Due anni fa è uscito un libro molto interessante che segnalo solo oggi con consapevole ritardo ma nella certezza della sua attualità. Si tratta di una biografia dell’imperatrice Cixi la quale di fatto ha governato la Cina nel fondamentale periodo della tormentata transizione dalla tradizione secolare che teneva immobile il grande paese asiatico alla modernità che irrompeva attraverso la politica aggressiva delle potenze occidentali.
Il libro, piuttosto ponderoso, si legge tuttavia come un romanzo e immerge il lettore nell’atmosfera straordinaria della corte imperiale, nei suoi riti, nelle congiure di palazzo, e fa capire perché in Cina è fallito il tentativo – che pure vi fu – di un innesto democratico secondo modelli occidentali (Sun Yat-sen) e come fosse inevitabile una soluzione di potere autoritaria impersonata prima dal nazionalismo di Ciang Kai Scek e poi dal comunismo totalitario di Mao Ze Dong.
L’autrice Jung Chang non riesce a nascondere la sua simpatia per la protagonista della storia, l’imperatrice Cixi, e ne mette in risalto la forza di carattere che ha accompagnato le complesse vicissitudini della sua esistenza, anche quando emergono dalla narrazione stessa i gravi errori compiuti da questa donna che ha avuto in mano i destini della Cina ma, per i condizionamenti culturali che il libro descrive bene, non ha saputo tempestivamente indirizzare nella giusta direzione i destini del suo grande impero.
Come sempre la conoscenza della storia aiuta a comprendere il presente; leggendo questa affascinante biografia si capisce qualcosa di più della Cina di oggi.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2017

 

Jung Chang – L’imperatrice Cixi – Longanesi, Milano 2015 – (pag. 440 – euro 20)

Al di là della comprensibile preoccupazione per i giochi missilistici del padre padrone della Corea del Nord condivisa da ogni persona ragionevole ho l’impressione che l’immagine prevalente in Occidente di un bambino incosciente che gioca con i fiammiferi e che basti un intervento un po’ rude del papà cinese per rimettere le cose a posto (che sembra anche la convinzione di Trump) sia poco convincente.

Alcune domande
Alcune domande si pongono ineluttabilmente: 1) come ha fatto un piccolo paese poverissimo alle prese pochi anni fa con carestie catastrofiche a cui hanno dovuto far fronte aiuti internazionali (anche occidentali) a mettere in piedi non la fabbricazione di una bomba atomica (ormai alla portata di qualunque paese che abbia voglia di investirvi le risorse necessarie) ma la costruzione e il lancio di missili balistici intercontinentali tecnologicamente avanzati e tali da minacciare addirittura lo stesso territorio nord-americano? 2) quali sono le reali finalità di questa ostentata provocazione? Affermare lo “status” di potenza nucleare? E a quale scopo? Difendersi da un’invasione americana è una risposta propagandistica che non ha alcun fondamento perché la sopravvivenza della Corea del nord dipende esclusivamente dalla garanzia cinese (così come quella della Corea del sud non potrebbe rinunciare alla protezione americana).
Cui prodest, a chi giova in realtà tutto questo?

Guardare lontano
La risposta a queste domande non è facile. In apparenza tutto sembra confermare che si tratti dei giochi pericolosi di un dittatore megalomane: la Cina, almeno a parole, prende le debite distanze e accetta le sanzioni decretate dall’ONU contro la Corea del nord, la Russia non sembra particolarmente interessata (almeno per ora), non si vede chi altro voglia aiutare un regime ormai contestato anche dai fratelli e cugini ancora formalmente comunisti, né si comprende quali reali vantaggi verrebbero a Kim Jong-un dal far parte del cosiddetto “club nucleare” (nel quale vi sono paesi come il Pakistan senza che ciò incida significativamente sul loro ruolo internazionale).
Proviamo però a guardare lontano cercando di indovinare le mosse della grande partita a scacchi che si gioca sul futuro in Estremo Oriente (e da lì nel mondo intero). L’obiettivo della Cina, una volta accettato il sistema capitalistico fino a farsene paladina contro il neo-protezionismo di Trump, come è avvenuto al recente vertice dei paesi del Pacifico a Da Nang, è quello di eliminare l’influenza americana e di assumere la leadership dell’intero scacchiere. Per far questo occorre indebolire il Giappone e minarne la stretta alleanza con gli Stati Uniti, impedire la riunificazione della Corea sul modello filo-americano di Seul, riannettersi Taiwan secondo le regole imposte a Hong Kong. A quel punto il gigante cinese potrebbe giocare la partita ad armi pari con i paesi del Sud Est asiatico (india, Pakistan, Indonesia) isolando sostanzialmente le nazioni eredi della tradizione britannica (Australia e Nuova Zelanda) difficilmente assimilabili ma ridotte in termini geo-politici all’impotenza.
La politica non si fa con la fantapolitica, potrebbe obiettare qualcuno. Anche perché se c’è davvero un burattinaio che tira i fili senza esporsi non può ignorare i rischi di una recita così provocatoria. Ma in realtà gli americani, al di là di un probabile riarmo del Giappone e della Corea del sud (su cui qualche apprensione sarebbe giustificata), poco possono fare: non certo una reazione nucleare sproporzionata e con pesanti coinvolgimenti della popolazione civile, e nemmeno un intervento militare di tipo tradizionale perché la Cina non potrebbe mai consentirlo. Dimostrare che gli Stati Uniti sono soltanto una “tigre di carta” (come già ebbe ad affermare Mao Ze Dong tanti anni fa) avrebbe un significato da non sottovalutare soprattutto in Oriente dove l’immagine conta talvolta più della sostanza. Le reazioni scomposte di Trump servono soltanto ad amplificarne il senso di impotenza (“se stanno mettendotelo nel didietro – recita un proverbio esplicito nella sua volgarità – meglio stare fermi; agitarsi non risolve il problema e aumenta il dolore”). Chiedere aiuto alla Cina, se è vera la mia ipotesi, è solo un’ingenuità. E’ certo invece che un indebolimento americano, anche soltanto di immagine, non può che giovare alla Cina. D’altronde la presidenza di Trump, confusa, velleitaria, ma orientata in maniera ormai evidente ad abbandonare le ragioni morali e di principio su cui gli Stati Uniti dopo la guerra avevano fondato la loro egemonia – culturale prima che politica, militare ed economica – sembra avere accettato una riduzione anche drastica del suo ruolo in Estremo Oriente, e ciò non può che avere incoraggiato il dittatore nord-coreano e i suoi eventuali occulti protettori.

Fantasie? Come diceva l’ineffabile Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.

Franco Chiarenza
30 novembre 2017

L’idea era buona, la realizzazione un po’ meno. Sintetizzare alcuni momenti fondamentali della nostra storia attraverso cento fotografie commentate da storici illustri è l’idea alla base di questo libro recentemente apparso in libreria; ma il risultato appare per molti versi un’occasione perduta.
Non tanto per il comprensibile sconcerto che si prova con la prima fotografia che ritrae i famosi nudi taorminesi di Von Gloeden, i quali peraltro rappresentano l’occasione per raccontare l’immagine che dell’Italia si aveva nella borghesia nord europea ancora condizionata da stereotipi estetizzanti e vagamente sociologici che appartenevano alle esperienze del grantour, ma perché simboleggia una scelta delle immagini che per non volere essere banale e prevedibile cade tuttavia spesso nell’insignificanza.
I testi di commento, necessariamente sintetici (ottima scelta quella di ridurli allo spazio quasi giornalistico di una sola pagina a fronte delle foto), sono improntati a chiarezza e attenzione ai fatti, come si conviene a storici seri e consapevoli della dimensione sostanzialmente divulgativa del libro, con la sola eccezione dell’ultima parte (1980-2017) affidata purtroppo a Giovanni De Luna il quale ha trasformato la narrazione dei fatti in un comizio ideologico appena dissimulato. Non per nulla De Luna proviene dalla cultura comunista di “Potere Operaio” e si capisce quindi quanto distorta possa essere la sua lettura di fatti che ha vissuto come testimone in causa. Ma poiché l’interpretazione della realtà contemporanea può avere letture diverse e contrastanti sarebbe stato forse meglio affidarne la scrittura a uno storico personalmente meno coinvolto e in grado di astenersi da parzialità così evidenti. Non ne mancano, a cominciare dagli altri che sono stati utilizzati nel libro per la stesura dei testi precedenti: Vittorio Vidotto, Emilio Gentile e Simona Colarizi.

 

Franco Chiarenza
29 novembre 2017

 

Vittorio Vidotto, Emilio Gentile, Simona Colarizi, Giovanni De Luna – Storia d’Italia in 100 foto – immagini a cura di Manuela Fugenzi – Laterza (Bari-Roma 2017) – pag.224, euro 22 

Leggo sempre con interesse i libri di Massimo Teodori con il quale – non da oggi – trovo significative contiguità culturali e politiche: “Il vizietto cattocomunista” pubblicato due anni fa ma che ho finito di leggere solo da pochi giorni non fa eccezione.
Teodori ripercorre in questo suo scritto il filo rosso di continuità che nella politica italiana ha sempre tenuto insieme i cattolici di sinistra e i comunisti, anche quando erano costretti a interpretare parti in conflitto quasi sempre determinate da vincoli internazionali che condizionavano le scelte dei governi e dell’opposizione della prima repubblica. E identifica questo “comune sentire” in due filoni principali, quello della prevalenza dell’interesse collettivo sui diritti individuali e l’altro – ad esso conseguente – del dirigismo economico. Una convergenza che univa le due “chiese”, la cattolica e la comunista, in una comune concezione del potere sostanzialmente paternalistica tendente per sua stessa natura ad escludere il dissenso, mentre le società liberali si caratterizzano al contrario per avere istituzionalizzato il dissenso e con ciò il pluralismo politico e l’alternanza del potere.
Il libro serve a noi che abbiamo vissuto quegli anni come utile pro-memoria di fatti che col tempo sembrano avere perduto di attualità mentre – come dimostra l’autore – riemergono come una costante che, nonostante le camaleontiche trasformazioni, può essere ancora proposta come chiave di interpretazione di avvenimenti contemporanei; e serve ai giovani per comprendere meglio la logica sottesa di alcune pagine di storia altrimenti incomprensibili.
Certo, avrei preferito che le tesi contenute nel libro di Teodori fossero espresse in toni più distaccati; in alcuni punti lo scritto somiglia più a un polemico pamphlet che non a un contributo storiografico, non senza qualche forzatura interpretativa che ho trovato “esuberante”.
In ogni caso il libro nella sua consecutio, seppure talvolta un po’ sommaria, rappresenta un utile contributo alla comprensione della “vera anomalia italiana” che consiste in quell’intreccio di culture profondamente illiberali che hanno segnato tanta parte della nostra storia più recente e che ancora oggi impedisce al nostro Paese di allinearsi in modo convinto ai parametri culturali liberali che costituiscono la base delle democrazie occidentali.

 

Franco Chiarenza
28 novembre 2017

 

Massimo Teodori – Il vizietto cattocomunista – Marsilio, Venezia 2015 – (pag. 164, euro 14)

Finalmente Veltroni l’ha detto. La sinistra è in preda a convulsioni che non accennano a diminuire perché ci troviamo di fronte a una “resa dei conti”. Una resa dei conti che parte da lontano e parte proprio da lui – da Veltroni – quando il suo progetto di costruire un nuovo partito democratico che finalmente tagliasse i residui legami con l’eredità comunista e si proponesse come una grande forza in grado di raccogliere consensi anche in quel serbatoio dell’elettorato di centro che pure in Italia – come altrove – rappresenta sempre l’ago della bilancia elettorale, fu contestato e affondato dall’ala sinistra rappresentata da D’Alema e Bersani, preoccupati che i tempi necessariamente lunghi di una rivoluzione palingenetica come quella proposta da Veltroni comportasse una rinuncia alle proprie origini e probabilmente – almeno in tempi brevi – una sconfitta elettorale.
Il conflitto è continuato riproponendosi con Renzi che del progetto veltroniano aveva colto il punto essenziale, sia pure con modi e toni indisponenti che certo non appartenevano al vecchio leader. E ancora una volta la vecchia sirena del “far qualcosa di sinistra” (anche se sbagliata) ha ripreso a suonare appigliandosi alla scarsa disponibilità del giovane segretario al “dialogo”. Anche se bisogna ricordare che “non essere disponibili al dialogo (o al confronto)” nel linguaggio della sinistra italiana significa non accettare la resa incondizionata alle idee della minoranza, sia essa politica o sindacale. E in effetti Renzi, pur avendo recentemente cambiato forma nei modi (che spesso in politica diventano sostanza) non sembra disponibile a cedere sul merito delle scelte programmatiche su cui ha caratterizzato il proprio governo (e che rappresentano anche la continuità del governo Gentiloni). Qualche incidente di percorso c’è stato, per esempio nel modo perentorio e ostinato con cui Renzi ha cercato di imporre una soluzione discutibile a una questione delicata come lo jus soli, e la successiva aggressione alla Banca d’Italia al momento del rinnovo del governatore, casi entrambi che hanno creato imbarazzo e difficoltà a Gentiloni e su cui un atteggiamento più soft avrebbe probabilmente sortito effetti più soddisfacenti.

L’eredità di Veltroni
Veltroni ha quindi ragione ma anche torto. Ha ragione quando denuncia che si tratta essenzialmente di una resa dei conti, ma ha torto se ritiene che si tratti di una questione personale. Non lo è oggi e non lo è stato ieri. Ed è per questo che i tentativi dei “pontieri” variamente configurati (come Fassino e Pisapia) sono destinati probabilmente a naufragare; e se dovessero riuscire si fonderebbero su compromessi ingestibili che mostrerebbero la corda già poche ore dopo le elezioni. Ha quindi ragione Roberto Speranza, giovane leader degli oltranzisti di sinistra? Credo di sì.
Il progetto del PD renziano (che peraltro comprende un fronte che va ben oltre il segretario) consiste essenzialmente in un programma socialdemocratico (anche se il termine è impronunciabile nei salotti della sinistra) fondato su un rilancio della produttività come condizione per la ripresa dell’occupazione (anche a costo di qualche attenuazione dei diritti dei lavoratori) nella consapevolezza che il modello sociale del passato fondato su un lavoro stabile e permanente non rappresenta più un obiettivo conseguibile per le trasformazioni profonde che il sistema capitalistico ha avuto in tutto il mondo; trasformazioni ancora in corso e che faranno emergere nuovi problemi con i progressi dell’automazione. In un contesto siffatto le protezioni sociali dovranno essere rafforzate ma anche modificate per essere funzionali al cambiamento, l’intervento dello Stato dovrà essere concentrato sulla costruzione del futuro attraverso la formazione e la ricerca, le grandi infrastrutture, l’eliminazione delle corporazioni, tutto ciò che serve a rendere attrattivi gli investimenti perché solo così si creano nuove opportunità di lavoro qualificato per i nostri giovani. Una prospettiva che guarda lontano e nel cui contesto l’appartenenza all’Europa non soltanto non può essere messa in discussione ma anzi rappresenta un’opportunità da rafforzare anche per fare fronte ai grandi cambiamenti sociali che si prospettano a livello mondiale e che comporteranno certamente anche una forte conflittualità politica. In questo quadro la questione degli immigrati va affrontata senza cedere a paure irrazionali in una visione del problema che guardi al futuro non soltanto in Africa ma anche da noi dove la contrazione della natalità comincia a far sentire i suoi effetti che diventeranno travolgenti nei prossimi vent’anni.

Progetti incompatibili
Se davvero questo è in sostanza il progetto di Renzi si tratta di una prospettiva su cui anche chi proviene da matrici culturali liberali può trovare delle convergenze ma che poco ha a che fare con una sinistra che mette al centro dell’attenzione il disagio sociale (sicuramente esistente) pensando di risolverlo con un aumento della spesa pubblica senza considerare gli effetti dirompenti che tale politica avrebbe sul piano internazionale e nella percezione della solvibilità del sistema Paese; come se non avessimo già visto come è andata a finire in Grecia dove Tsipras, andato al potere sull’onda di una protesta populista e anti-europea, ha dovuto andare a Canossa per interrompere un processo di insolvenza già in corso ottenendo soltanto così, dopo due anni di sacrifici e con l’aiuto dell’Europa, una ripresa consistente dell’economia la cui crescita quest’anno supera di un punto quella tanto sbandierata del nostro Paese. Se la sinistra pensa in questo modo di recuperare almeno una parte dell’elettorato scivolato nel territorio grillino si illude. Il successo di Grillo è dovuto solo parzialmente alle condizioni economiche e sociali del Paese mentre trova il suo fondamento nell’inaffidabilità e nella perdita di credibilità della classe dirigente dei partiti tradizionali (di cui Bersani e D’Alema fanno parte) dimostrate dalla corruzione endemica, dalla incapacità progettuale, dall’arrogante mantenimento di privilegi inaccettabili, dalla mancanza di una cultura di governo fondata sulla manutenzione, cioè quegli aspetti che per molti possono sembrare politicamente insignificanti ma che invece indirizzano molta parte dell’opinione pubblica e che sono anche alla base di una astensione elettorale che ha ormai raggiunto le dimensioni di una protesta di massa.

Quale maggioranza per il futuro?
A questo punto ci si domanda: se – come è prevedibile – dalle elezioni non uscirà una chiara maggioranza di governo sarà possibile trovare a sinistra quell’accordo di programma che è stato inutilmente cercato prima? E sarà numericamente sufficiente?
E se una maggioranza di centro-sinistra (o di centro-destra) non sarà possibile quale sarà lo scenario prevedibile? Grillo cambierà atteggiamento, e in favore di chi? Oppure si profila un’intesa Renzi-Berlusconi in nome del superiore interesse del Paese, magari patrocinato dal Quirinale, come molti commentatori prevedono? In questo caso però ci sarebbe il rischio che buona parte dell’elettorato non capirebbe e forse sarebbe meglio andare a nuove elezioni, magari con un diverso sistema elettorale che garantisca la governabilità (per esempio l’uninominale senza ballottaggio).
Ma è presto per fare previsioni; la data delle elezioni non è stata ancora fissata e molte cose possono ancora succedere.

 

Franco Chiarenza
27 novembre 2017

Non sapendo come differenziarsi in maniera comprensibile e senza utilizzare quei linguaggi criptici e quelle affermazioni generiche che richiamano i riti partitocratici del passato, la sinistra alternativa per smentire la calunnia che la propria alterità consista soltanto in una avversione personale nei confronti di Renzi, ha riesumato il fatidico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato in maniera sostanziale dal cosiddetto Jobs Act varato dal governo nel 2015. Per tornare a discutere di un eventuale accordo elettorale la sua restaurazione nella forma originaria sembra essere per questi movimenti conditio sine qua non, venendo così incontro alla richieste della CGIL che prosegue senza esitazioni nella sua lotta contro ogni forma di flessibilità nel lavoro.

Un feticcio ormai superato?
Molti politici e qualche economista sostengono che quello dell’articolo 18 sia un problema ormai scarsamente rilevante e che hanno torto coloro che lo sventolano come una bandiera (ormai un po’ consunta) ma anche quanti hanno pensato che eliminando i licenziamenti senza giusta causa (ché di questo sostanzialmente si tratta) sarebbero tornati gli investimenti e con essi nuovi posti di lavoro. Ragionamento che di fatto suggerisce di essere condiscendenti su tale questione se questo è il prezzo da pagare per un’intesa tra le diverse componenti della sinistra.
Se con ciò si intende affermare che le cause della disoccupazione sono altre e riguardano questioni complesse a cui non si è mai seriamente messo mano (formazione non corrispondente alla domanda, sperequazioni regionali, scarsa attrattività per gli investimenti industriali, eccesso di controlli e ostacoli burocratici, difesa di interessi corporativi, ecc.) chi sostiene tale tesi ha perfettamente ragione. Ma davvero l’articolo 18 è un residuo ideologico del passato che si può trattare con indifferenza per la sua sostanziale irrilevanza?
In realtà, a quanto mi hanno spiegato diversi imprenditori, il problema non riguarda tanto le grandi e medie imprese (quelle, per intenderci, che superano i cento dipendenti) dove in effetti i diritti dei lavoratori sono abbastanza garantiti, i contratti di lavoro vengono rispettati, e i tempi delle discriminazioni politiche (che avevano allora spinto all’adozione dell’art. 18) sono finiti da un pezzo. Diversa invece è la situazione delle piccole imprese, soprattutto di quelle dove la dimensione quasi artigianale ancora consente un contatto diretto della proprietà con i lavoratori; in esse il venir meno dell’elemento fiduciario, comunque motivato (non sempre con ragioni dimostrabili giuridicamente) rende impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Ecco perché la trasformazione del diritto automatico alla riassunzione in indennizzo economico è stato accolto con favore e non ha suscitato, se non in alcuni elementi legati alla CGIL, particolari reazioni negative.
Il mantenimento del Jobs Act, quindi, al di là di qualche aggiustamento marginale, è fondamentale per il sistema imprenditoriale italiano (notoriamente costituito da aziende di dimensioni medio-piccole) e coinvolge un punto qualificante del programma di Renzi tendente a diminuire la conflittualità sindacale e consentire un aumento della produttività, unica seria ricetta per richiamare gli investimenti (e quindi creare nuovi posti di lavoro).

Politiche del lavoro
Di “politiche del lavoro” tutti si riempiono la bocca, ma quando si arriva al dunque le misure proposte appaiono incongrue perché non affrontano il problema alla radice.
Il dilemma è semplice e le forze politiche farebbero bene a renderlo chiaro prima delle elezioni politiche: la globalizzazione è quello che è, può piacere o no, ci ha dato internet con tutte le sue applicazioni, ha aumentato i consumi, ha mantenuto bassi i prezzi. La libera circolazione dei capitali e delle persone però ha anche prodotto una competizione che, in mancanza di una efficace regolamentazione internazionale, genera un aumento della precarietà e una diminuzione dei posti di lavoro non qualificati; tendenza che sarà rafforzata dalle nuove tecnologie robotiche che nei prossimi anni sostituiranno molta mano d’opera non specializzata.
Si può rifiutare la globalizzazione? Certamente sì ma bisogna comprenderne le conseguenze che non sono quelle che i populisti in cerca di facili consenso fanno credere. Chiudersi nei propri confini e regolare con dazi, dogane, accordi bilaterali, la circolazione di persone e merci comporta una probabile diminuzione delle esportazioni, la fuga di molti capitali all’estero, e, in tempi non molto lunghi, un aumento dei prezzi al consumo e una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie; inoltre per compensare la diminuzione dell’iniziativa privata e per garantire quella sicurezza del posto di lavoro che i demagoghi hanno promesso è probabile che si dovrà allargare ulteriormente l’intervento pubblico. Insomma c’è il rischio concreto che – realizzando il sogno di Zalone – finiremo tutti felicemente poveri ma con la certezza di un posto fisso (pubblico naturalmente).

Europa
Io sono europeista per ragioni ideali, culturali, politiche e via enumerando. Ma quello che mi stupisce è che ci siano ancora tanti che invece di vedere nell’Europa la soluzione dei problemi che ci mettono in balìa di una globalizzazione incontrollabile, la considerano un nemico da rimuovere per rifugiarsi nelle proprie presunte certezze nazionali – e magari regionali – senza capire che al di fuori di sistemi che garantiscono e regolano il libero scambio sarebbero condannati a subire le decisioni e le regole imposte da chi, per dimensioni, per potenza finanziaria, per influenza politica internazionale, è in grado di farlo.
La soluzione del problema quindi, se vogliamo mantenere quanto abbiamo e trasmettere ai nostri figli qualche certezza, è duplice: fare pulizia a casa nostra (non soltanto su corruzione e malavita) e portare avanti il processo di integrazione europea; qualcuno non ci sta? Avanti lo stesso, vedrete che prima o poi si accodano scodinzolando.

 

Franco Chiarenza
13 novembre 2017

La vera novità di questo inizio di campagna elettorale che stiamo vivendo è la discesa in campo di Pietro Grasso. La candidatura del presidente del Senato si rivelerà probabilmente determinante per lo schieramento di sinistra per diversi motivi:

  1. si tratta di una personalità che per prestigio istituzionale può in qualche misura superare i veti reciproci tra PD e MDP.
  2. facendo asse con Giuliano Pisapia, Laura Boldrini e forse Luciano Violante può rappresentare il perno di un virtuale comitato di garanti con la benedizione dei padri nobili della sinistra, Walter Veltroni e Romano Prodi.
  3. può costituire motivo di attrazione nei confronti di forze collaterali come il movimento per gli Stati Uniti d’Europa messo in campo da Emma Bonino.
  4. può contare probabilmente di appoggi mediaticamente significativi come quello di Roberto Saviano.
  5. infine last but not least può utilizzare la propria immagine di ex procuratore nazionale anti-mafia per contrastare la campagna dei Cinque Stelle che, come sempre, punterà su una generica damnatio di tutta la classe politica.

Rose e spine
Naturalmente non saranno rose e fiori; al contrario, le spine sono molte e si faranno sentire. Renzi rischia di restare confinato in un angolo anche perché Grasso, nelle sue prime mosse, non gli ha fatto sconti ritenendolo responsabile della crisi del PD. Già in difficoltà dovendo impostare una campagna elettorale alternativa alla destra ma sapendo che probabilmente dopo le elezioni con essa, o con una sua parte, dovrà fare i conti, cerca disperatamente di raccogliere consensi su temi tipicamente populisti come quello dell’avversione alle banche (fino al contrasto esibito muscolarmente con la Banca d’Italia), senza tenere conto dei rischi istituzionali che ciò comporta e della debolezza inevitabile di un discorso fatto da chi per parentele ed amicizie con banche in difficoltà ha avuto a che fare.
Anche per ciò che riguarda il programma la pretesa dell’estrema sinistra di rimettere in discussione il jobs act e la riforma scolastica Giannini (senza parlare delle pensioni e di altri temi su cui la pubblica opinione vibra con sensazioni diverse e spesso opposte) non consente molti margini di manovra per un accordo. Resta l’esigenza di un’unità delle sinistre che la legge elettorale rende imprescindibile anche a costo di riserve mentali pronte ad esplodere un’ora dopo aver conosciuto i risultati elettorali, seguendo la strategia che Berlusconi ha imposto al centro-destra. Una strategia utile per vincere e arginare l’ondata dei Cinque Stelle ma non per governare il Paese e compiere le scelte difficili che lo attendono.

Scenari
E’ presto per andare oltre nelle previsioni. Certo è che rischia di venir meno quel progetto varato alla “leopolda” nel quale Renzi si proponeva al governo del Paese trasformando il partito democratico in un “partito della Nazione” sulla base di principi sostanzialmente liberali sia in economia (difesa dell’economia di mercato con regole severe che ne tutelino il corretto funzionamento, rimozione delle corporazioni che inceppano lo sviluppo del Paese, fisco orientato a favorire la produttività) che in politica estera (maggiore integrazione europea) e nella formazione (scuola e università che premino il merito). Un percorso su cui il governo Renzi si è faticosamente inoltrato, andandosi però a fracassare su una riforma costituzionale frettolosa, mal costruita e senza tenere conto che il patto con l’opposizione (patto del Nazareno) per riformare le istituzioni attraverso scelte condivise poteva funzionare soltanto comprendendovi l’elezione del Capo dello Stato e soprattutto rinunciando a quei toni spavaldi da piccolo Cesare che hanno costituito parte rilevante della sua rovina.

 

Franco Chiarenza
10 novembre 2017