Il percorso del governo Conte somiglia sempre più a una corsa a ostacoli. Gli scontri tra gli alleati della maggioranza si moltiplicano, le mediazioni del presidente del Consiglio sono continue e affannose, manca un progetto a lunga scadenza realmente condiviso a fronte di una situazione economica che resta molto difficile malgrado i deboli segnali di ripresa che provengono dai dati del primo trimestre (dovuti essenzialmente a un miglioramento della bilancia commerciale). Nel frattempo i due partiti di governo, incassati i dividendi elettorali su cui hanno investito (si vedrà nel tempo quanto consistenti), riscoprono le profonde differenze ideologiche che li dividono e che costituiscono un limite invalicabile alla loro alleanza; in sostanza quel che li univa si va esaurendo, ciò che li separa emerge inesorabilmente. La domanda è: chi staccherà la spina per primo e quando?

Incognita europea
Mi pare chiaro che chi prenderà l’iniziativa di rompere l’alleanza sarà il movimento Cinque Stelle. E ciò per diverse ragioni: la crescente insofferenza della propria base militante (assai superiore a quella, che pure esiste, della base leghista), la consapevolezza che la perdita di oltre dieci punti nel consenso elettorale (dato per certo da tutti i sondaggi) costituisce un fatto strutturale difficilmente recuperabile stando al governo, la possibilità (magari sostituendo in corsa il “capo politico”) di cambiare alleato e mantenere in vita la legislatura (eventualità evidentemente preclusa a Salvini). Non so quanto sia vero che Grillo si sia lasciato sfuggire l’ammissione di “essere inadeguati” rivolta al suo movimento, ma certamente questa è la realtà, come dimostra anche la vicenda sempre più penosa della sindacatura Raggi a Roma. E poiché fare l’opposizione è più facile che governare capisco la voglia di tornare a fare baccano e lasciare ad altri il compito di sciogliere nodi sempre più aggrovigliati (che loro stessi hanno contribuito ad aggravare). In tale prospettiva (se essa dovesse prevalere nelle segrete stanze della Casaleggio&C.) in panchina c’è Di Battista che riscalda i muscoli.
Diversa la situazione di Salvini. Il leader della Lega sa di avere raggiunto probabilmente il pieno dei consensi e che però questo non basta per governare da solo (e nemmeno con l’alleanza di Berlusconi e di Meloni, replicando una formula che ha avuto successo nelle elezioni regionali ma non avrebbe i numeri sufficienti a livello nazionale).
Per questo le elezioni europee rappresentano una cartina di tornasole fondamentale. Se dovessero confermare il declino dei Cinque Stelle saranno loro a staccare la spina, anche a costo di aprire una crisi al buio. E per farlo sceglieranno il terreno a loro più congeniale, quello della questione morale (e ciò spiega i toni usati sulla questione Siri). Peccato che le continue goffagini della Raggi costituiscano un serio ostacolo a tale progetto (e non a caso sulla “questione romana” Salvini spinge l’acceleratore, anche per togliere ai Cinque Stelle il monopolio della virtù).

Opposizione invisibile
In tutto questo bailamme colpisce il silenzio assordante dell’opposizione. Al di là delle dichiarazioni di maniera (stile vecchio PCI) Zingaretti pare più intento a cercare alleanze all’interno del perimetro circoscritto della sinistra tradizionale piuttosto che avviare una seria controffensiva mediatica, Calenda si lecca le ferite di un’iniziativa sbagliata perchè percepita come collaterale al PD invece che tesa a raccogliere consensi in un’area elettorale che non si riconosce nella leadership di quel partito. Toccherebbe a +Europa svolgere questa funzione di raccolta ma anche qui, almeno fino ad ora, si percepisce soltanto una presenza sbiadita. Anche perchè la speranza che finalmente in queste elezioni si voti finalmente in base a tematiche davvero europee si sta affievolendo; a fronte di un europeismo di bandiera, stanco e diviso, la destra ha buon gioco a definire il suo nazionalismo non anti-europeo ma “diversamente europeista”, richiamandosi a presunti valori identitari comuni su cui raccogliersi “contro” qualcuno e qualcosa (immigrati, burocrati di Bruxelles, globalizzazione, ecc.). E in tale contesto riproporre all’elettorato scelte politiche sostanzialmente nazionaliste e prive di qualsiasi riferimento ai veri problemi dell’Europa.

Franco Chiarenza
25 aprile 2019

Roma è di nuovo nell’occhio del ciclone. E quando mai non lo è stata? potrebbe obiettare qualcuno. E avrebbe ragione: da molti anni ormai la Capitale è diventata sinonimo di malaffare, corruzione, inerzia burocratica, pigrizia culturale. E inoltre – in questo almeno specchio fedele del Paese – indebitata fino all’osso del collo nella totale indifferenza dei suoi abitanti che pensano che prima o poi qualcuno (cioè lo Stato, cioè tutti gli italiani) pagherà.
Il fatto che Salvini usi strumentalmente le difficoltà della sindaca Raggi per riattivare la vecchia bandiera anti-romana della Lega di Bossi nulla toglie al fatto che un “problema romano” esiste e non da oggi. La gestione Raggi, al di là degli evidenti limiti politici della persona, non ha risolto nulla per la semplice ragione che – come sempre fa il movimento che l’ha espressa – scambia l’ordine dei fattori della crisi: Roma (e l’Italia tutta) non è in crisi perché è corrotta, è corrotta patologicamente perché non riesce a risolvere i problemi strutturali che la riguardano e, in particolare, la capacità di svolgere in maniera funzionale il suo ruolo di Capitale.
Cosa vuol dire “problemi strutturali”? Significa – detto in soldoni – burocrazia meno asfissiante e più efficiente (e forse meno numerosa), servizi adeguati a una metropoli su cui gravitano oltre tre milioni di abitanti, capacità di accoglienza per le diverse tipologie di ospiti che la frequentano (turismo religioso e di massa, turismo di èlite, corpi diplomatici, attività di governo, uomini d’affari, eventi culturali, mondo della comunicazione e dello spettacolo, ecc.), investimenti nella mobilità (soprattutto potenziando la rete su ferro sotterranea e in superficie), sviluppo urbanistico fondato su certezze giuridiche in grado di diminuire drasticamente i poteri discrezionali dell’amministrazione, fonte di ogni corruzione; il che comporta forse una revisione del piano regolatore ma soprattutto una normativa più severa sulle deroghe (anch’esse fonte di abusi come quelli perpetrati a danno dei vincoli ambientali e archeologici (che a Roma ovviamente rivestono particolare importanza).
E altro si potrebbe aggiungere per definire tutti quei problemi che non riguardano la quotidianità ordinaria ma che per essere risolti richiedono progetti ad ampio respiro seriamente studiati per immaginare la direzione da imprimere allo sviluppo futuro della città e i mezzi per farvi fronte. .

Non è sempre stato così
Chi scrive è abbastanza vecchio per avere conosciuto un’altra Roma, quella dell’inizio della Repubblica, quando sulla Capitale si riversavano le speranze, i progetti, i confronti – anche aspri – politici e culturali, quando era capitale indiscussa della letteratura, dei nuovi mezzi di comunicazione, di ogni genere di espressione artistica. Quando, forse per la prima volta nella sua storia moderna, sembrava davvero avere acquisito una centralità riconosciuta, quando più della metà dei suoi abitanti venivano dal resto d’Italia dando vita a un melting pot straordinario che coinvolgeva ogni strato sociale. Certo, l’espansione incontrollata della città, i fenomeni corruttivi già allora preoccupanti, gli attentati al patrimonio naturalistico e archeologico (invano denunciati da Cederna), facevano già intravedere un futuro problematico; i settori più vigili della sinistra democratica suonavano il campanello d’allarme (“Capitale corrotta = Nazione infetta” titolava una famosa inchiesta dell’Espresso nel 1955). Ma comunque la città riusciva, nonostante tutto, a mantenere un ruolo centrale, punto di riferimento obbligato per l’intera classe dirigente, come avviene normalmente in tutte le capitali europee. Anche sul piano internazionale Roma non rappresentava soltanto un patrimonio storico e culturale unico al mondo ma riusciva anche a mantenere una capacità di presenza che ne faceva, con Parigi e Londra (Berlino essendo ancora divisa dal Muro, Madrid capitale di un paese ancora in fase di uscita dal regime franchista) un polo di richiamo ineludibile.
Poi, lentamente ma inesorabilmente, è cominciata la decadenza. E se non si smetterà con la politica dei “pannicelli caldi” essa continuerà rendendo ancor più invivibile la città ai suoi abitanti e più antipatica al resto degli italiani che si sentono doppiamente danneggiati: per i soldi elargiti a fondo perduto e per lo svantaggio che deriva a tutto il Paese da un’immagine così deteriorata della propria Capitale.

Come procedere
Bisogna spiegare agli italiani che una Capitale efficiente e presentabile è una convenienza per tutti, anche per coloro che vivono in periferia e che con Roma bazzicano poco. Lo slogan dell’Espresso può essere rovesciato: Capitale efficiente = Nazione avvantaggiata. Ma occorre anche prendere atto che una Capitale ha dei sovraccosti che derivano dalla sua stessa funzione, e per tale ragione tutte le capitali del mondo sono governate da leggi che in qualche modo ne riconoscono la specificità e la regolano in maniera trasparente e controllabile. Fu quello che a suo modo fece il fascismo con l’istituzione del governatorato. Dopo la guerra la reazione alla retorica romanista che era stata largamente utilizzata dalla propaganda del regime non consentì di affrontare il problema con la serenità necessaria; Roma fu considerata un comune come gli altri (dal punto di vista istituzionale) e non furono certo le modifiche costituzionali del 2002 e la ridenominazione del Comune con la dizione Roma Capitale a modificare concretamente la situazione. Occorreva più coraggio e mettere in cantiere una legge organica che definisca lo “status” della Capitale, separando dove è possibile le responsabilità che ricadono sull’amministrazione centrale dello Stato (con i relativi oneri) da quelle che riguardano la gestione ordinaria che non hanno ragione di essere trattate diversamente da ogni altra città metropolitana. Di fatto (ma purtroppo mai con un chiaro disegno giuridico istituzionale) così avveniva prima del fascismo; lo Stato si assumeva molti oneri, sovraintendeva alle opere pubbliche necessarie, controllava direttamente parti importanti della città (ministeri, caserme, aree archeologiche, persino il fiume Tevere, ecc.). Sarebbe ora di mettere mano a un provvedimento organico, un quadro definitivo entro il quale sia possibile ai diversi organismi che oggi incidono sulla vita della Capitale (Stato, Regione, Città metropolitana) definire i propri compiti e relative responsabilità. E, poiché si tratta di metterci anche soldi, è giusto che chi paga possa controllare le spese. Nel pieno rispetto delle garanzie democratiche, dell’autonomia istituzionale della Città, è possibile trovare strumenti di garanzia che rispettino anche la legittima pretesa dei cittadini italiani di conoscere quanto gli costa la Capitale e in cambio di quali servizi. Servirebbe non soltanto a fare ripartire Roma ma anche a riconciliarla con tutti gli italiani.

Franco Chiarenza
23 aprile 2019

Il libro è un fascio di luce sul dramma, la confusione, le contraddizioni, incertezze, inconsapevolezze e comportamento dei protagonisti dei dieci giorni che vanno dal 16 luglio 1943 – quando si ebbero i primi contatti per la riunione del Gran Consiglio – al 25 luglio quando la riunione, andando oltre le finalità dei partecipanti, determinò la fine del regime fascista sigillata dall’arresto di Mussolini alle 17.30 dello stesso 25, ordinato dal re “per proteggerlo”.

Già negli ultimi anni del 1942, con le sconfitte in Africa e in Russia, si cominciò a pensare che la guerra sarebbe stata perduta. Poi, il 10 luglio 1943 c’era stato lo sbarco degli alleati in Sicilia e il 19 il bombardamento di Roma, preceduto il 17 da un lancio di manifestini firmati da Roosvelt e Churcill che incitavano gli italiani a scegliere se “morire per Mussolini e Hitler o vivere per l’Italia e la civiltà”. Per salvare l’Italia dalla catastrofe occorreva sganciarsi dalla Germania, esautorare Mussolini, restituire il comando del Paese al re e cercare una pace separata. Fin dal 1942 i militari avevano pensato di porre fine al regime eventualmente anche eliminando Mussolini, ma l’iniziativa era condizionata all’assenso del re che esitava. I rapporti sull’umore della popolazione che il capo della polizia inviava a Mussolini non lasciavano dubbi: “non hanno paura di parlare apertamente contro il regime … dicono che il DUCE non può farsi vedere in pubblico perché la gente lo lincerebbe … dappertutto si sente parlar male del DUCE …”). Era questa la situazione che Emilio Gentile presenta come premessa e sfondo alla riunione del Gran Consiglio.

La riunione del 25 luglio fu originata dalla decisione del regime di indire per il 18, in ogni capoluogo di regione, adunate di incitamento alla resistenza contro l’invasore sbarcato in Sicilia. Avrebbero dovuto parlare i principali esponenti del regime molti dei quali membri del Gran Consiglio. Da parte dei designati ci furono perplessità e resistenze per cui il segretario del partito Scorza indisse una riunione per il 16. Fu l’occasione per un conciliabolo tra gerarchi che si risolse in una richiesta della convocazione del Gran consiglio che poi ebbe inizio il 24.

La mancanza di un verbale della riunione del Gran Consiglio ha comportato la necessità di ricostruire quei giorni in base a diari, memorie, dichiarazioni, articoli, appunti e ricordi dei protagonisti; documentazioni per lo più parziali, postume, ripensate e scritte col senno di poi, inconsapevolmente inesatte o apologetiche o tendenti a giustificare la propria condotta, spesso discordanti. Emilio Gentile definisce “apocrifi d’autore” molti degli scritti dai quali, con una sorta di “calcolo combinatorio”, di accettazione delle concordanze e di eliminazione delle discordanze e di ciò che risultava implausibile, ha potuto ricostruire i dieci giorni che vanno dal 16 al 25 luglio.
Il quadro che si ricava da questo lavoro di cernita ci fa anche conoscere i protagonisti della riunione e le loro precedenti generali posizioni e atteggiamenti di obbedienza assoluta con successiva pretesa di un’indipendenza mai esistita; con qualche eccezione come quella di Bottai che da tempo era critico sull’eccessivo accentramento dei poteri su Mussolini.

L’ arresto di Mussolini fu solo anticipato rispetto a quello già deciso dal re e dai militari per qualche giorno dopo. La riunione del Gran Consiglio semplicemente lo anticipò e dette al re un “motivo legittimo” per agire.

Le tragedie del dopo il 25 luglio sono note. Dal 25 luglio si arrivò presto a quell’otto settembre che Galli della Loggia chiamò “Morte della Patria” e di cui scrisse nell’omonimo libro, e per il quale Silvio Bertoldi descrisse nei suoi libri la pochezza, inettitudine, irresponsabilità – e diremmo anche viltà – da parte di chi aveva la possibilità e il dovere di guidare l’Italia. Solo negli ultimi anni la data dell’otto settembre ha stemperato quel triste alone emotivo che la circondava: è l’effetto della progressiva scomparsa di coloro che quei giorni li vissero o “sentirono”. Ma i meno giovani quella triste data non la dimenticano. Rimane la domanda se quel che avvenne dopo il 25 luglio si poteva evitare, se si poteva uscire dalla guerra in modo dignitoso e meno tragico, se si poteva evitare lo sfascio e la disgregazione dell’esercito, se si poteva evitare Cefalonia, …

E del libro colpiscono le considerazioni e le domande che si pongono e si suggeriscono e sul se Mussolini poteva essere indotto a trattar lui un distacco dalla Germania favorendo una fine meno tragica della guerra.

Ma le cose andarono come andarono. Ormai è tutto storia, una storia amara.

 

Guido Di Massimo
17 Aprile 2019

 

Emilio Gentile, 25 Luglio 1943, Laterza (Roma-Bari 2018), pp.320, euro 18

La creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario ha suscitato molte preoccupazioni e lo stesso Capo dello Stato non ha mancato di sottolineare in una comunicazione ai presidenti delle Camere la sua inquietudine. Si teme che la maggioranza di governo voglia scardinare l’attuale sistema creditizio mettendolo sotto accusa e inseguendo così, ancora una volta, una facile popolarità. Perchè le banche in Italia non sono mai state popolari (anche quando si chiamano così). Uno degli obiettivi del populismo infatti – sempre e ovunque – è stato quello di “riformare” le banche rendendo più facile l’accesso al credito. Piace a tutti prendere i soldi a prestito, piace meno restituirli alla scadenza, non piace affatto che si debbano pagare gli interessi. In materia regna una grande confusione alimentata anche dalla diffusa ignoranza sul funzionamento di un’economia moderna, complice pure la scuola che non ne prevede l’insegnamento almeno dei principi basilari.
Dietro tanta ostilità si scorge la convinzione che le banche dovrebbero essere pubbliche o che comunque le loro eventuali perdite debbano sempre essere garantite dallo Stato inteso come pagatore di ultima istanza di tutti i debitori “che non ce la fanno”. Ma le cose non stanno così ed è bene che non stiano così; e quando stavano più o meno così – negli anni della prima repubblica – è anche per questo che abbiamo accumulato quel gigantesco debito pubblico che da allora ci portiamo appresso.

Perché autonome
Il sistema creditizio è oggi articolato in molti istituti privati in competizione tra loro; chi porta i soldi in banca può scegliere quella che offre maggiori vantaggi, chi chiede un mutuo o un prestito cerca l’istituto di credito che offre le migliori condizioni. Dalla concorrenza, come sempre, l’utente ha tutto da guadagnare. Naturalmente le banche corrono dei rischi dai quali cercano di proteggersi (talvolta esageratamente) che si accentuano quando le crisi economiche colpiscono l’occupazione e quindi i redditi. Per questo la legge impone alle banche di mantenere un patrimonio sufficiente a far fronte a qualsiasi difficoltà e attribuisce alla Banca d’Italia il compito di vigilare in proposito.
Per evitare che la politica inquini il sistema creditizio (come è largamente avvenuto durante la prima repubblica) favorendo operazioni in perdita per motivi di consenso elettorale la Banca d’Italia deve mantenere la propria autonomia.

Perché europee
Oggi le banche operano indifferentemente in tutti i paesi europei che hanno adottato l’euro; banche francesi e tedesche sono largamente presenti in Italia, banche italiane sono protagoniste in alcuni paesi dell’est, ecc. L’unità monetaria ha spostato alcune funzioni di controllo dalle banche centrali dei singoli paesi alla Banca centrale europea che ha sede a Francoforte; ma ancora non è stato possibile unificare anche le diverse normative in maniera da rendere l’eurozona realmente omogenea (Unione bancaria). Quando ciò avverrà avremo finalmente un sistema creditizio europeo competitivo e aperto.

Perché falliscono
Con l’adozione del cosiddetto “bail in” le banche non possono più contare automaticamente nel sostegno dello Stato quando non sono in grado di onorare i loro impegni. E in proposito occorre fare alcune distinzioni non sempre chiare al grande pubblico. Gli azionisti (proprietari) delle banche non dovrebbero mai essere esentati dalle loro responsabilità: sono stati loro a nominare gli amministratori che non hanno saputo gestire l’istituto ed essendo sempre loro a incassare i profitti quando ci sono, è giusto che paghino quando perdono; si chiama infatti capitale di rischio. Diversa la posizione di chi è stato indotto ad acquistare titoli di credito della banca in cambio di finanziamenti; se l’illecito è dimostrato i dirigenti della banca dovrebbero andare in galera e i truffati risarciti (se necessario anche dallo Stato che però dovrebbe rivalersi sul patrimonio delle banche in questione). Infine ci sono i correntisti, considerati sempre vittime innocenti ma qualche volta invece “furbetti” che hanno speculato su improbabili tassi di interesse e, quando è andata male, piangono all’ombra di alcuni ingenui che sono stati davvero raggirati. In tal caso lo Stato (e lo stesso sistema bancario attraverso strumenti di solidarietà) deve garantire i conti correnti di modesta entità. Ma una cosa è certa: l’opinione pubblica non è stata sufficientemente informata che anche le banche possono fallire e che “mettere i soldi in banca” non è più sinonimo di sicurezza. Anche le banche, come ogni altro servizio privato, vanno scelte con attenzione.

In conclusione: Mattarella ha ragione a preoccuparsi. In un momento di crisi come quello che nuovamente stiamo attraversando mettere sotto accusa le banche e cercare nella Banca d’Italia un capro espiatorio per ridurne l’autonomia significa allarmare ulteriormente i mercati, allontanare gli investimenti, rendere problematici i finanziamenti. E’ impossibile che gli uomini di governo, per sprovveduti che siano, non ne siano consapevoli; ma cosa non si farebbe per qualche voto in più!!!

Franco Chiarenza
16 aprile 2019