Ci sono miliardi di stelle in cielo e soltanto cinque nel nostro panorama politico, ma ci bastano. Anche perchè non somigliano alla costellazione che tutti conosciamo, l’Orsa minore, ben nota da secoli perchè nella sua coda brilla la stella polare, rotta sicura per naviganti incerti o dispersi. Quello che manca alle nostre Cinque Stelle è proprio la stella polare: dove andare, con chi, per che cosa. Stanno fisse, immobili, senza che alcun chiarimento ne definisca orientamenti e prospettive. Non costituiscono un problema, sono il problema, se non altro perchè occupano la maggioranza relativa dei seggi parlamentari.

Grillo: se ci sei batti un colpo
E’ lui – insieme a Casaleggio – che ha messo in moto lo tsunami con il famoso “vaffa” del 2007 con l’intento di mandare a spasso l’intero sistema politico per sostituirlo con una democrazia diretta che nelle loro intenzioni poteva essere realizzata attraverso le nuove reti di comunicazione interattive. I suoi discepoli sono arrivati in parlamento dichiarando di volerlo aprire come una scatola di sardine, i suoi ministri sono passati da un’alleanza all’altra sul presupposto che i compagni di viaggio, di qualunque colore fossero, non gli avrebbero impedito di realizzare il loro programma anti-progressista, confusamente ispirato alle teorie della “decrescita felice”. Sono riusciti in effetti a impedire molte cose ma ne hanno realizzate poche, a parte il reddito di cittadinanza che, per come è stato attuato, è consistito in una costosa distribuzione di sussidi senza accompagnarsi a una credibile strategia di rilancio dell’occupazione (che per noi liberali è l’unico modo serio di combattere la povertà e contribuire alla crescita del Paese). Divisi al loro interno tra un’ala “movimentista” che trova in Di Battista il suo personaggio di riferimento, e settori più riflessivi che si sono dovuti confrontare con le difficoltà reali di governo, traumatizzati da sondaggi che prevedono il dimezzamento della loro consistenza elettorale, i Cinque Stelle si interrogano sul loro futuro. Ma ciò che conta realmente, almeno per noi, non è il loro futuro ma il loro presente, considerando che la paura di andare a una incerta verifica elettorale paralizza il partito democratico. E poiché sembrano incapaci di esprimere una leadership condivisa (o almeno maggioritaria) tutti si chiedono se il “fondatore” Beppe Grillo sia in grado di uscire dalle nebbie delle allusioni vaghe, delle battute imbarazzanti, e andare oltre la dimensione demagogica dei “vaffa” e dei “tumorifici” che ha condannato il Paese all’inerzia e alcune grandi città alla sporcizia permanente.

L’errore di Renzi (se tale è stato) non è consistito nell’ostinarsi a pretendere la testa di Conte ma nel credere che questo fosse il problema. Prendersela col mediatore perchè una delle parti è poco affidabile è un gioco pericoloso, a meno che non si voglia in realtà fare fallire l’intesa. Immaginare una soluzione tecnica o super-partes sponsorizzata dal Capo dello Stato non mi sembra una strada praticabile e si rivelerebbe un viottolo scosceso con molte probabilità di sfociare comunque in elezioni anticipate. E non è detto che il voto produrrebbe in termini di governabilità un parlamento molto diverso da quello attuale, specialmente se, come è possibile, Giuseppe Conte, forte della sua popolarità, scendesse in campo con una propria lista.

 

Franco Chiarenza
27 gennaio 2021

 

Ps: Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere del 22 gennaio un forte articolo sulla necessità di riformare il nostro sistema politico, indicando anche alcune soluzioni. In quanto liberale qualunque, e ben sapendo che Galli della Loggia rifiuterebbe la qualifica di liberale, mi congratulo e tengo a dire che del suo articolo condivido tutto. Se non vuole accettare il conferimento onorario di liberale accolga almeno quello di “italiano qualunque” (che è il contrario di “qualunquista”).
Fch.

Ansiosi di assistere il 20 gennaio a una bella scena stile farwest con Trump asserragliato nella Casa Bianca con le corna in testa e il mitra spianato mentre Biden e i suoi dai tetti circostanti cercano di farlo sgombrare, gli italiani si sono distratti dalle noiose vicende politiche di casa nostra; forse perché sono sempre uguali e molto meno pittoresche (ve lo immaginate Renzi armato di pistola che entra a palazzo Chigi e costringe Conte a saltare dal famoso balcone dove Di Maio brindava alla fine della povertà?).
E però in attesa che Renzi si procuri un’arma che sia in grado di sparare non a salve, delle manovre in corso nei palazzi della politica italiana bisogna pure occuparsi al di là della tipica consuetudine nostrana di dire/non dire, alludere, lanciare attacchi e accuse per poi prontamente smentirli, minacce, ricatti, ecc.. Una cosa è certa: la maggior parte dell’opinione pubblica è quanto meno perplessa perché non capisce come a fronte del problema che maggiormente preoccupa (ed è ancora la pandemia) si apra sostanzialmente una crisi di governo fondata su alchimie poco comprensibili. Anche coloro che criticano il governo per la sua inadeguatezza (tra cui il sottoscritto) pensano che non ci siano alternative praticabili se non un rimpasto che francamente non pare decisivo per le sorti della Repubblica. A meno che non si voglia arrivare ad elezioni anticipate in primavera (ultima scadenza utile prima del “semestre bianco”), eventualità che tutte le componenti della maggioranza dicono di escludere.

Odore di soldi
La verità è che tutto gira intorno ai 200 miliardi del Recovery Fund. Chi deve gestirli e come. Una volta tanto il problema è serio e non riguarda le solite logiche spartitorie connaturate al sistema politico italiano ma qualcosa di più importante, quale idea di Paese si vuole privilegiare in questa irripetibile occasione. Da questo punto di vista la partita è effettivamente decisiva: non si tratta di poltrone e strapuntini da ridistribuire e le opzioni di fondo (a prescindere dai soliti “distinguo” e dalle perenni ovvietà onnicomprensive) sono abbastanza chiare. Da un lato coloro che ritengono che i fondi europei, in consonanza col “Next generation” di Ursula van der Leyen, debbano essere destinati agli investimenti strutturali di cui l’Italia ha bisogno per tornare a crescere recuperando gli anni perduti, dall’altra parte quanti guardano al passato (più immaginario che reale), a nostalgie ingiustificate e pericolose, in esse cercando una protezione dagli inevitabili cambiamenti che ci attendono. Una posizione quest’ultima che mortificando l’innovazione e ridimensionando il rischio imprenditoriale si affida a un salvifico e invasivo intervento dello Stato senza preoccuparsi troppo se con esso si finiscano per accettare limiti e condizioni alla nostra libertà individuale.
Chi come me si riconosce nella cultura liberal-democratica non può che sostenere la prospettiva indicata dall’Unione Europea e si attende dal governo una chiara indicazione delle priorità e dei modi e tempi della loro realizzazione. E quando parla di strutture intende non soltanto quelle fisiche come i trasporti o le reti digitali ma anche riforme da lungo tempo attese come quella del fisco che faccia uscire il nostro Paese da un sistema primitivo di balzelli e sussidi variamente distribuiti secondo le convenienze elettorali per raggiungere finalmente l’obiettivo di rendere trasparenti e prevedibili i prelievi, condizione indispensabile per facilitare gli investimenti.
Next Generation per chi non lo sappia significa “future generazioni” ed è a loro vantaggio che dovrebbe essere indirizzata la maggior parte dei fondi che l’Unione ci ha assegnato: quindi soprattutto la scuola e la formazione in generale che vanno riprogettate in funzione delle sfide del futuro. Per muoversi velocemente in questa direzione occorre un piano dettagliato che rispecchi una filosofia di sviluppo sostenibile in sintonia col nuovo modello europeo che si cerca di costruire per metterlo in grado di fare la sua parte nei processi di globalizzazione che la pandemia potrà cambiare ma non fermare. Purtroppo – ed è questo il vero problema – il maggior partito di governo, cioè i Cinque Stelle, non ha ancora deciso da che parte stare, né la loro recente “convention” è servita a fare chiarezza.
Giuseppe Conte è al centro di questa tenaglia: si è impegnato con Bruxelles a portare avanti a oltranza la prima opzione ma deve quotidianamente mediare con le ambiguità dei Cinque Stelle e di alcune componenti dello stesso PD che non vedono di malocchio un’espansione ulteriore dello stato assistenziale. Renzi è entrato nella questione a gamba tesa nel modo spavaldo che gli è proprio ma ha almeno il merito di avere scoperchiato la pentola in ebollizione consentendo agli odori (più o meno maleodoranti) di uscire dalla cucina.

Cinque stelle sono troppe
Al centro di tutto, come al solito, ci sono loro: i Cinque Stelle. Forti di una maggioranza parlamentare che non corrisponde più agli umori del Paese, decisi a mantenere le posizioni fino alla fine, ma anche loro intrappolati perchè il loro potere si identifica necessariamente con la persona del presidente del Consiglio e per questo non acconsentiranno mai a sostituirlo, come vorrebbe Renzi. E’ prevedibile che presto le carte torneranno in mano a Mattarella, politico consumato e tutt’altro che “super partes”, ma forte di un ampio prestigio che ha saputo conquistare e certamente consapevole che il suo ruolo istituzionale non gli consente soluzioni che non dispongano di una chiara maggioranza parlamentare. Altrimenti ci sono le elezioni col rischio però che il loro risultato non cambi molto la situazione e anche l’Italia cada in una sindrome politica come quelle che abbiamo visto in Spagna e in Israele: elezioni ripetute alla ricerca di una maggioranza stabile introvabile, prova evidente della incapacità dei sistemi elettorali proporzionali di assicurare quella governabilità di cui hanno bisogno più che mai le democrazie liberali contemporanee.

 

Franco Chiarenza
11 gennaio 2021