ROMA CAPITALE

 

Sono passati quasi cento cinquant’anni dalla decisione solenne, presa da Cavour davanti al parlamento di Torino, e condivisa da tutta la classe politica senza distinzioni ideologiche, di proclamare Roma capitale naturale della nuova Italia, ancor prima di venirne in possesso. Però, soprattutto dopo l’orgia di retorica romanistica inflitta al Paese dal fascismo, una parte consistente dell’opinione pubblica (non soltanto nel nord) stenta oggi a riconoscere alla Capitale il ruolo e la funzione che deve svolgere nell’interesse dell’intera nazione. Se occorre una normativa speciale (come avviene in altre capitali europee) vi si metta mano cercando di conciliare l’autonomia amministrativa con il diritto-dovere dello Stato di contribuire al mantenimento della propria Capitale.

In proposito scrivevo su “Il Liberale Qualunque” tra l’altro

La capitale di un paese non rappresenta soltanto un fatto geo-politico; essa ha una funzione rappresentativa che è interesse di tutta la nazione preservare e promuovere. Molti però, e non soltanto nel Nord, si chiedono se Roma rappresenti ancora la complessa realtà e l’immagine vera dell’Italia.
Prima di rispondere facciamo un passo indietro nella storia. Roma fu fortemente voluta dalla classe dirigente risorgimentale come capitale della nuova nazione per ragioni simboliche, geografiche e politiche. La sua ricostruzione come centro amministrativo del Paese ha comportato notevoli disagi mentre la presenza al suo interno del Capo della Chiesa cattolica ha reso necessari continui adattamenti e compromessi. Non dobbiamo dimenticare quante difficoltà dovettero essere affrontate e risolte per trasformare la “città eterna” in una capitale laica ed europea. La domanda è: ci si è riusciti ? La risposta è: sì e no. Sì perché Roma è divenuta la città più grande d’Italia, l’indiscusso centro politico e amministrativo del Paese, ha degnamente rappresentato il ruolo di vetrina prestigiosa della Nazione, ha anche svolto – non sempre e non in maniera omogenea – un ruolo di riferimento culturale (si pensi al cinema, al teatro, all’editoria, alla radio-televisione) e di cerniera tra le regioni meridionali (sempre in difficoltà) e quelle settentrionali (in grande espansione). Però anche no, perché ha mancato quella funzione che una capitale deve avere, di progettare e favorire un modello sociale ed economico nazionale in grado di svilupparsi utilizzando tutte le sinergie possibili.
Roma capitale attraversa oggi una crisi di credibilità. Come ha messo molto bene in rilievo Giuseppe De Rita, essa vive ripiegata su sé stessa, senza un chiaro progetto strategico, perdendo pezzi per gli effetti congiunti delle privatizzazioni, della delocalizzazione dei poteri amministrativi, dell’abbandono crescente delle strutture culturali, rischiando di divenire la capitale del turismo “mordi e fuggi” anziché la capitale del Paese. Roma, in sostanza, ha svolto abbastanza bene il suo ruolo di capitale fino alla fine del secolo scorso; dopo ha perso – quasi inavvertitamente ma in modo sempre più accentuato – la sfida della modernità.

Resta sospesa una domanda, scherzosa ma non troppo. Perché i romani risultano antipatici alla maggioranza del resto degli italiani?
Perché i romani (antropologicamente parlando) non esistono più. Questa multiforme aggregazione che oggi è Roma riflette l’immagine dell’italiano medio, la quale naturalmente non piace, per ragioni diverse e spesso opposte, a nessun italiano; quando si scopre di non essere come ci si immagina, guardarsi allo specchio fa male e spesso ce la prendiamo con lo specchio. Il romano di oggi è il prodotto di immigrazioni dal resto d’Italia che in centoquarant’anni ne hanno profondamente mutato la realtà originaria, dando luogo a uno dei maggiori esempi europei di melting-pot spontaneo, perché i tanti suoi abitanti venuti da ogni regione non hanno trovato un tessuto urbano e culturale con cui confrontarsi ed in cui eventualmente inserirsi, ma hanno dovuto creare un nuovo modo di convivere, come se davvero fossero arrivati in una città nata dal nulla, senza storia, senza una propria forte cultura indigena.

 

F. Chiarenza, Il Liberale Qualunque, pp. 108-110