Mondarte, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Un mese fa moriva Benedetto XVI. La sua scomparsa ha ovviamente riacceso l’attenzione su questo personaggio che, tra le altre ragioni, passerà alla storia per essere stato dopo molti secoli il primo pontefice ad abdicare, lasciando campo libero ai suoi contestatori che infatti non persero tempo a innestare una marcia diversa nella guida della Chiesa (se avanti o indietro dipende dai punti di vista) chiamando alla cattedra di San Pietro quanto di più diverso da lui si potesse immaginare, Jorge Mario Bergoglio.
Gli analisti, i vaticanisti, gli esperti di religione si sono sbizzarriti come non mai, ma a me liberale la vicenda interessa soltanto per le ricadute politiche e sociali che può determinare (come d’altronde ogni altra questione che riguarda il perimetro religioso).

L’eredità di papa Giovanni
Per comprendere quanto è avvenuto e ancora potrebbe accadere nella trasformazione del cattolicesimo romano (che del cristianesimo – non dimentichiamo – è soltanto una parte, anche se la più consistente) bisogna risalire alla rivoluzione provocata negli anni ’50 del secolo scorso da papa Roncalli il quale in soli cinque anni attraverso l’autorità di un concilio universale (Vaticano II) impose una svolta che liberava la Chiesa dal settarismo dogmatico della tradizione tridentina, ancora dominante col suo predecessore Pio XII, aprendola al dialogo e alla tolleranza e, in sostanza, ai valori della civiltà liberale (pluralismo, democrazia, dialogo inter-religioso) che ancora pochi anni prima Pio XI (quello che aveva definito Mussolini “uomo della Provvidenza”) bollava con parole di fuoco.
Fu allora che si delineò uno scontro decisivo ai vertici della Chiesa che provo a riassumere in modo semplice (che giustamente i teologi e gli esperti troveranno superficiale e approssimativo); uno scontro dai cui esiti sarebbero dipese importanti ricadute politiche nei paesi a forte presenza cattolica (ed è per questo che ce ne interessiamo). La Chiesa doveva cambiare la sua essenza, anche a costo di modificare tradizioni secolari, per diventare un interlocutore credibile del mondo moderno, oppure chiudersi nelle sue certezze dogmatiche e continuare la sua opposizione a ogni forma di relativismo implicita nella concezione liberale? Il Concilio, anche per la spinta dei vescovi che venivano da realtà distanti da Roma e dall’Europa, non ebbe dubbi nella scelta che fu poi sostanzialmente proseguita (con qualche sussulto ma in sostanziale coerenza) dal papato di Montini e dalla attiva presenza del cardinale Martini. Ma una parte importante del clero temeva che la strada imboccata dal Concilio portasse alla “protestantizzazione” del cattolicesimo e alla perdita dei valori morali su cui la Chiesa cattolica fondava le sue pretese egemoniche; alla morte di Paolo VI queste preoccupazioni prevalsero e la scelta del successore cadde su un cardinale polacco morbido e accattivante nella forma, rigido e reazionario nella sostanza, Giovanni Paolo II, la cui ombra in materia dottrinale era il cardinale Ratzinger che puntualmente (oserei dire inevitabilmente) fu eletto papa alla sua morte, prevalendo in conclave sul cardinale Bergoglio che già allora Martini e i cardinali a lui vicini avrebbero preferito.

Il cortile dei Gentili
Ratzinger non era uno sprovveduto e tanto meno poteva ignorare i complessi ingranaggi della Curia romana, anche nei loro aspetti meno trasparenti, se non altro per averne fatto parte nel ruolo fondamentale di prefetto del Santo Uffizio (ribattezzato Congregazione per la dottrina della fede) per 25 anni. Le sue impreviste dimissioni nel 2013 non potevano dipendere dal disgusto per gli scandali che agitavano il Vaticano, come si volle far credere; furono invece la conseguenza della sconfitta del teorema dottrinale che Benedetto XVI aveva cercato di accreditare per bloccare la trasformazione messa in atto dal Concilio.
I segnali erano stati chiari (per chi voleva vederli) sin dall’inizio: la canoniozzazione di Roncalli fu bloccata, per converso quella di papa Pacelli (opportunamente avviata su un binario morto dai suoi predecessori) riprese vigore, la messa in latino (simbolo della tradizione di incomunicabilità che risaliva al concilio di Trento) parzialmente restaurata, ecc. Ma non si trattò soltanto di fermare un processo di modernizzazione dell’istituzione ecclesiale, si cercò soprattutto di indicare una possibile alternativa al Vaticano II che risolvesse in qualche modo il problema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo moderno, di cui Ratzinger – osservatore attento e intelligente delle trasformazioni sociali – era ben consapevole.
In cosa consisteva la proposta di papa Benedetto? Premesso che è difficile per me e quanti non hanno la preparazione necessaria, inoltrarsi nel labirinto delle verità religiose, irrazionali per definizione, io l’ho capita così, e anticipo subito di averla trovata, per come l’ho letta, molto interessante e tutt’altro che banale, e comunque lontana dalle semplificazioni a cui si sono abbandonati alcuni commentatori.
La chiave di lettura sta nel ben noto esempio del “cortile dei Gentili”, fondamentale nella predicazione di San Paolo di Tarso (e non a caso rievocato più volte da Ratzinger). In cosa consiste? Nella negazione (allora rivoluzionaria) del carattere esclusivo e identitario delle religioni. I cristiani non dovevano chiudersi nelle loro certezze fideistiche (come facevano gli ebrei) ma aprirsi al dialogo con chi non lo era (i “gentili” appunto, cioè i non ebrei e anche i non credenti, nel linguaggio delle sacre scritture). Ecco quindi la soluzione: la Chiesa non poteva e non doveva transigere né in materia di fede (e quindi di dottrina) né sulle proprie tradizioni identitarie; poteva però cercare un terreno di incontro con i non cattolici per trovare punti comuni su cui convergere. Per esempio alcuni principi morali e comportamenti che, secondo Ratzinger, derivano dalla cultura cristiana anche se sono entrati nel sentire comune a prescindere dalla pratica religiosa; dalla qual cosa deriverebbe la necessità di riconoscere, anche nei moderni stati liberal-democratici alle religioni un rilievo istituzionale fondato sulle loro radici storiche.
Non solo; su queste basi monoteistiche (comune credenza nell’esistenza di un unico Dio) Benedetto XVI pensava di aprire un varco al dialogo non soltanto con i diversi cristianesimi ma anche con i settori più ragionevoli del mondo musulmano.
Come si vede una prospettiva intelligente, non accettabile per i liberali nelle sue premesse perchè non coincide con la storia stessa della Chiesa, con la sua intolleranza, con il rifiuto del relativismo illuministico, con tutto ciò che appunto comporta un cambiamento interno e radicale del cattolicesimo, ma assolutamente rispettabile nel comprensibile sforzo di salvaguardare la Chiesa nella integrità storica che l’aveva formata. A questo punto del ragionamento c’è sempre qualcuno che alza il cartellino giallo, anche tra i liberali; come la mettiamo con Benedetto Croce e il suo “perchè non possiamo non dirci cristiani”? La mia risposta, su cui in questa sede non mi dilungo, è fondata sulle origini non liberali del primo idealismo di Croce e su una lettura discutibile delle distinzioni che Croce attribuisce al cristianesimo delle origini, che comunque non è quello del cattolicesimo istituzionalizzato.

Quale futuro?
Dopo l’abdicazione il nuovo pontefice, sia pure con molta prudenza e l’adozione di comportamenti e linguaggi piuttosto confusi e demagogici, ha chiuso Ratzinger in un convento a portata di mano non soltanto fisicamente ma anche concettualmente, attendendo pazientemente che il buon Dio lo chiamasse a sé; e neanche allora è riuscito a soffocare le voci di dissenso che dividono il cattolicesimo; anche da morto papa Benedetto fa sentire la presenza delle sue idee con cui comunque la Chiesa dovrà fare i conti. Questo sarà il nodo che dovrà sciogliere il prossimo conclave, ormai prevedibilmente vicino. Le porte di Santa Marta forse potrebbero presto aprirsi per lui; chissà se ci sarà ad attenderlo padre Georg!

Franco Chiarenza
31 gennaio 2023

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Tutti gli esperti della politica nostrana erano unanimi: Giorgia Meloni, a differenza di Berlusconi e Salvini, ha dietro di sé un partito e un gruppo dirigente compatto, ben organizzato e fedele alla leader. Ebbene, i casi di La Russa e Rauti dimostrano che non è esattamente così. Le loro uscite nostalgiche non sono incidenti di percorso ma fratture non casuali che da sempre hanno caratterizzato la storia del neo-fascismo italiano.

Radici allo scoperto
Sin dalla sua fondazione nel lontano 1946 il Movimento Sociale era attraversato da un solco che non si è mai rimarginato, malgrado il frequente passaggio dei suoi esponenti dall’una all’altra sponda. Da un lato c’era l’ambizione di rappresentare i ceti medi (in qualche misura tutti compromessi col regime fascista almeno fino al 1943) che cercavano un approdo nella nuova democrazia che non ne mettesse in discussione le scelte del passato, dall’altro i reduci dell’estremismo filo-nazista di Salò legati a formazioni eversive fanatiche e violente, ancora convinti che l’autoritarismo nazionalista avesse un futuro; il MSI, sin dalla denominazione, si ispirava a questo secondo aspetto (la Repubblica di Salò si chiamava Repubblica Sociale). I suoi referenti culturali erano gli stessi del fascismo rivoluzionario dei primi tempi e le affinità col razzismo egemonico del nazismo del tutto evidenti. Scegliendo però un moderato come Michelini alla guida del movimento l’oltranzismo sembrò impantanato nel procedere di un’egemonia democristiana che non lasciava molto spazio alla destra. Per di più le connessioni col sorgente terrorismo nero (che contrapponendosi formalmente a quello rosso in realtà ne condivideva metodi violenti e finalità eversive) costringeva il MSI ad acrobazie politiche e dialettiche che ne limitavano fortemente l’incidenza politica. Il subentro di Almirante a Michelini aveva segnato una svolta consentendo al nuovo segretario di esercitare una leadership moderata tanto più incontestabile quanto più proveniente da posizioni oltranziste (l’analogia tattica con la Meloni salta agli occhi). Ma i tempi non erano maturi e dopo la sua morte l’integralismo estremista era tornato a trionfare con Pino Rauti (padre di quella Isabella che oggi mette il bastone tra le ruote al centro-destra) e ci vollero l’abilità e l’influenza di donna Assunta (vedova di Almirante) per riportare alla segreteria l’erede designato, il giovane Gianfranco Fini. Con lui cessò di esistere il MSI, nacque Alleanza Nazionale e, attraverso l’alleanza con Berlusconi, si completò la sua piena legittimazione democratica che comportò anche un processo di revisione ideologica che allontanava definitivamente il movimento dalle radici fasciste e da ogni tentativo di revisione storica sulle sue responsabilità; a Julius Evola subentrava Domenico Fisichella.
“Fratelli d’Italia” costituisce un curioso ibrido: nato dalla crisi di AN vorrebbe tenere insieme radici illiberali e anti-democratiche come quelle difese da La Russa e Isabella Rauti e la svolta di Fiuggi il che costituisce una contraddizione irrisolvibile. La loro sembrava una scissione marginale senza futuro ma invece gli errori degli altri partiti hanno spinto il movimento fondato da Meloni, La Russa e Crosetto fino alla maggioranza conseguita nelle elezioni del 2022. Dopo le delusioni stellari di Grillo e quelle balneari di Salvini l’elettorato di centro destra cercava un approdo rassicurante e Giorgia Meloni ha saputo approfittare di questa congiuntura per giocare la sua partita con abilità e intelligenza. Ma deve fare attenzione.

Le trappole
Gli estremisti che militano nel suo partito hanno colto la prima occasione (l’anniversario della fondazione del MSI) per lanciare un avvertimento: non si lasceranno isolare dalla svolta “responsabile” della loro leader e dopo l’approvazione del bilancio (che, nelle parti essenziali, ricalca quello predisposto da Draghi), si faranno sentire. Si spiega così la scelta di La Russa di puntare alla presidenza del Senato da dove può meglio esercitare una mediazione tra il governo e l’ala radicale del partito. La Destra torna quindi a oscillare tra le tentazioni di regime che l’avvicinano ai partiti nazionalisti reazionari di altre parti d’Europa e la tradizione liberal-democratica di una parte consistente dell’elettorato che ha acquisito. Speriamo che la presidente Meloni si renda conto che si tratta di un’altalena pericolosa soprattutto nel nostro Paese dove per fortuna le inclinazioni autoritarie reazionarie sono di modesta entità; il timore di una svolta autoritaria potrebbe nuovamente spostare masse consistenti di voti.

L’eredità fascista
Pesa come un macigno l’eredità fascista in analogia con quanto avvenne a sinistra con quella comunista. Come gli storici che lo hanno studiato ci ricordano, il fascismo è stato molte cose: l’idealismo deviato di Gentile, la sintesi di filosofie come quelle di Hegel, Sorel, Nietzsche che hanno fatto da supporto alle teorie dello Stato assoluto, persino una rielaborazione pasticciata del corporativismo di De Ambris, ma non è di questo che si tratta. Il fascismo è stato innanzi tutto un metodo violento di lotta politica finalizzato a realizzare un sistema politico totalitario dove ogni forma di dissenso era proibita fino a impedire la stessa libertà di espressione. Il razzismo, teoria della superiorità ariana fatta propria dal nazismo e portata ad aberrazioni criminali da Hitler e dai suoi sodali, non ne costituisce l’aspetto peggiore, anche perché è troppo facile – oggi che è rimosso dalla cultura occidentale – fare un rapido viaggetto a Gerusalemme per farsi fotografare davanti al muro del pianto. La parte più pericolosa del neo-fascismo è l’illusione che l’autoritarismo nazionalista attraverso la legittimazione della violenza costituisca la risposta più efficace al settarismo dell’integralismo islamico che un’immigrazione incontrollata sta portando anche da noi.
Se dovesse passare il teorema che per evitare ogni contaminazione bisogna contrapporgli un fanatismo cristiano radicale anche a costo di rinunciare ad alcuni diritti costitutivi della nostra cittadinanza sarebbe facile derivarne la giustificazione storica del fascismo e quindi la possibilità di riproporlo in forme nuove, forse più attente a un pluralismo di facciata ma tuttavia più invasive di un monopartitismo esplicito: Kaczyinski, Orban e Erdogan sono tra noi e sopravvivono indisturbati. Attenta, presidente Meloni: è una strada scivolosa che porterebbe noi liberali da una prudente attesa a una decisa opposizione.

Franco Chiarenza
4 gennaio 2023

Di Eugène Delacroix – Erich Lessing Culture and Fine Arts Archives via artsy.net, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=27539198

Quando si stigmatizzano le repressioni del dissenso in Iran, in Russia, in Cina, in molti commenti critici si nota una costante: quella di negarne la legittimità perché anche noi (occidentali o comunque liberal-democratici) abbiamo fatto e facciamo le stesse cose; e si ricorda immancabilmente l’Iraq, la Libia, il Kossovo (di solito non si cita la Siria distrutta dai russi per sostenere il regime di Assad e che ha prodotto una fuga in massa che non ha equivalenti). Come se il fatto che anche gli americani oggi e gli europei in passato abbiano compiuto azioni riprovevoli giustificasse in qualche modo gli orrori di cui Putin si è reso responsabile in Ucraina (e prima ancora in Cecenia e in Georgia) o la violenta repressione contro le donne in rivolta compiuta dal regime clericale scita in Iran.
La differenza c’è e per i liberali è fondamentale; chi non la vede o è in mala fede oppure non attribuisce alle libertà individuali lo stesso peso che gli diamo noi.

La libertà di espressione
Tale differenza consiste nel fatto che le azioni compiute dagli americani sono state fortemente contestate in America e nei paesi liberal-democratici attraverso i mezzi di comunicazione di massa, in parlamento, fino, in taluni casi, a costringere i governi a fare marcia indietro; come avvenne, per esempio, in anni lontani in Vietnam, fino a far dire che la guerra i vietcong l’avevano vinta a Washington piuttosto che a Saigon. La libertà assoluta di espressione delle proprie opinioni è tutelata da rigorose norme costituzionali negli USA (primo emendamento, Bill of Rights) e in tutti i paesi democratici (da noi con l’art.21 della Costituzione); l’indipendenza dei parlamenti dai rispettivi governi su questioni vitali è dimostrata da moltissimi esempi (a cominciare dalla bocciatura di alcuni trattati europei).
Di che stiamo parlando dunque? Esiste qualcosa di simile in Cina (vedi le repressioni del regime contro gli studenti di Hong Kong), in Iran (dove si impiccano i ragazzi perché “non credono in “Dio”?), in Russia dove leggi speciali hanno definitivamente chiuso la bocca ad ogni critica e gli oppositori marciscono in galera (quelli fortunati, gli altri vengono uccisi per strada o col veleno, o, più recentemente, buttati dalla finestra).

La libertà di non essere liberali
Non a caso Putin sostiene che il liberalismo è superato, Xi salva il capitalismo protetto dallo Stato ma condanna ogni forma di pluralismo politico (avendone cancellato le tracce residue a Hong Kong), e purtroppo anche Erdogan in Turchia e Orban in Ungheria marciano nella stessa direzione. La convinzione che emerge dietro gli interventi che giustificano i regimi illiberali è, a ben vedere, collegata all’idea che l’uso della violenza sia necessario per garantire l’interesse nazionale, col conseguente corollario che le democrazie sono divise, deboli e destinate a soccombere. Noi liberali invece riteniamo che la cultura occidentale sia vincente proprio perchè è tollerante, si fonda sulla libertà di espressione, costringe i suoi avversari ad argomentare le loro ragioni senza ricorrere alla forza, ed è quindi in grado di correggere i propri errori. Da sempre i dittatori cadono anche perchè, ingannati da cortigiani adulatori, finiscono per credere alla loro stessa propaganda.
Tutte balle? La libertà è finta, poteri occulti ci manovrano come marionette? La concupiscenza americana è il nemico da combattere, anche quando il lupo si traveste da agnello? Cadiamo nel più vieto complottismo che potrebbe essere tranquillamente rovesciato: e se qualcuno manovra certi contestatori da strapazzo magari ungendo le ruote perchè scorrano silenziose? I fatti ci danno ragione: i muri, i veli, i divieti sono sempre più fragili e prima o poi cadranno rendendo il mondo inevitabilmente conflittuale ma abitato da uomini e donne che vogliono essere liberi. Regolare i conflitti è una cosa (e a questo servono le costituzioni democratiche), negarne l’esistenza attraverso la soppressione dei diritti individuali è roba da caserma (o da campo di concentramento, se si preferisce).

Franco Chiarenza
3 gennaio 2023

P.S. Molti replicheranno che lo scandalo del Qatar dimostra la corruttibilità delle democrazie liberali. Sarebbe un argomento convincente se in Russia gli oligarchi protetti dal Cremlino non si fossero mangiati quote rilevanti dell’intero pil di quel paese e se i cinesi non avessero ammesso pubblicamente che la corruzione è il principale problema che il regime non riesce a contenere,
Anche in questo caso con una differenza: in Europa dello scandalo Qatar si scrive e si discute liberamente, in Russia e in Cina la denuncia non è accompagnata dalla trasparenza necessaria per coinvolgere l’opinione della gente comune, fattore indispensabile per un efficace contrasto a un fenomeno criminale che purtroppo riguarda tutti. FCh.