica ai figli degli immigrati) un problema di fondamentale importanza per il futuro del Paese. La mia posizione in proposito è nota ai miei pochi e pazienti lettori ma, alla luce di quanto sta avvenendo, dovremo riparlarne.

Sul “decreto dignità”, frettolosamente varato da Di Maio in luglio con l’intento di guadagnare il consenso dei tanti precari che lavorano talvolta in condizioni indegne, è calato un imbarazzato silenzio dopo la bocciatura arrivata da imprenditori e sindacati. Si vedrà nei prossimi mesi se gli effetti saranno quelli auspicati dal movimento di Di Maio o invece un aumento della disoccupazione e del lavoro nero, come sostengono i suoi oppositori.
Ma l’aspetto più grave del provvedimento è costituito dall’inserimento precipitoso nella legge di una drastica normativa che elimina di fatto la prescrizione nei giudizi penali senza tenere conto della complessità del problema. Che la prescrizione andasse modificata (e in parte già lo avevano fatto i governi precedenti) è opinione largamente condivisa, anche sulla scia dell’indignazione mediatica che ha accompagnato alcune scandalose assoluzioni di Berlusconi (a cui va ricondotta la fretta dei Cinque Stelle di esibire il provvedimento come un’immediata soddisfazione per l’opinione pubblica), ma si tratta di un cambiamento da inquadrare in una più ampia riforma della giustizia anche per evitare alcune possibili ricadute negative sullo stato di diritto (e in particolare sulla certezza dei tempi dei processi). Ma, ancora una volta, ciò che contava di più era sventolare la bandiera del cambiamento anche se tutti sanno che su questo provvedimento (come su altri) le correzioni saranno inevitabili, come a gran voce chiede la stessa magistratura.

Un’altra bandiera dei “Cinque Stelle” era l’avversione alle cosiddette “grandi opere” e alle imprese inquinanti. In questo campo la ritirata è stata clamorosa: sull’Ilva di Taranto si è dovuto chiudere la partita con un accordo quasi identico a quello che già il precedente ministro Calenda aveva siglato con l’acquirente Arcelor Mittal, sul terzo valico tra Genova e il Piemonte si è dovuto ammettere che è vitale per il futuro del porto di Genova, il terminale dell’oleodotto TAP in Puglia è stato improvvisamente autorizzato smentendo le promesse fatte in campagna elettorale (impedirne la realizzazione avrebbe comportato penalità eccessive: ma non era prevedibile?).
Resta la TAV in val di Susa, diventata ormai una logora bandiera ideologica che nulla ha a che fare con una seria valutazione dell’opera, ma che per l’ala “movimentista” dei Cinque Stelle rappresenta l’ultima trincea della sua avversione alle grandi opere “inutili”. E’ già chiaro tuttavia come andrà a finire (anche per la pressione della Lega): si scoprirà una cosa che sanno tutti, che non farla costa troppo, e con questa scusa dopo le elezioni europee si procederà come per il TAP pugliese.

Sul condono fiscale, benevolmente ribattezzato “pace fiscale”, e sugli aerei militari F35 (entrambe questioni su cui i Cinque Stelle avevano dichiarato la loro opposizione) la resa di Di Maio è stata totale; nel primo caso a Salvini, nel secondo al governo americano che già in occasione dell’incontro di Conte con Trump aveva espresso le sue “preoccupazioni”.

Rispetto alla politica estera
Anche nelle relazioni internazionali si è assistito ad alcuni sbandamenti, ma dobbiamo al ministro Moavero, il quale si è mosso in piena sintonia col presidente della Repubblica e con lo stesso presidente del Consiglio Conte, se a certe incaute dichiarazioni dei due vice-premier non sono seguiti fatti che avrebbero costituito una rottura della tradizionale politica estera dell’Italia. Da settant’anni in Italia cambiano i governi e le maggioranze ma il contesto internazionale in cui la nostra politica estera è incardinata resta caratterizzato dalla partecipazione all’Alleanza Atlantica e dalla presenza attiva nell’Unione Europea. I maldestri tentativi (soprattutto da parte di Salvini) di rimetterne in discussione gli equilibri fantasticando improbabili assi preferenziali con la Russia di Putin o con i paesi meno “europeisti” del cosiddetto gruppo di Visegrad sono stati accantonati. Mi pare quindi che i cambiamenti ipotizzati dalla nuova maggioranza contro “l’Europa dei burocrati” e il militarismo americano che dovevano portare a una rinegoziazione del trattato di Maastricht e a una revoca unilaterale delle sanzioni alla Russia, siano stati quanto meno rinviati a data da destinarsi.

Rispetto alle forze produttive
Il cambiamento promesso alle forze produttive (soprattutto dalla Lega) al di là dei provvedimenti marginali contenuti nella manovra in linea di sostanziale continuità con quanto già fatto dai governi di Renzi e Gentiloni, consisteva essenzialmente nell’introduzione della “flat tax”. Si può discutere della effettiva validità della sua adozione, della sua costituzionalità, della sua opportunità, ma non vi è dubbio che si trattasse di un cambiamento fiscale rilevante indirizzato a incoraggiare gli investimenti e quindi l’occupazione. La proposta era molto popolare negli ambienti delle piccole e medie imprese anche per le semplificazioni burocratiche che avrebbe consentito, ma si è subito visto che, al di là dei suoi contenuti, essa comportava un onere non compatibile con il contemporaneo avvio del “reddito di cittadinanza” e della riforma pensionistica. Messo di fronte alla scelta tra un favore ai pensionati e un vantaggio per gli imprenditori Salvini non ha avuto dubbi: ha privilegiato il consenso immediatamente monetizzabile in termini di consenso elettorale, cioè le pensioni anticipate. Una scelta che, anche se edulcorata da alcune facilitazioni alle partite IVA di minore importo e da incentivi per nuove assunzioni derivate dai pensionamenti anticipati, mette chiaramente in evidenza la pericolosità di una riforma che per venire incontro a un numero di pensionati che forse sarà più basso del previsto, incrementerà probabilmente l’economia sommersa e danneggerà le imprese. Le quali infatti hanno immediatamente fatto sentire il loro malumore in termini talmente espliciti da suonare per la Lega come un vero e proprio campanello d’allarme.

In conclusione
Il governo del “cambiamento” finora di reali inversioni rispetto ai predecessori ne ha fatte poche, più formali che sostanziali, e quelle poche accompagnate da dubbi e perplessità che non provengono solo dall’Europa e dai mercati ma anche dalle forze produttive del nostro Paese e da segmenti significativi della stessa maggioranza. Ma intanto la politica delle dichiarazioni contraddittorie e roboanti (a imitazione dei tweet di Trump) ha prodotto danni non ancora quantificabili che – secondo alcuni analisti – hanno riguardato soprattutto l’emigrazione di capitali costituiti dal risparmio privato degli italiani.
Mai come adesso vale il proverbio che “il silenzio è d’oro”.

 

Franco Chiarenza
4 gennaio 2019