Dalle bozze del “contratto” di governo, cioè del programma che dovrebbe caratterizzare il nuovo Esecutivo, fatte circolare e poi prontamente smentite al fine evidente di sondare le reazioni in Italia e all’estero, poco si capisce: c’è molta indeterminatezza anche sui punti chiave proclamati in campagna elettorale come inderogabili, e fa la sua comparsa un “comitato di conciliazione” al quale sono rimesse le eventuali controversie che dovessero prodursi nell’esercizio concreto del governo. E da chi sarebbe composto tale comitato? Forse da figure arbitrali “terze”? No. Da Di Maio e Salvini con il ministro responsabile della materia di cui si tratta. E il presidente del Consiglio? E’ come se non ci fosse e infatti ancora non si sa chi potrebbe essere.

Consolato?
La storia ha già conosciuto forme di governo fondate su un binomio anziché su una sola persona: la più nota è il consolato nella Roma repubblicana che però durava soltanto un anno e condivideva di fatto l’esercizio del potere con altre magistrature elettive (il tribunato della plebe, i questori, i pretori) e soprattutto con il Senato che rappresentava la tradizione e quelli che oggi definiremmo “poteri forti”. Un equilibrato sistema di contrappesi che prefigurava in qualche misura il check and balance dei moderni stati liberali ma che era caratterizzato anche da una grande fragilità che ha dato luogo a sanguinose guerre civili sfociate infine nella trasformazione della repubblica in un sistema imperiale.
Quello che si profila oggi è un approdo istituzionale che in qualche modo ricorda la lontana esperienza romana: avremo di fatto, secondo le bozze circolanti, due “consoli”, Di Maio e Salvini, che si riservano l’ultima parola su tutto, un governo che si limita a funzioni puramente amministrative, un parlamento ancora potenzialmente infido (perché protetto dall’art. 67 della Costituzione) ma che si vuole disciplinare in futuro attraverso l’adozione del mandato imperativo.
Un disegno di ampio respiro, funzionale alle radici populiste di entrambi i partiti, che va a sfociare inevitabilmente in un sistema di democrazia plebiscitaria molto diverso dai modelli di democrazia liberale in cui ci riconosciamo.

Programmi
Se questo sarà il contesto fondativo del nuovo governo si capisce perché sui punti programmatici più controversi si sia preferito glissare o rendendoli vaghi oppure rinviandone la realizzazione nei tempi e nei modi che i “consoli” concorderanno; l’importante è creare una cornice istituzionale diversa da quella attuale, sul resto ci si confronterà.
Così la legge Fornero dovrà essere “superata” ma non soppressa, sulle grandi opere pubbliche (TAV compresa) si deciderà tenendo conto delle diverse sensibilità, il reddito di cittadinanza diventa una sorta di indennità di disoccupazione allargata, l’immigrazione dovrà essere regolamentata (come, quando, da chi?), i trattati europei vanno cambiati, soprattutto laddove impongono limiti all’indebitamento, ma la sua cornice istituzionale va salvaguardata e potenziata (in particolare per quanto riguarda i poteri del parlamento), dall’eurozona si deve potere uscire ma non è detto né se lo si farà né come eventualmente farlo (del referendum proposto da Grillo nessuna traccia). Sulla flat tax il richiamo alla progressività sancita dalla Costituzione e la mancata fissazione delle aliquote rende molto indeterminata la reale portata della diminuzione degli oneri fiscali e previdenziali. Anche sull’immigrazione irregolare, e soprattutto sulle modalità concrete per arginarla, si nota una formulazione molto meno aggressiva dei toni usati da Salvini in campagna elettorale. Le altre cose sono in gran parte banalità che si trovano nei programmi di tutti i partiti e che dipendono dalla volontà politica e dalla capacità di chi governa.

La volontà popolare
Definiamo populisti quei movimenti che antepongono la volontà popolare ai processi di mediazione previsti dalle moderne democrazie liberali. Ma “il popolo” in realtà non esiste: esistono invece tanti “popoli” che riflettono identità e interessi diversi e spesso contrapposti; per questo trovare una strategia di governo comune tra movimenti populisti è difficile.
Nel nostro caso la Lega trae la sua forza da radici separatiste ancora presenti nelle regioni padane che si traducono nella speranza di trattenere sui propri territori la maggior parte delle risorse che producono: in sostanza l’elettorato leghista del nord vuole maggiore autonomia fiscale e meno burocrazia, ma sa benissimo che l’economia settentrionale si fonda in larga misura sulle esportazioni. L’idea quindi di protezioni doganali (che comporterebbero inevitabili ritorsioni) trova pochi consensi e la svolta nazionalistica della Lega suscita molte perplessità per le implicazioni che potrebbe avere nella distribuzione delle risorse e nei rapporti con l’ Europa. La fiducia in Salvini e sulla sua scommessa “romana” è quindi accordata con riserva.
Il movimento Cinque Stelle non ha radici chiaramente definite e men che meno è in grado di esprimere un gruppo dirigente politicamente formato (come invece ha la Lega). Portando la demagogia populista alle estreme conseguenze esso teorizza la possibilità di governare senza specifiche competenze, limitandosi a registrare la “volontà popolare” (peraltro filtrata attraverso il portale Rousseau mediante il quale i fondatori mantengono un potere di ultima istanza nei confronti della base). Peraltro l’origine “ideologica” dei Cinque Stelle va ricercata in una sensibilità ambientale enfatizzata anche a costo di ridurre i modelli esistenziali oggi prevalenti – il cosiddetto “sviluppo sostenibile” – che in molti casi appare molto lontana dagli interessi imprenditoriali del nord, ma popolare tra quanti si sentono esclusi da una crescita fondata sulla competizione e sulle inevitabili diseguaglianze. Le questioni relative all’economia, alla finanza, alla politica internazionale sono sempre restate ai margini del loro dibattito interno o comunque trattate con molta superficialità. Man mano però che il movimento è cresciuto raccogliendo istanze di protesta e di disagio che spesso avevano poco a che fare con l’ispirazione originaria, e si è avvicinato all’esercizio concreto del potere, le contraddizioni hanno cominciato a esplodere sin dagli inizi con il caso Pizzarotti a Parma, e soltanto l’intervento autoritario dei fondatori ha impedito che le crepe si allargassero. Non è quindi tanto paradossale che Il plenum elettorale dei Cinque Stelle, sostanzialmente indifferenti alle compatibilità finanziarie, si sia prodotto nel Mezzogiorno dove il disagio e la protesta sono stati incanalati (col contributo determinante della disinformazione dei socialnetwork) in un movimento che esibiva un moralismo accattivante e prometteva interventi assistenziali a fondo perduto ai quali molti (troppi) meridionali non vogliono rinunciare.
Si tratta, come si vede, di storie, interessi, speranze, molto diversi tra loro e difficilmente componibili in uno stesso programma di governo. Per questo le trattative sono state estenuanti e probabilmente si concluderanno col peggiore dei compromessi: un governo debole sostenuto da una maggioranza fragile e – nella prospettiva di tornare presto alle urne – il rinvio della soluzione dei maggiori problemi a data da destinarsi.

 

Franco Chiarenza
17 maggio 2018

Pensare che nulla di nuovo stia accadendo e che questa sia, tutto sommato, una crisi come le altre, sarebbe da sciocchi. In realtà molte cose stanno cambiando nel metodo e nei contenuti e bisogna prenderne atto, anche per capire se davvero quello che i Cinque Stelle stanno imponendo è un modo nuovo di declinare la democrazia e quanto ciò possa modificare la dialettica politica.
Il sistema ideato da Grillo e Casaleggio in effetti scardina quella che definiscono “la casta”, cioè la classe politica, creando un continuo ricambio nelle strutture di governo ad ogni livello che impedisce il consolidamento di qualsiasi alternativa; gli unici che non cambiano mai sono loro, Grillo e Casaleggio, i quali controllano attraverso un’attenta gestione del mito del “fondatore” e una ristretta minoranza accuratamente selezionata mediante gli strumenti mediatici a loro disposizione la scelta dei candidati e gli umori popolari che si manifestano nel Paese. L’esperienza politica (quel “cursus” praticato sin dai tempi lontani delle democrazie greco-romane) viene rottamata e messa in soffitta, la competenza è considerata un supporto tecnico da usare senza esserne condizionati. In pratica un passaggio dalla democrazia guidata dai partiti (partitocrazia) a un regime sostanzialmente plebiscitario regolato attraverso la rete internet, molto lontano dai principi liberali del check and balance che sono alla base delle democrazie occidentali.
Il rifiuto di qualsiasi ideologia di riferimento e l’attenzione esclusiva ai problemi contingenti che ne conseguono consentono al movimento di muoversi a tutto campo con la sola eccezione dell’”onestà” che costituisce il collante retorico delle diverse pulsioni che contribuiscono al successo elettorale del movimento; anche se tutti sanno – a cominciare dai “fondatori” – che un progetto basato su un’idea di Paese è pur sempre necessario. E infatti leggendo gli scritti di Gianroberto Casaleggio appare abbastanza evidente che il modello a cui si guarda è quello della “decrescita felice” mutuato da Serge Latouche. Ma poiché qualsiasi ideologia rappresenta per sé stessa un momento divisivo, la strategia del movimento – almeno al momento – è quella di tenerla celata per raccogliere un facile consenso sulle inefficienze dei governi precedenti, sulla corruzione e i privilegi che hanno segnato l’esercizio del potere della classe politica, su un generico ambientalismo e sulle domande di equità sociale che salgono da settori sempre più ampi del Paese. Quanto basta a fare convergere realtà di base molto eterogenee.

Il contratto di governo
In tale contesto la strategia del movimento di Grillo appare sempre più chiara: coerenti con la loro filosofia che la politica debba consistere in una fedele rappresentazione della domanda popolare e che le necessarie competenze costituiscano una funzione di servizio complementare, i pentastellati hanno impostato la gestione della crisi sui contenuti piuttosto che su progetti ideologici. L’immagine che vogliono dare di sé nell’avviarsi a gestire un potere non più locale è quella di privilegiare i contenuti del programma di governo – quello che chiamano il contratto di governo per sottolinearne il carattere vincolante – piuttosto che le persone che devono realizzarlo. In questo modo restano coerenti col principio “uno vale uno” che trova oggi in ampi settori della società civile vasti consensi e, al tempo stesso, si sentono legittimati, se obbligati a una coalizione, a giocare indifferentemente su più tavoli, dato che ciò che conta sono i contenuti dell’accordo. Non solo: essi impongono in tal modo le nuove regole del gioco a tutti gli interlocutori costringendoli in una camicia di forza programmatica di cui loro soltanto restano gli ultimi giudici. Naturalmente l’ingenuità programmatica ha dei limiti (che probabilmente chi tira i fili dietro la maschera del “Rousseau” conosce bene) costituiti dall’imprevedibilità delle priorità di governo, soprattutto in una società globale e interconnessa come quella del nostro tempo; il “contratto di governo” finisce quindi per essere come tutti i documenti programmatici un elenco di buone intenzioni la cui realizzazione resta condizionata da fattori non sempre prevedibili. Ma resta uno strumento utile per dare un’immagine di cambiamento rispetto alla visione caricaturale delle precedenti stagioni politiche diffusa nell’immaginario collettivo di chi non conosce la storia. Il gioco in realtà è molto antico: se le cose andranno bene (a prescindere dai meriti o demeriti di chi governa) consolideranno consenso e quindi potere, se dovessero andare male potranno sempre scaricarne la responsabilità sugli alleati.
Il gioco però funziona finché si tratta di lotta alla corruzione, eliminazione dei privilegi “di casta”, rigore negli appalti, giustizialismo strumentale per eliminare dalla partita gli oppositori; diventa più difficile quando bisogna decidere sui grandi problemi posti dalla globalizzazione, dalle politiche europee, dalle compatibilità di bilancio con i mercati finanziari che di fatto sostengono il nostro debito pubblico, dai conflitti sempre più frequenti tra sensibilità ambientale e produzione industriale, da un sistema di welfare insostenibile per l’invecchiamento crescente della popolazione. Su questi problemi finora i Cinque Stelle hanno sempre risolto le contraddizioni per sommatoria, cioè promettendo tutto e il contrario di tutto.
L’accordo con la Lega si presenta difficile perché il partito di Salvini – al contrario dei Cinque Stelle – ha un profilo ideologico abbastanza definito: nazionalista, anti-europeo, con forti connotati repressivi nei confronti dell’immigrazione irregolare e della sicurezza pubblica. Salvini sa che, al di là della conclamata soppressione della legge Fornero, i punti reali di contatto con il movimento di Grillo sono pochi. Egli punta sul fatto che le alleanze tra un soggetto politico “forte” come il suo e un concorrente più flessibile vanno a vantaggio del primo, non può però ignorare che il gruppo parlamentare su cui – almeno in teoria – può puntare Di Maio è quasi il doppio, per di più concentrato in gran parte nel voto meridionale raccolto su presupposti e promesse assai diversi da quelli su cui al nord la Lega fonda il suo consenso. Quando dalle parole si passerà ai numeri, cioè alle risorse da destinare concretamente ai capitoli di bilancio, le contraddizioni esploderanno.
Se infatti il “contratto di governo” è serio – come quello tedesco evocato da Di Maio – esso non prescinde mai da un contesto di compatibilità finanziaria; soprattutto in Italia dove il problema fondamentale resta quello di non aumentare il debito pubblico e possibilmente ridurlo.

Berlusconi
La marcia indietro di Berlusconi si è resa necessaria, al di là dei comprensibili veti dei Cinque Stelle, per consentire la formazione di un governo anche a costo di rinviare la resa dei conti sui nodi fondamentali, ed è motivata da una sola ragione: evitare il ritorno alle urne. Non soltanto per le ovvie resistenze dei parlamentari appena eletti ma anche perché esso rappresenta un rischio che nessuno vuole correre: se infatti – come è possibile – i risultati non fossero molto diversi dal 4 marzo (almeno nella conferma di un tripolarismo di fatto) la situazione resterebbe identica, ma se si verificassero possibili contraccolpi (soprattutto in un elettorato strutturalmente volubile come quello che ha votato Cinque Stelle) si aprirebbero scenari imprevedibili senza contare un probabile aumento di astenuti che delegittimerebbe l’intero futuro parlamento.
C’è però dell’altro. Se le distanze tra Forza Italia e Salvini aumentassero si offrirebbe a Berlusconi l’opportunità di rappresentare quella parte di elettorato di centro-destra che non si riconosce nelle posizioni estremistiche della Lega; scegliendo con cura il momento della rottura e proponendo una nuova leadership in grado di trovare validi interlocutori nel mondo imprenditoriale il vecchio leader potrebbe contendere alla Lega la parte più moderata dei suoi elettori, spingendo Salvini verso l’estrema destra. Nel contempo bloccherebbe il tentativo di Renzi di espandersi al centro, costringendolo a ricompattarsi con la sinistra del PD. Ma per fare questo bisognerebbe non essere Berlusconi.

Renzi
Invece di fare un passo indietro Matteo Renzi ha fatto uno sgambetto, facendo cadere prima ancora di sedersi al tavolo ogni possibile accordo tra il suo partito e il movimento Cinque Stelle. La strategia di Renzi appare chiara: lasciare governare i due movimenti populisti nella speranza che inciampino nelle difficoltà oggettive che hanno travolto lui stesso per poi ripresentarsi come salvatore della Patria. Un piano che sa più di risentimento personale, di vendetta contro il popolo (di sinistra) che lo ha tradito, che non di una visione convincente sul futuro del Paese.
Se davvero (e questo va verificato) il movimento di Grillo non è un fatto transitorio destinato a dissolversi (come fu per l’Uomo Qualunque dopo la guerra) ma intercetta un modo nuovo e diverso di concepire la politica e soprattutto incarna una domanda di onestà politica (del cui miserevole stato anche la sinistra porta la sua parte di responsabilità), una visione lungimirante avrebbe dovuto portare a un confronto tra partito democratico e movimento Cinque Stelle. Averlo rifiutato, e per giunta in modo pregiudiziale, è stato probabilmente l’ennesimo errore di Renzi. Se infatti si fosse raggiunto un accordo per un appoggio esterno, condizionato da paletti insuperabili (Europa, stabilità di bilancio, fedeltà alle alleanze), il PD avrebbe conseguito diversi risultati: dimostrare senso di responsabilità verso il Paese (come suggeriva Mattarella), incanalare l’attività di governo verso obiettivi compatibili, accettare senza problemi un’autocritica sugli errori commessi (però non sulle leggi fondamentali su pensioni, scuola e lavoro, che possono essere ridiscusse ma non eliminate), proporsi anche nella sconfitta come elemento affidabile di stabilità al servizio del Paese. Non credo che l’elettorato di centro sinistra avrebbe condannato questo comportamento.
In più un appoggio esterno a un monocolore Cinque Stelle (condito con qualche “tecnico” concordato) avrebbe accelerato il distacco di Berlusconi da Salvini, costringendo quest’ultimo a chiudersi nella ridotta estremistica della Lega in compagnia dei post-fascisti della Meloni.
Ma per fare questa operazione bisognava non essere Renzi.

 

Franco Chiarenza
12 maggio 2018