Le previsioni più o meno sono state rispettate. Poche sorprese quindi dai risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento dell’Unione Europea. Ora che il temporale è passato mostrandosi meno devastante dello tsunami che alcuni avevano a più riprese preannunciato, cerchiamo di capire quali sono le conseguenze che dovremo trarne: in Europa e in Italia. Naturalmente dal nostro punto di vista, quello del “liberale qualunque”.

In Europa

  1. I “sovranisti” sono cresciuti (come previsto), ma non fino al punto di rovesciare l’ampia maggioranza europeista. Essendo molto divisi tra loro potranno costituire un blocco frenante ma non ispirare un progetto alternativo, come dicono di voler fare.
  2. I popolari (democratici cristiani) sono diminuiti (come previsto) ma restano il primo partito in Europa. Sono però deboli perchè riflettono le difficoltà del paese in cui hanno maggior peso, la Germania. Il loro candidato alla presidenza della Commissione (Manfred Weber) potrebbe non farcela.
  3. La vera (e unica) sorpresa è costituita dai Verdi che sono cresciuti ovunque e potrebbero essere determinanti per le future maggioranze parlamentari. Hanno le idee chiare, una leadership credibile (sia in Germania che in Francia), inseriscono perfettamente la loro sensibilità ambientale nelle istituzioni dell’Unione che difendono senza riserve (euro compreso).
  4. I liberaldemocratici hanno consolidato la loro terza posizione. Purtroppo in gran parte per l’apporto dei liberali inglesi (che hanno raccolto molti voti anti-Brexit) che verrà meno quando l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione giungerà a compimento, probabilmente in ottobre.
  5. Il sorpasso dei sovranisti francesi sul partito di Macron non è una sorpresa. I candidati “europeisti” hanno sempre prevalso sulla destra soltanto al ballottaggio; il voto europeo conferma che la Francia è purtroppo spaccata in due e lo resterà per molto tempo, come la Gran Bretagna. Sarà un caso che entrambe siano ex-imperi coloniali che scontano resistenze nazionaliste, certamente irrazionali ma in grado di aggregare i tanti motivi di protesta che inevitabilmente si formano in una società democratica? Comunque non vi saranno conseguenze a breve termine per Macron; la sua debolezza non deriva dall’incalzare di Marina Le Pen ma dal venir meno (per diverse ragioni) di interlocutori credibili in Germania e in Italia con cui fare blocco in Europa.
  6. In Gran Bretagna le elezioni hanno assunto inevitabilmente il carattere di un secondo referendum sulla Brexit. Non stupisce quindi il successo dell’anti-europeista Farange, peraltro compensato dall’avanzata dei liberal-democratici (europeisti) e dalla tenuta dei laburisti (molti dei quali europeisti). Ne esce, ancora una volta, un paese diviso a metà che la nuova leadership conservatrice non potrà facilmente governare. Nuove elezioni saranno inevitabili, salvo un improbabile accordo tra conservatori e laburisti per una soft Brexit. Ma nel frattempo cosa sarà successo in Europa?

In Italia

A giudicare dal comportamento elettorale degli italiani sembra quasi che il loro Paese non si trovi in Europa. La dinamica e le ragioni del voto italiano non corrispondono infatti a quelle degli altri grandi paesi europei.

  1. La Lega cresce anche oltre il 30% già previsto. Ma il consenso trasversale che raccoglie dovrebbe preoccupare Salvini per le contraddizioni interne che lo caratterizzano. Buona parte del nord (compreso il Piemonte strappato al PD) che ha votato la Lega con percentuali “bulgare” non condivide posizioni estremistiche contro l’Unione europea e non metterebbe mai a rischio i vantaggi che gli sono derivati dall’apertura dei mercati; anche perché si tratta spesso di elettori che provengono da settori moderati che in passato avevano votato Forza Italia o Cinque Stelle. Mettere insieme tante diversità per una proposta credibile, al di là degli slogan, sarà difficile: in Italia e in Europa.
  2. Il crollo dei Cinque Stelle (ampiamente preannunciato dai sondaggi) è andato oltre le più fosche previsioni, soprattutto al centro-nord. Ma non bisogna credere che il movimento di Grillo e Casaleggio stia per scomparire dalla scena: perderà ancora qualche pezzo (tra cui probabilmente Roma e Torino dove i risultati elettorali sono suonati come mozioni di sfiducia per le relative sindache pentastellate) ma, riordinate le idee, manterranno un forte potere di condizionamento, soprattutto nel sud. Se risolvessero alcuni problemi di democrazia interna e orientassero la loro immagine più sull’ambientalismo (sviluppo sostenibile) e meno sul giustizialismo e su misure assistenziali che hanno alimentato un consenso sostanzialmente clientelare, la loro collocazione europea potrebbe avvicinarsi ai Verdi.
  3. Il partito democratico ha mostrato segni di ripresa, soprattutto in alcune elezioni amministrative. Tuttavia il tentativo di Calenda di raccogliere attorno al PD tutte le forze europeiste e anti-salviniane, a prescindere dagli orientamenti socialisti o liberal-democratici, è fallito, anche perchè si risolveva in una confluenza confusa nel partito socialista europeo. L’elettorato liberale si è diviso tra +Europa (ALDE), PD (PSE), e FI (PP), ritrovandosi nella penosa situazione di non essere rappresentato in Europa da nessuno.
  4. Emma Bonino non è riuscita a superare la soglia del 4%. Le ragioni sono sostanzialmente tre: la sfiducia nella possibilità di raggiungere il quorum che ha indotto molti a votare Calenda (e anche Berlusconi), veti e obiezioni di carattere personale soprattutto nei confronti di Tabacci e Della Vedova, la mancanza di una proposta programmatica più visibile e originale di quanto non sia stata. Il risultato raggiunto in condizioni così difficili è comunque positivo e induce noi liberali a sperare che possa costituire in futuro il nocciolo duro su cui costruire una partito di centro, laico e liberale, integrato in Europa a pieno titolo nella nuova alleanza tra Macron e l’ALDE.
  5. I risultati della giornata elettorale del 26 maggio complessivamente considerati (con le elezioni regionali e in molte città) fanno fare oggettivamente un passo avanti al progetto berlusconiano di una “grande destra” a guida moderata perché dimostrano che Salvini non può fare a meno dell’appoggio di Forza Italia per conquistare la maggioranza (come infatti è avvenuto in Piemonte). Salvini e Meloni però, pur temendo l’isolamento (soprattutto in Europa dove la mediazione “popolare” di Berlusconi sarà necessaria per non restare esclusi dai giochi), non vogliono d’altra parte avere “nemici a destra”. Ricordate il vecchio slogan della sinistra “nessun nemico a sinistra”? Ora lo praticano anche le destre per non lasciare a Casa Pound il monopolio del nostalgismo, che qualche peso, soprattutto in termini di militanza, pure lo dà. A questo pasticciato intrigo tutto è consentito tranne l’uso del termine “liberale”.

Qualcuno chiederà: e il governo Conte che fine farà? Non lo sa nessuno perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di farlo cadere. E’ condannato a morte dai risultati elettorali del 26 maggio ma – come il Bertoldo della seicentesca novella – ha chiesto la grazia di scegliere l’albero a cui essere impiccato. Potrebbe passare ancora un bel po’ di tempo. Resto comunque convinto che la spina la staccheranno i Cinque Stelle anche a costo di elezioni anticipate che li vedrebbero fortemente ridimensionati. Salvini infatti appena chiuse le urne si è affrettato a dichiarare che il governo potrà continuare ma ha invertito l’ordine delle priorità mettendo subito in difficoltà Di Maio. Il quale si trova anche a fronteggiare un visibile disagio dei gruppi parlamentari destinati alla decimazione un po’ per il calo del consenso elettorale ma anche per l’assurda regola dell’”inesperienza al potere” in base alla quale i pentastellati non possono avere più di due mandati. Altrimenti si corrompono.

 

Franco Chiarenza
28 maggio 2019

Pierluigi Ciocca è un economista troppo noto perchè si debba qui ricordarne i meriti; il suo curriculum all’interno della Banca d’Italia rende sempre le sue tesi credibili e meritevoli di rispetto.
Il libro di cui parliamo è utile per diverse ragioni: la prima è di carattere storico perché l’autore ci ricorda con dati e cifre inoppugnabili le vere ragioni della nostra crisi, al di là dei tanti miti che hanno accompagnato la crescita del nostro Paese (a cominciare da quello del “piccolo è bello”, dimostrando che il piccolo che non cresce rischia di morire precocemente).
Ma la ragione più importante per la quale il “liberale qualunque”, notoriamente incompetente in materia, raccomanda la lettura di questo libro è un’altra: in esso traspare (e non è la prima volta nell’ampia produzione di Ciocca) non soltanto una riabilitazione del ruolo svolto dall’IRI – la grande conglomerata pubblica ereditata dal fascismo che dominò l’economia italiana nel dopoguerra – nella ricostruzione del Paese e nel rilancio della crescita, ma anche l’intenzione di riproporre, in forme e modalità diverse, la necessità di un intervento pubblico coordinato finalizzato alla creazione delle grandi infrastrutture (non solo sul territorio ma anche nelle articolazioni del credito e nella distribuzione delle risorse disponibili) sottraendolo alle spinte elettorali contingenti: pubblico sì ma autonomo nelle scelte, come fu appunto – almeno in parte – il sistema che si andò formando nel dopoguerra (IRI, ENI, EFIM e poi anche ENEL).
Per un liberale come me “innamorato” dell’economia di mercato e delle privatizzazioni, che in passato ha sempre deprecato l’esistenza di questi “mostri” incontrollabili attraverso i quali il potere politico esercitava un innegabile condizionamento clientelare, queste nostalgie suscitano qualche perplessità, ma inducono a riflettere senza pregiudizi.

Lo spazio di una recensione – necessariamente breve – non consente di argomentare le diverse sollecitazioni contenute nel saggio di Ciocca; ma certamente va detto, anche in considerazione della attuale situazione italiana, che l’idea di utilizzare alcune disponibilità patrimoniali dello Stato (per esempio le partecipazioni in IRI e ENEL che non hanno altra funzione al di là degli utili che distribuiscono) e la stessa Cassa depositi e prestiti, per costituire un meccanismo pubblico di sostegno, partecipato anche da capitali privati, garantito nella sua autonomia, in grado di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, di dare impulso alla ricerca finalizzata all’innovazione (di cui il nostro sistema produttivo ha tanto bisogno), merita di essere seriamente considerata. Se davvero potesse essere realizzato nei termini proposti nel libro un meccanismo di sostegno pubblico coordinato e trasparente potrebbe svolgere un’utilissima funzione per il rilancio dell’economia italiana, oggi soffocata dalle urgenze dettate dall’emergenza o dagli appuntamenti elettorali. Non vedo in ciò nulla che non sia compatibile con le più moderne esperienze di economie di mercato (e anche di quelle antiche, come fu l’IRI ai suoi inizi). Meglio sicuramente degli interventi pubblici di rappezzo, disorganici, costosi, spesso inopportuni perché spinti da proteste sindacali che si prestano ad essere coperture di inefficienze imprenditoriali, impedendo quella necessaria funzione di “distruzione creativa” che per Schumpeter costituisce un momento essenziale della rigenerazione capitalistica (e quindi della sua vitalità). Certo, i fallimenti non devono ricadere sui lavoratori (i quali, in questi casi, vanno tutelati con adeguati e transitori strumenti assistenziali) ma non si deve consentire il ricatto sociale per mantenere in vita realtà produttive incapaci di affrontare il mercato.
Da un punto di vista liberale l’intervento pubblico si giustifica come sostegno alle imprese in crisi soltanto quando per le loro dimensioni, per l’importanza che hanno sull’intera filiera produttiva (come nel caso di Taranto) o per i riflessi di una crisi globale (come sono state quella “classica” del 1929 ma anche le altre che si sono succedute dopo il 2008) le conseguenze di un loro fallimento avrebbero comportato effetti disastrosi per l’intera economia del Paese. E poiché partecipiamo a un mercato comune con gli altri paesi europei spetta naturalmente agli organismi competenti (in particolare alla Commissione dell’Unione Europea) sincerarsi che l’eventuale “aiuto di Stato”, vietato dai trattati, abbia quei caratteri transitori ed emergenziali che lo giustificano.

Una proposta come quella abbozzata nel libro (peraltro come mera ipotesi) non poteva che venire da un economista come Ciocca, sempre controcorrente (o meglio contro alcune correnti), uno che non cerca negli eventi esterni le responsabilità della nostra difficile situazione economica, ma le attribuisce, con cifre e constatazioni difficilmente contestabili, alle nostre classi dirigenti e alle loro scelte; non soltanto alla classe politica ma anche agli imprenditori, ai sindacati, alle variegate e variopinte corporazioni che perpetuano i loro privilegi dai tempi del fascismo. Se è vero che molti nemici rappresentano una ragione d’onore (come hanno sostenuto – pare – condottieri antichi, dittatori moderni e ministri contemporanei) Ciocca sta a posto.
Tutto ciò premesso, il “liberale qualunque” (che nemico di Ciocca non è, anzi ritiene di esserne amico) si chiede: ma con la classe politica che ci ritroviamo (compresa l’opposizione), chi è in grado di garantire che un tale “meccanismo” (come tiene a definirlo Ciocca) non degeneri in qualcosa di molto diverso?

Prima di concludere voglio segnalare, tra le tante cose interessanti di cui parla il libro, due in particolare, su cui non mi soffermo ma che ritengo imperdibili per i lettori: il capitolo che analizza la centralità della Germania e la sua formula dell’economia sociale di mercato, nei suoi pregi e nei suoi (tanti) difetti, e l’altro che analizza le possibili drammatiche conseguenze di una nostra uscita dall’euro. Può darsi che nei dintorni di palazzo Chigi qualcuno si sia spinto fino alla fatica di leggerlo perché di “Italexit” non sento parlare più.

Franco Chiarenza
7 Maggio 2019

 

Pierluigi Ciocca, Tornare alla crescita, Donzelli editore (Roma 2018), pp. 209, euro 19

Il 26 maggio si voterà per il nuovo parlamento europeo. E’ un appuntamento importante per diverse ragioni:

  1. perché il parlamento europeo svolge un ruolo fondamentale in molte materie ma soprattutto nella elezione della Commissione e nell’approvazione del bilancio comunitario. Un cambiamento di maggioranza avrebbe ripercussioni dirette su tutti i paesi dell’Unione.
  2. perché l’Unione sta attraversando un momento cruciale della sua esistenza. Attaccata all’interno da chi vuole farla regredire a una zona di libero scambio, all’esterno da chi ne teme le potenzialità se procedesse nell’integrazione (Russia, Cina ma anche Stati Uniti da quando Trump ha rilanciato uno sbilenco isolazionismo), essa si trova in mezzo a un guado dove rischia di marcire.
  3. perché l’Europa deve affrontare alle sue frontiere crisi difficili e sfide decisive: a) i flussi migratori dal Medio Oriente e dall’Africa. b) il conflitto armato in Ucraina. c) la Brexit, con i problemi di assestamento che comunque comporterà. d) la guerra civile in Libia.
  4. perché al suo interno e nelle immediate vicinanze stanno affermandosi sistemi di governo illiberali e obiettivamente in contrasto con i principi di diritto su cui l’Unione è stata fondata (per esempio l’Ungheria di Orban o la Turchia di Erdogan).

Tutte ragioni che dovrebbero fare riflettere coloro che pensano che il parlamento europeo sia un organismo inutile e che le cose che contano siano soltanto quelle di casa nostra. Infatti non è così: dalle istituzioni europee dipendono molte regole, vincoli, finanziamenti che riguardano anche noi. Inutile lamentarsi di ciò che l’Unione Europea fa o non fa se poi non si va a votare per i nostri rappresentanti al parlamento europeo, quasi che la loro scelta sia sostanzialmente indifferente. Il tempo in cui i partiti mandavano a Strasburgo personaggi espulsi dai circuiti del potere nazionali, come compenso per i servizi resi, è finito per sempre. Oggi è in Europa che si giocano le partite decisive e bisognerebbe fare attenzione a chi ci mandiamo.

Tutto ciò premesso; votare per chi?
Un liberale non dovrebbe avere dubbi: per chi rappresenta nella dimensione europea i valori liberali. Quindi per l’alleanza dei liberal-democratici europei, rappresentata in Italia dalla lista + Europa di Emma Bonino.
Sento molti liberali, o comunque vicini al liberalismo democratico, tentati di votare per il partito democratico o per il partito di Berlusconi, con la motivazione di evitare di disperdere il voto (perché + Europa potrebbe non raggiungere la soglia del 4%). E’ un grave errore, compiuto anche in passato quando è servito a convogliare voti di minoranza in grandi aggregazioni partitiche dove sono annegati senza lasciare traccia.
Se + Europa avesse accettato l’offerta di Zingaretti di confluire in una lista unica (naturalmente egemonizzata dal partito democratico) come avrebbe voluto Calenda, l’unico risultato concreto sarebbe stato di perdere i voti di chi – europeista e liberal-democratico – non intendeva confondersi con i socialisti europei. Perché deve essere chiaro che il partito democratico è per origini, per scelta (soprattutto dopo l’elezione di Zingaretti alla segreteria), per affinità politiche e culturali, una componente importante del partito socialista europeo affiliato all’Internazionale socialista. Mentre Forza Italia, malgrado le rivendicazioni “liberali” del suo leader, è in realtà un partito conservatore che aderisce al partito popolare europeo dove affluiscono tutte le componenti politiche moderate di ispirazione cristiana.
Naturalmente si può discutere se tali distinzioni, ereditate dal secolo scorso, abbiano ancora un fondamento; non vi è dubbio infatti che le differenze siano diventate nel tempo molto sottili con il tramonto delle ideologie totalizzanti e delle alternative di sistema, ma forse qualche diversità ancora esiste, e comunque esistono elettorati che ritengono che ci siano ancora.

Non vi è dubbio che nel futuro parlamento europeo il problema di fondo da risolvere sarà un altro, e qui la divisione sarà netta. Da una parte chi ritiene che di fronte al cambiamento degli scenari geopolitici l’Europa debba serrare le fila e presentarsi più unita possibile, il che significa, in pratica, rinunciare almeno in parte alle sovranità nazionali nella politica estera e in quella della difesa comune, dall’altra coloro che, al contrario, pensano che la crisi europea possa essere meglio affrontata restituendo piena libertà di manovra ai singoli stati, riducendo la Comunità alla semplice gestione di un’area di libero scambio o poco più. E’chiaro che la maggioranza che dovrà esprimere la nuova Commissione non potrà eludere questo fondamentale dilemma: da una parte quindi ci saranno popolari, socialisti, liberali (e probabilmente ambientalisti verdi), dall’altra “sovranisti” variamente raccolti su una prospettiva riduzionista.
In tale contesto è facile prevedere dove si collocheranno la Lega, Fratelli d’Italia e i movimenti di estrema destra, e in contrapposizione democratici, radicali e berlusconiani; la domanda è, dove andranno i Cinque Stelle? Non lo sanno nemmeno loro, il loro movimento è un “ircocervo” (come lo avrebbe definito Benedetto Croce) sovranista per certi aspetti, europeista per altri. Si attendono istruzioni da Grillo e Casaleggio.

Noi liberali intanto votiamo + Europa.

 

Franco Chiarenza
6 maggio 2019

 

Il sottosegretario Armando Siri è indagato per reati molto gravi di corruzione connessi anche a possibili legami mafiosi. Il movimento Cinque Stelle ne ha chiesto le dimissioni e il presidente Conte le ha pretese, Secondo un sondaggio pubblicato da “Il fatto quotidiano” il 71% degli italiani sostiene che Siri deve dimettersi. Che dire? Da liberale dico che il movimento di Grillo e il 71% degli italiani ignorano cosa sia lo stato di diritto.

In un paese normale (dal mio punto di vista) Siri, condannato tempo fa con rito abbreviato (che comporta l’ammissione di colpevolezza) per bancarotta fraudolenta, non avrebbe mai dovuto essere nominato sottosegretario. E stupisce che il Quirinale, tanto attento ai “curricula” dei membri del governo, non l’abbia a suo tempo fatto rilevare.
Ciò premesso allo stato delle cose Siri è semplicemente indagato e non ancora rinviato a giudizio; ciò significa semplicemente che sono state avviate indagini a suo carico che potrebbero anche non essere considerate fondate dal giudice di merito. Ora, non si pretende che – nel caso di membri del governo – si debba attendere il terzo grado di giudizio (come vorrebbe la Costituzione, prima di considerare un imputato colpevole), ma almeno il rinvio a giudizio sì. Altrimenti si consente a qualsiasi magistrato inquirente di decapitare il governo a suo piacimento.
E poi vorrei chiedere a Di Maio: perché per la Raggi, sindaco della Capitale, il rigore moralistico dei Cinque Stelle non vale? Non è forse anche lei indagata?

Altro che morale pubblica e onestà. Mi pare piuttosto che stiamo sprofondando in un clima da basso impero, con congiure, tranelli, colpi bassi; per mostrarsi poi uniti e sorridenti al balcone. Il governo non cadrà per così poco, proclamano all’unisono, e intanto preparano il prossimo tweet per colpirsi vicendevolmente. Eppure l’elettorato sembra (stando ai sondaggi) solo marginalmente preoccupato. Come dire: saranno pure compari litigiosi ma il reddito di cittadinanza l’hanno fatto, l’abbassamento dell’età pensionistica pure, il deficit ha aumentato il debito pubblico (ma questo era previsto e chi se ne frega), i porti sono stati chiusi agli immigrati (anche se se ne vedono in giro sempre troppi), possiamo finalmente sparare a piacimento contro i ladri. Il resto non conta.
Quanti sono quelli che ragionano così?

Franco Chiarenza
5 maggio 2019