Come era prevedibile la proroga dello stato di emergenza , annunciata in sordina dal governo nella speranza che passasse inosservata nell’orgia trionfalistica della “vittoria” di Bruxelles, è stata colta al volo dalle opposizioni in cerca di un nuovo cavallo di battaglia su cui smarcarsi dall’indubbio vantaggio (almeno mediatico) che Conte ha ricavato dall’esito del Consiglio Europeo.
L’enfasi di Salvini e la sua esibizione nel convegno organizzato al Senato fanno però un po’ ridere. E’ piuttosto difficile per un liberale qualunque scorgere in lui e nel suo partito un difensore dello stato di diritto, e lui stesso, che non è un cittadino qualsiasi ma il capo dell’opposizione, presentandosi senza mascherina e incitando implicitamente alla disobbedienza civile, mostra di ignorare che la prima regola dello stato di diritto è che le leggi si possono contestare ma finché ci sono vanno rispettate.

Covid e libertà individuali

Tuttavia il problema esiste e i primi a sollevarlo non sono stati Salvini e Meloni ma giuristi, commentatori, economisti e politici assai distanti dalle posizioni politiche della destra. Cerchiamo quindi di capire i reali termini della questione che, con la consueta lucidità, Sabino Cassese, ex presidente della Corte costituzionale, ha sintetizzato in una battuta: lo stato di emergenza è legittimo se è in atto un’emergenza, non è legittimo se viene deciso in base a previsioni di pericoli futuri perché l’indeterminatezza di tali previsioni lo rende incompatibile con lo stato di diritto.
Quindi la prima domanda da porci è: il virus circola ancora, e quanto è pericoloso? La risposta più ragionevole è che sì, circola ancora e probabilmente dovremo conviverci a lungo; ma, almeno in Europa, esso è sempre meno “virulento”, i suoi tassi di mortalità sono drasticamente diminuiti, i reparti di terapia intensiva sono deserti, e gli esperti clinici (non i virologi) sono unanimi nell’affermare che, per come si presenta oggi, il coronavirus è facilmente controllabile e non suscita particolare allarme. Perché allora il governo e i virologi che lo assediano continuano a diffondere messaggi allarmistici? Probabilmente per un eccesso di prudenza; si teme in sostanza che il virus possa riaffacciarsi in forme violente o perché importato da paesi in cui la fase acuta è tutt’altro che conclusa, o anche per effetto di un allentamento del lockdown. Si giustifica quindi la sospensione delle libertà civili non per la realtà del momento ma per un pericolo futuro (non dimostrato e non dimostrabile). Ma Cassese ci ha spiegato che l’emergenza per un pericolo futuro è non soltanto illegittima ma anche pericolosa per le applicazioni che potrebbe avere nei più diversi contesti; l’”emergenza “prudenziale” inventata da Conte e Speranza non è costituzionalmente corretta, anche perché di rinvio in rinvio a colpi di maggioranza può durare all’infinito.

La seconda domanda è: quanto è vero che le drastiche misure adottate in Italia sono state determinanti per il miglioramento della situazione? La domanda è importante perché se la risposta è sì l’allungamento delle misure emergenziali si giustifica maggiormente. Tuttavia il liberale qualunque che legge dati e cifre e non si fida degli ingannevoli titoli dei giornali, può facilmente constatare che la risposta è no per diverse ragioni che non sto qui a ripetere (per averle già esposte). Sta di fatto che persino il numero di morti di coronavirus degli Stati Uniti (150.000) se rapportati alla popolazione non è superiore al nostro e che il numero dei contagiati, sempre evidenziato dai fautori del lockdown, non è significativo perché dipende dalla quantità di tamponi effettuati e dalla gravità dei sintomi (molti infatti vengono rimandati a casa, sia pure in quarantena).

Se questa è la situazione si può quindi tranquillamente affermare: a) che la chiusura totale del territorio attuata in Italia per tre mesi non era necessaria e poteva essere sostituita da misure più mirate sia dal punto di vista territoriale, individuando le “zone rosse” e attenuando i vincoli nel Mezzogiorno dove, per ragioni che i virologi ancora non hanno saputo spiegare, il virus si è presentato in forme meno gravi, (e non certo per il lockdown!) e accentuando i controlli sull’unico dato certo costituito dal fatto che oltre l’80% dei casi letali ha riguardato anziani ultresettantenni, spesso già colpiti da patologie pregresse. b) che le conseguenze economiche (forse un milione di posti di lavoro perduti) hanno colpito prevalentemente la parte più attiva e produttiva della popolazione (industria, commercio, agricoltura, servizi) lasciando indenni il pubblico impiego e quanti vivono di assistenza pubblica (nelle sue diverse forme: pensioni, sussidi, redditi di cittadinanza, ecc.). c) che il danno è particolarmente rilevante in Italia (anche rispetto agli altri paesi europei) perché il Paese stava già attraversando una fase di recessione prima della pandemia e resta sempre aggravato dal maggior debito pubblico dell’Occidente.
Tutto ciò considerato il prolungamento dello stato di emergenza fino al 15 ottobre (col fondato sospetto che lo si voglia ulteriormente prolungare) non ha senso, aggrava la situazione economica, ostacola un’utilizzazione razionale e convincente degli aiuti europei che, come è stato ripetuto fino alla nausea, non devono servire a finanziare ulteriori misure assistenziali ma a rimuovere gli ostacoli che deprimono la produttività, gli investimenti e le capacità imprenditoriali.

Quanto sono a rischio le nostre libertà?

E’ l’ultima domanda, la più importante.
Il rischio principale è di abituare la gente a farne a meno. Ogni volta che la libertà viene soppressa o limitata è sempre per qualche “buona ragione”: per salvare il popolo dall’ignoranza, come sosteneva il Grande Inquisitore nel famoso dialogo con Gesù reincarnato, raccontato mirabilmente da Dostoevskij, per ovviare alla non consapevolezza del popolo sui suoi reali interessi, come sosteneva Rousseaux (vero Casaleggio?), per “proteggere” il popolo dalle tentazioni mondane (come ha fatto per secoli la Chiesa), per ragioni di equità sociale e realizzare l’uguaglianza, come sosteneva Lenin. Oggi il pericolo proviene da un’estremizzazione dell’ambientalismo, da un salutismo fanatico, dalle forme più estreme di ecologismo, che propongono nuove giustificazioni per imporre dall’alto, con metodi autoritari, limitazioni alle libertà personali.
Qualcuno può obiettare che in Europa siamo lontani da rischi di questo genere e certamente avrebbe ragione. L’Europa democratica si riconosce nei progetti di transizione verde e digitale di Ursula Van der Leyen che nulla hanno a che fare con i fondamentalismi potenzialmente illiberali di certo ambientalismo, ma il pericolo è che una volta introdotto nelle teste dei cittadini il principio che la loro libertà è un accessorio al quale si può facilmente rinunciare per conseguire finalità superiori, il virus che vi si installa è assai più pericoloso del Covid, e può emergere nelle occasioni più disparate soprattutto se non definiamo con adeguate norme anche costituzionali che cosa si intende per stato di emergenza, chi può proclamarlo, quali sono gli strumenti di garanzia che devono accompagnarlo. Cose di cui non vedo traccia nel dibattito di questi giorni.
Il virus delle scorciatoie illiberali è infido, circola per contagio, spesso è asintomatico e non esistono vaccini che possano contrastarlo perché si fonda sulla paura, cioè su uno stato d’animo irrazionale che può essere utilizzato per costringere la gente a chiudersi nelle loro “case” cioè nelle loro certezze, vere o presunte: il coronavirus, la paura degli immigrati, il rifiuto di confrontarsi con chi è diverso da noi, con chi professa religioni apparentemente incomprensibili, quella paura che nei secoli passati ha prodotto persecuzioni, guerre, stermini. Soltanto la cultura liberale, fondata sulla tolleranza, sulla conoscenza delle realtà che ci circondano, ha assicurato al genere umano lunghi periodi di pace e di prosperità, almeno quando è stata rispettata (perché non sempre chi si dice liberale si comporta come tale)

Ma da chi dunque il “liberale qualunque” deve guardarsi, visto che non siamo né in Ungheria, né in Polonia, né tantomeno in Russia o in Turchia?
Domanda insidiosa che costringe i liberali a guardare oltre le apparenze per scorgere i sintomi di un virus non facilmente riconoscibile. Il “tampone” da utilizzare è uno solo: quello che mette in evidenza il fanatismo in ogni sua forma. Quando sentite qualcuno che dice “che dopo l’emergenza nulla sarà come prima”, che bisogna passare da un’economia di mercato a uno “sviluppo sostenibile” (chi decide quando lo è?), quando si invitano i ristoratori a cambiare mestiere, quando si immaginano città senza automobili e metropolitane, percorse soltanto da felici famiglie in monopattino o (al massimo) in bicicletta, quando si sostiene che lo smartworking (talvolta inteso come lavoro a domicilio in cui ciascuno fa quel che gli pare) sostituirà completamente le attuali modalità di impiego (chissà chi lavorerà la terra, pulirà le strade, farà funzionare le fabbriche, guiderà i treni?), rizzate le orecchie: dietro certe banalità accattivanti e ingannevoli si nasconde il virus di chi propone una “società diversa”. A quel punto emerge il virus anti-liberale; lo si vede affiorare per esempio nella casareccia “decrescita infelice” che Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio hanno copiato da Serge Latouche, nei residui del fascismo “sociale” ancora presenti nel partito di Giorgia Meloni, ma anche in alcuni settori della sinistra democratica, a cominciare dalla LEU in cui non a caso milita il ministro Speranza, fautore di una chiusura prolungata delle attività economiche.
E’ il momento di vigilare, respingere il terrorismo mediatico, ragionare con la testa, leggere i dati senza mediazioni distorcenti. Questo è il consiglio che può dare il “Liberale Qualunque”, cioè un signor Nessuno che vorrebbe restituiti al più presto i propri diritti di cittadino (che non sono soltanto quelli elettorali).

 

Franco Chiarenza
30 luglio 2020

Come sono andate le cose, più o meno, lo sappiamo: ne sono pieni giornali, telegiornali, talk show, col solito contorno di dilettanti allo sbaraglio sui social.
Ma come valuta un “liberale qualunque” l’accordo raggiunto?
I termini quantitativi del “recovery fund” costituiscono la parte meno importante dell’intesa (anche se la più enfatizzata dai media), anche perché i fondi saranno disponibili nella migliore delle ipotesi tra molti mesi, ci sono dei passaggi parlamentari a Strasburgo e nelle capitali nazionali non del tutto scontati e, per quanto riguarda l’Italia – che esce comunque dalla lunga maratona come una “sorvegliata speciale”, la trasformazione di generiche buone intenzioni in specifici progetti di spesa destinati alle infrastrutture materiali (porti, strade, ferrovie, e soprattutto potenziamento delle connessioni in rete) e immateriali (riforma della giustizia, rinnovamento della burocrazia, adeguamento delle normative commerciali e amministrative, scuola, università, ricerca) è tutta da verificare.
Anche per questo sarà necessario ricorrere al MES che rende immediatamente disponibili risorse da utilizzare per riformare e potenziare in via prioritaria il delicato settore della sanità che molte carenze ha mostrato in occasione del “coronavirus”.
Tutto ciò premesso: qual’è la valutazione complessiva?

Il “liberale qualunque” ritiene che:

  1. Esce comunque rafforzato il ruolo della Commissione alla quale spetterà gestire i nuovi fondi disponibili nell’ambito di un bilancio comunitario maggiorato; il che non può che essere gradito a chi, come i liberali, considera la Commissione come il governo “in nuce” di una futura unione politica.
  2. Il Consiglio (composto dai Capi di Stato e di governo) mantiene il suo ruolo di vigilante di ultima istanza; viene meno l’unanimità (e quindi il diritto di veto) ma viene introdotto il “freno di emergenza” che ciascun paese può attivare se ritiene che i soldi dati “a fondo perduto” non vengono utilizzati correttamente; una cautela necessaria per superare le diffidenze dei cosiddetti “paesi frugali” (Olanda, Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e paesi baltici). I liberali italiani non dovrebbero scandalizzarsi ma anzi considerare giustificata tanta cautela dopo le pessime prove della politica assistenziale promossa dalla Lega e dai Cinque Stelle quando erano insieme al governo.
  3. L’asse franco-tedesco che, dopo tre giorni di aspre discussioni, sembrava indebolito ha finito invece per imporre il proprio compromesso e riconfermare quindi la propria supremazia. Hanno giocato come il gatto col topo: hanno lasciato che i due schieramenti contrapposti (“frugali” da una parte, “mediterranei” dall’altra), si scannassero a oltranza per poi imporre con una vigorosa zampata la soluzione che tra loro avevano già concordato. I liberali ne prendono atto ma sono delusi: ben altro si aspettavano dall’asse Merkel Macron.
  4. L’Italia ha giocato la partita con determinazione ed è riuscita a portare a casa un buon risultato che, oltretutto, rafforza quelle componenti della maggioranza (una parte dei democratici e Renzi) che sono consapevoli che su questa partita si gioca la credibilità del Paese in Europa e sono pronte quindi a respingere le tentazioni assistenzialiste che puntualmente si presenteranno nei Cinque Stelle.
    Giuseppe Conte, tutto sommato, ne esce bene anche considerando che si è trovato per quattro lunghi giorni nella scomoda posizione di imputato alle prese con un pubblico ministero come Rutte, intransigente anche per ragioni di politica interna, dovendo far fronte all’ondata sovranista che nel suo paese minaccia di travolgere storici equilibri politici di una delle democrazie più antiche e tolleranti d’Europa.
  5. Cos’è dunque che è andato male, almeno da un punto di vista liberale? Presto detto:
    a) la necessità di raggiungere un compromesso sulle somme disponibili “a fondo perduto” (che non sono, come molti pensano, “regalati” ma soltanto prelevati da un fondo comune finanziato anche dall’Italia) ha portato a ridimensionare il coraggioso piano per la transizione a un’economia ambientalmente sostenibile su cui la presidente Von der Leyen aveva impostato le linee programmatiche della nuova Commissione; un fatto questo che comporterà anche qualche difficoltà nel passaggio parlamentare all’assemblea di Strasburgo dove i Verdi e i loro alleati sono determinanti.
    b) il fatto che nessuno abbia avuto il coraggio di “rovesciare il tavolo”, abbandonando il “piccolo cabotaggio” (qualche miliardo in più o in meno) e pretendendo riforme strutturali per l’Unione: a cominciare dalle fiscalità di vantaggio per continuare con gli esuberi commerciali della Germania, per finire con un piano coordinato di interventi in Africa. Come dire: volete che facciamo i “compiti a casa”? D’accordo, ma allora rivediamo il programma e trasformiamo l’Europa in un ambizioso progetto geo-politico. Chi ci sta?
    c) e infine che sia stato sostanzialmente accantonata l’idea che il “recovery fund” sia accessibile soltanto ai paesi che rispettano i diritti umani e civili che caratterizzano le democrazie liberali (con esclusione quindi dei paesi del cosiddetto “gruppo di Visegrad – Ungheria, Polonia, Cechia, Slovacchia). Per la verità i liberali sostengono in proposito un punto di vista più drastico: i diritti non si barattono con gli aiuti economici, chi non si riconosce nei principi della democrazia liberale (che vanno ben oltre l’esistenza di libere elezioni), non possono far parte di un’unione fondata appunto su di essi (trattato di Nizza). E anche questo poteva far parte del “rovesciamento del tavolo”.

Per un primo bilancio può bastare: il secondo lo faremo quando capiremo come il governo Conte in concreto intende spendere questi soldi. “Il liberale qualunque” resta in trepida attesa. Ma, affacciati al balcone ci sono anche non soltanto Rutte ma pure Macron e Merkel, nessuno si illuda che si sono ritirati in cucina.

Franco Chiarenza
23 luglio 2020

Scoprire l’acqua calda” significa secondo il dizionario De Mauro “credere o presentare come nuova e originale una cosa già nota o ovvia”. Il liberale qualunque è allibito: gli italiani hanno scoperto che la magistratura viene influenzata dalle convinzioni politiche nella sua azione giudiziaria e che quindi non è, come dovrebbe essere, imparziale e neutrale rispetto ai diversi soggetti politici che si contendono l’esercizio del potere. Ci sono magistrati (molti, pochi?) i quali quando avvistano quello che a proprio insindacabile giudizio può configurarsi come un “pericolo per la democrazia” affondano il piede sull’acceleratore e travolgono i presunti “colpevoli” senza pietà, talvolta eludendo anche le garanzie costituzionali che dovrebbero sempre accompagnarsi all’esercizio della funzione giurisdizionale. E’ avvenuto con “mani pulite”, si scopre oggi che è accaduto anche con Berlusconi.

Il liberale qualunque crede nello stato di diritto e proprio per questo non può simpatizzare con un populista autoreferenziale come Silvio Berlusconi, ma non può nemmeno accettare che la magistratura, priva com’è di legittimazione popolare, si sovrapponga al parlamento dettando, di fatto, le regole del gioco secondo una concezione “polically correct” da essa stessa stabilita. Da tempo infatti quanti ancora si identificano con una cultura liberale denunciano la deriva “politica” della magistratura che, non a caso, si organizza in correnti ideologicamente motivate le quali condizionano le carriere (designazioni, promozioni, distacchi) assicurandosi che nei principali distretti giudiziari vadano procuratori “allineati”, come è stato clamorosamente confermato dallo scandalo Palamara. Naturalmente tutto ciò nulla ha in comune con lo stato di diritto, cardine inalterabile di ogni democrazia liberale. Ma che le cose stiano così si sa da decenni e fa impressione vedere (come nella favola del “re nudo” che improvvisamente tanti scoprano che la magistratura integerrima era un manto di ermellino sotto il quale si nascondevano pulsioni, intenzioni e distorsioni che tutti fingevano di non vedere. Finché, per puro caso, il manto è scivolato via e il “popolo bambino” ha esclamato stupito: “ma è nudo!!!”.

Per risolvere il problema non bastano soluzioni parziali affidate alla corporazione stessa che dovrebbe metterle in atto. Bisogna procedere radicalmente avviando le riforme che da sempre proponiamo: separazione tra magistratura inquirente e giudicante, azione di contrasto alle contaminazioni tra politica e funzioni giudiziarie, e, per rendere più difficile la “dittatura” delle correnti, ricorrere anche, almeno parzialmente, al sorteggio di un certo numero di componenti del CSM. Ma il liberale qualunque non vede all’orizzonte nessuno in grado di farlo e nemmeno di proporlo. Continuammo così, fino al prossimo scandalo.

Franco Chiarenza
17 luglio 2020