Al centro del panorama politico italiano dell’anno appena trascorso c’è lui: Giuseppe Conte.
Chi l’avrebbe detto; quando comparve sulla scena dopo il faticoso accordo tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini nessuno lo conosceva. Era un avvocato con una cattedra universitaria a contratto come ce ne sono tanti e pareva una delle molte figure scialbe e sprovvedute che la piattaforma Rousseau candidava ai vertici del potere in nome del principio “uno vale uno”.
Tutti i commentatori (me compreso) lo descrivevano come un Arlecchino servo di due padroni, intento a comporre i dissidi tra gli alleati ma privo di iniziativa politica. Però ci si dimenticava che la maschera goldoniana rappresentava sì un “servo” ma sveglio e furbo.

Conte Uno
Ci volle poco al nuovo presidente per capire che la coalizione di maggioranza era intrinsecamente fragile e che il compromesso raggiunto nelle segrete stanze della Casaleggio§C consisteva in una sommatoria di promesse elettorali disorganica e destinata a esplodere in tempi brevi. Lasciando a Salvini e Di Maio tutto lo spazio necessario per le loro velleitarie riforme da sventolare dal balcone (quello d’angolo di palazzo Chigi è anche un po’ più grande di quello storico di palazzo Venezia) il presidente Conte si è dedicato ai rapporti con l’Europa, individuando in essi la vera chiave di volta per la sopravvivenza del governo. Insieme al ministro dell’economia Giovanni Tria ha messo in atto una strategia di contenimento dei colpi che a fasi alterne venivano sparati contro le istituzioni comunitarie da Salvini e Di Maio i quali pensavano così di cavalcare un’ondata populista e sovranista che avrebbe dovuto travolgere con le elezioni europee del 2019 le tradizionali maggioranze del parlamento di Strasburgo. Tria si occupava di ammorbidire le preoccupazioni create dagli sbandamenti del bilancio (poco compatibili con gli impegni che l’Italia aveva preso un anno prima), ma la parte più importante, quella di smussare le ripicche politiche e di garantire ai principali partner europei quell’affidabilità che i leader della maggioranza non davano, la svolgeva Conte. La sua faccia sorridente, le sue dichiarazioni fintamente ingenue, i suoi colloqui riservati (di cui ovviamente non conosciamo i contenuti), contribuivano a spegnere gli incendi che i suoi “padroni” avrebbero invece voluto alimentare. A cominciare dalle scabrose vicende dell’immigrazione clandestina che costituisce la prima ragione del consenso politico della Lega. La tranquilla sicurezza che il premier ostentava lascia pensare che tra l’avvocato pugliese e Beppe Grillo qualche intesa già ci fosse, anche alle spalle di Di Maio.

Conte Due
La vera svolta – del tutto imprevedibile – è avvenuta nel parlamento europeo eletto in maggio col voto di fiducia a Ursula von der Leyen, dove l’inatteso voto favorevole dei Cinque Stelle è stato determinante. Soltanto allora Salvini ha capito che la partita era finita, che non c’erano più le condizioni per proseguire un’alleanza di governo sempre più incomprensibile per la sua base, e, da quel giocatore d’azzardo che è, ha rovesciato il tavolo. Probabilmente hanno contribuito a una decisione così improvvisa e traumatica (per i modi e i tempi in cui si è prodotta) anche altre ragioni: la difficoltà di arrivare a fine anno con un bilancio condiviso, la vicenda poco chiara dei rapporti con la Russia (la quale, oltre che all’Europa, non era piaciuta affatto neanche agli americani), i segni di nervosismo che provenivano dai piccoli imprenditori, l’ostilità crescente della Chiesa (malgrado l’ostensione continua di simboli religiosi). Ma il punto fondamentale era l’Europa e a Bruxelles Conte aveva giocato bene la partita.
Certo, Salvini sperava che i Cinque Stelle non si alleassero con il partito democratico e conseguentemente il Quirinale fosse obbligato a sciogliere le Camere, ma aveva puntato sul cavallo sbagliato. Di Maio, di cui conosceva la radicata ostilità nei confronti della vecchia “casta” democratica, non aveva nel suo movimento una posizione paragonabile alla propria nella Lega (malgrado il pomposo titolo di “capo politico”); c’era sempre dietro le quinte il capo vero, il fondatore Beppe Grillo, il quale con Salvini non ha mai avuto un rapporto di empatia.
A questo punto Giuseppe Conte, dopo una requisitoria contro Salvini al Senato che ricordava ai pochi cultori di storia le “catilinarie” di Cicerone (si parva licet componere magnis), ha rapidamente cambiato cappello avviando un rapido confronto con il partito democratico e andando a presiedere un nuovo governo con i nemici di un tempo. Ha pensato Grillo a spegnere i sussulti e le prese di distanza che si manifestavano nel movimento, mentre Prodi e Veltroni non facevano fatica a convincere un Zingaretti riluttante. Renzi da parte sua, per non restare schiacciato in una tenaglia che lo avrebbe distrutto, ha anticipato i tempi per far credere che la nuova intesa fosse merito suo (il che ovviamente non è stato).
E’ nato così e vivacchia tuttora il governo giallo-rosso (che i tifosi della Roma lo perdonino!). Conte Due ha ricominciato a fare i conti con l’Europa (trovando ovviamente un terreno più favorevole) mentre Di Maio blindato nel faraonico palazzo della Farnesina si occupa del resto del mondo con minori possibilità di fare danni.

Conte Tre?
Adesso la figura di Conte giganteggia come quella di un “salvatore della Patria”. Zingaretti gli riconosce grandi doti politiche, Renzi cerca di non contraddirlo, Di Maio appena si azzarda a uscire dal seminato viene bacchettato da Grillo, lo stesso Salvini, facendone il suo nemico numero uno, ne accredita l’importanza.
Quanto durerà il suo secondo governo è impossibile prevedere; ci sono troppe variabili che emergeranno nei prossimi mesi, a cominciare dal cruciale processo di chiarimento all’interno del movimento Cinque Stelle. In ogni caso la sua sorprendente performance ne fa una risorsa politica anche per il futuro. Non c’è due senza tre, recita un famoso proverbio.

 

Franco Chiarenza
22 dicembre 2019

 

P.S. Dopo avere ascoltato la tradizionale conferenza stampa di fine d’anno confermo il mio giudizio: ho sentito un presidente del consiglio sicuro di sé, non banale nell’esposizione e nelle risposte, dotato di un suo stile, usare un linguaggio finalmente diverso dagli slogan e dai twitter utilizzati fastidiosamente, tanto per imitare Trump, dalla nuova classe politica per diffondere slogan semplicistici e talvolta ingannevoli. Anche il modo rapido e intelligente con cui è stata risolta la vicenda delle dimissioni del ministro Fioravanti è condivisibile: nominare nuovo ministro l’attuale sottosegretaria in quota Cinque Stelle (Lucia Azzolina) e nel contempo sciogliere l’innaturale matrimonio tra pubblica istruzione e università/ricerca collocando al vertice del nuovo ministero Gaetano Manfredi, rettore dell’università Federico II di Napoli, in quota PD. Me ne faccio una ragione: Conte funziona, anche se la prova del nove deve ancora arrivare con i molti ostacoli che lo attendono già nei primi mesi dell’anno entrante. Fch.

Era il titolo di una canzone quando nel 1911 gli italiani iniziarono la guerra per conquistare la Libia, considerata necessaria da Giolitti nella disgregazione dell’impero turco per salvaguardare gli equilibri geo-politici nel Mediterraneo, soprattutto dopo che la Francia si era impadronita del Marocco, dell’Algeria e soprattutto della Tunisia dove viveva una numerosa e attiva minoranza italiana. La Libia in realtà non esisteva: c’erano, assai diverse tra loro, la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan che la colonizzazione italiana unificò dandogli l’antico nome romano. Un’annessione contrastata, segnata anche da repressioni violente (soprattutto nel periodo fascista), cessata dopo la seconda guerra mondiale quando la Libia ottenne l’indipendenza sotto lo scettro del senusso di Cirenaica Idris. Cose da ricordare oggi che la Libia è di nuovo al centro di una crisi che rischia di esplodere alle soglie di casa nostra.

Il dopo-Gheddafi
La Libia, considerata uno “scatolone di sabbia” utile soltanto come valvola di sfogo per l’emigrazione contadina italiana, scoprì dopo la guerra sotto la sabbia rilevanti giacimenti petroliferi, molto importanti sia dal punto di vista quantitativo che per la qualità del prodotto. L’Italia, cacciata dalla porta, rientrò così dalla finestra attraverso importanti concessioni estrattive all’ENI. La politica del dittatore Gheddafi, subentrato al vecchio re Idris nel 1969, fu sempre ambigua nei confronti dell’Italia: alla violenza verbale contro le responsabilità coloniali seguita da un’indiscriminata espulsione di migliaia di italiani, facevano riscontro comportamenti più accomodanti come appunto le concessioni petrolifere, gli investimenti in Italia del fondo sovrano libico, una politica di contenimento dei flussi migratori che dal centro dell’Africa puntavano all’Europa passando dall’Italia.
Dopo l’uccisione di Gheddafi nel 2011, probabilmente organizzata dai paesi occidentali (Francia e Gran Bretagna soprattutto) perchè considerato fonte di instabilità e protettore dei terroristi islamici (ma forse anche per malcelati interessi petroliferi), è comincita una guerra civile tuttora in corso e di cui soprattutto noi italiani rischiamo di pagare le conseguenze non soltanto per il rischio che corrono le concessioni petrolifere ma soprattutto per la rottura di ogni argine ai flussi migratori verso il nostro Paese, causa non ultima del successo dell’estrema destra nel contesto politico italiano. Tanto basta per capire perchè quel che succede a Tripoli ci riguarda da vicino.

Guerra per procura
Da otto anni la Libia è in balia di una guerra tribale in cui si era inserita anche l’ISIS. Le potenze occidentali si sono comportate come chi dopo avere innescato un incendio si volta dall’altra parte e finge di non vederlo; finchè si sono finalmente rese conto del pericolo e hanno fatto la cosa sbagliata. Invece di accordarsi per spegnere l’incendio e poi creare le condizioni di un nuovo assetto politico necessariamente federale, si sono mosse ciascuna per proprio conto appoggiando e armando le diverse fazioni; lo stesso hanno fatto i paesi medio-orientali e i loro protettori, Russia e Stati Uniti.
Oggi la situazione è drammatica ma abbastanza chiara. Khalifa Haftar, un generale libico della vecchia generazione, è riuscito a mettere insieme un esercito nazionale, legittimato dal governo cirenaico, finanziato e armato dall’Egitto e dagli Emirati Arabi, protetto politicamente dalla Russia e dalla Francia, che ha ridotto il governo legittimo di Tripoli a difendersi in una parte sempre più ridotta del paese. Il presidente del governo riconosciuto dall’ONU Fayez Sarraj è appoggiato dall’Italia e gode del sostegno della Turchia (che minaccia un intervento armato). Gli Stati Uniti, che potrebbero essere determinanti (anche per l’appoggio militare e logistico) oscillano incerti sul da farsi; per Trump il mondo musulmano è un rebus incomprensibile e l’unica cosa che gli preme è l’alleanza con l’Arabia Saudita (con cui fa ottimi affari) e con il governo israeliano di Netanyahu per garantirsi l’appoggio della lobby ebraica americana, tanto più importante in quanto si avvicinano le elezioni presidenziali.
Di Maio, e con lui tutto il governo italiano, tenta la via dell’accordo a tutti i costi. Ma la domanda è: qualora la situazione dovesse precipitare che fare? Se prevale Haftar ci troveremo un interlocutore a Tripoli poco disposto nei nostri confronti, se Serraj viene salvato dalla Turchia il nostro “patronato” su Tripoli verrebbe meno. Un intervento militare, proprio per la nostra condizione di ex-potenza coloniale, è da escludere, salvo non avvenga nell’ambito di una forza di interposizione europea o promossa dalle Nazioni Unite. Non resta che attendere Berlino, dove dovrebbe svolgersi ai primi di gennaio una conferenza internazionale per cercare una soluzione. Ma mentre tutti discutono e si scambiano telefonate intorno a Tripoli si scambiano colpi d’arma da fuoco in quantità e Haftar guadagna posizioni.

 

Franco Chiarenza
28 dicembre 2019

Da che mondo è mondo le regole servono per proteggere i più deboli dalla prepotenza di chi potrebbe farne a meno. E’ così che nascono gli stati di diritto sin dall’antica repubblica romana e ancora oggi sono le regole che tutelano i cittadini, tornati ad essere nei paesi democratici la fonte primaria del potere politico, dalle fragilità che possono condizionarne i comportamenti. La libertà di espressione, sacra per i liberali e fondamento del moderno costituzionalismo, va non soltanto enunciata ma anche protetta da chi, magari in suo nome, la distorce per utilizzarla contro la verità dei fatti e spesso anche a danno della dignità delle persone. Un problema che si è posto sin dalle origini degli stati moderni, quando con la stampa il mondo è entrato nell’era della comunicazione di massa dovendosi difendere da due nemici: da chi la voleva utilizzare per gettare discredito sugli avversari in base a false informazioni, ma anche da chi attraverso l’esercizio del potere voleva subordinarla a interessi privati, giustificandone l’intervento come una necessaria tutela del bene pubblico. Se non si vuole gettare il bambino insieme all’acqua sporca (eliminando la libertà di espressione) i possibili rimedi vanno trovati in regole condivise che ne limitino gli abusi mantenendone intatta la funzione di controllo sul potere, da chiunque esercitato. Ma essere “watch dog”, un cane da guardia che non si fa intimidire dai poteri forti, è una cosa (anzi una condizione necessaria per le democrazie liberali), trasformarsi in un cane idrofobo che azzanna indiscriminatamente seminando odio e contrapposizioni irragionevoli è ben altro; ed è quanto sta avvenendo con i social-network diffusi in rete.
La libertà di espressione è sacra per i liberali, ma in nessun caso essa può tradursi in una informazione priva di regole, consentendo di trasformare l’informazione in disinformazione; tanto che in passato, quando essa era gestita quasi esclusivamente dai giornalisti, laddove non arrivavano le leggi che puniscono la diffamazione, l’oltraggio, le false comunicazioni, giungevano i codici deontologici che impegnavano a comportamenti corretti (il primo di essi compilato negli Stati Uniti è del 1926). Al di là delle tante inevitabili complicazioni, si consolidava quindi per qualsiasi mezzo di informazione il principio di responsabilità personale per ciò che si scrive e si pubblica; non a caso i direttori dei giornali (e telegiornali) sono definiti “responsabili”.
Oggi, nel momento in cui gran parte delle informazioni circolanti si serve dei “socialnetwork”, e tutti, in qualche modo, possono fare informazione, possiamo dire che il principio di responsabilità venga rispettato? Evidentemente no, ma ogni volta che si accenna alla necessità di imporre regole di identificazione che facciano capo ai gestori dei “social” insorgono i difensori della “libertà della rete” parificando la responsabilità alla censura. Un’affermazione falsa e non convincente, a meno che per tale non si intenda la libertà di diffamazione, di diffondere false informazioni, di ingiuriare senza limiti di decenza, di violare la riservatezza personale, di commettere in sostanza reati che, non perchè attuati in rete, sono meno dannosi. Falsificare la realtà per dare sfogo a livori e frustrazioni personali non costituisce una novità: lettere anonime, pubblicazioni clandestine, pettegolezzi senza fondamento hanno sempre accompagnato l’esistenza degli uomini, ma in passato non si disponeva di strumenti così invasivi come quelli oggi consentiti dalle nuove tecnologie. Da quando poi si è constatato, con il venir meno delle grandi contrapposizioni ideologiche, che la disinformazione costituisce un efficace strumento di condizionamento elettorale, la politica se ne è impadronita, utilizzandola anche in modo volgare. E poiché in effetti il voto ha ormai perso il suo carattere di scelta programmatica per diventare soltanto un modo di esprimere il proprio malcontento, si capisce perchè le competizioni elettorali siano divenute una gara per catturare un consenso “negativo”, non per un progetto a lunga scadenza (salvo le solite generiche banalità) ma contro qualcuno o qualcosa. Avviando tuttavia questo meccanismo di reciproca continua delegittimazione (personale oltre che politica) si finisce per restare incastrati in un “effetto boomerang” che impedisce qualsiasi seria attività di governo (i Cinque Stelle ne sanno qualcosa).

Per uscire da questa situazione bisogna tornare a regole condivise e alla volontà politica trasversale di farle rispettare. Non entro in dettagli tecnici che richiederebbero altri approfondimenti. Ma ciò che si può fare intanto è stabilire per legge (possibilmente a livello europeo) il principio di responsabilità per chi comunica sui social-network. Può essere facilmente aggirata? Può darsi ma almeno stabilisce un principio e complica la vita ai fabbricanti di fake news. Occorre, utilizzando gli stessi strumenti interattivi, fare capire con chiarezza quali sono i limiti di liceità del loro utilizzo e le ragioni per le quali essi sono necessari a tutela della libertà individuale di ciascuno di noi. Contrastiamo i “fake makers” utilizzando i loro stessi strumenti, convincendo tutti che i reati commessi in rete sono gravissimi, possono uccidere a distanza senza che si sappia da chi e perchè; potrebbe capitare a tutti. Conviene a tutti quindi stabilire delle regole e farle rispettare senza abbandonarsi, ancora una volta, all’arbitrio dei “signori della rete”.

 

Franco Chiarenza
Articolo pubblicato il 9 dicembre sulla rivista Paradoxa.

L’agenda politica italiana segnala una singolare continuità: i problemi non si risolvono, si rinviano.
L’Alitalia è tecnicamente fallita e, dopo il rifiuto di possibili acquirenti privati, continua a perdere soldi ripianati dal governo con “prestiti-ponte” che naturalmente non verranno mai restituiti. Ponte verso cosa se tutti gli interlocutori possibili si sono tirati indietro? Il gruppo Atlantia (Benetton) sembrava disposto a tenerla in piedi anche perdendoci un po’ di soldi ma l’evidente contropartita era il rinnovo delle concessioni autostradali; un prezzo che ovviamente il movimento Cinque Stelle, molto esposto in una concezione “punitiva” della concessionaria ritenuta responsabile del crollo del ponte Morandi, non poteva pagare.
Ma anche il nodo delle concessioni verrà al pettine e non potrà essere risolto con la demagogia. Il fatto è che la galassia delle concessioni Atlantia (con al centro “Autostrade per l’Italia”) ha acquisito nel tempo un’esperienza e una capacità di gestione che non sono sostituibili in tempi brevi; il problema evidenziato dalla sciagura di Genova e dallo stato di crisi di molte strutture autostradali non consiste soltanto nella colpevole incuria della concessionaria ma anche nell’assoluta mancanza di controlli da parte del concedente (cioè lo Stato). La soluzione più razionale sarebbe quella di rinnovare la concessione ad Atlantia, ponendo a suo carico le ingenti spese di ristrutturazione della rete oltre al completamento della “Gronda” di Genova, indispensabile a prescindere dalla ricostruzione del ponte Morandi, e al contempo rendendo i controlli più incisivi. Le responsabilità penali e civili del crollo del ponte Morandi verranno accertate dalla magistratura e dovrebbero restare separate dalle ragioni di convenienza che determinano la scelta del concessionario. Ma spesso la politica deve fare i conti con i sentimenti più che con la ragione, e l’indignazione per quanto è avvenuto a Genova e continua a succedere in altri tratti autostradali è troppo forte per consentire una scelta che poteva salvare contemporaneamente la continuità di gestione delle autostrade (con nuove condizioni più stringenti) e Alitalia.
Anche a Taranto la situazione dell’ex-ILVA è in stallo dopo il clamoroso gesto di Arcelor Mittal di denunciare un contratto firmato soltanto un anno fa. Naturalmente le accuse si rimpallano: da una parte si denuncia la mancata attuazione dello scudo penale nei confronti di reati commessi dalle gestioni precedenti, a cui si aggiunge un atteggiamento pregiudizialmente ostile della magistratura che impedirebbe di fatto la realizzazione del piano industriale. D’altra parte si sostiene che la decisione di Arcelor sia in realtà dovuta alla crisi mondiale della produzione di acciaio e forse all’intenzione di fare fallire Taranto per concentrare altrove gli impianti del produttore franco-indiano. Come che sia i sindacati assistono terrorizzati al precipitare della situazione verso una chiusura che aprirebbe una crisi occupazionale ed economica di ampie dimensioni.

Ma il problema è più ampio e profondo. Gli investimenti stranieri se ne vanno dall’Italia e non ne arrivano di nuovi, né i capitali italiani imboscati nei depositi bancari si sognano di emergere. Il nostro paese è considerato ostile alla cultura industriale e non bastano i fattori vantaggiosi che il sistema-Paese può vantare (manovalanza qualitativamente eccellente, centri di ricerca scarsi ma di buon livello, infrastrutture insufficienti ma decorose). Essi non compensano gli aspetti negativi (energia più cara, costi della mano d’opera aggravati da contributi sociali molto elevati, formazione professionale scadente e non corrispondente alla domanda delle imprese, burocrazia invadente, numero eccessivo di livelli di competenza della pubblica amministrazione). E soprattutto la sensazione che non funzioni con la rapidità e l’imparzialità necessarie il sistema giudiziario il quale non appare in grado di garantire un corretto “rule of law”. Questa percezione è aggravata da una situazione politica condizionata da un movimento come i Cinque Stelle apertamente ostile all’economia di mercato che si è manifestata nel precedente governo con un sostanziale blocco di quei pochi adeguamenti infrastrutturali già in cantiere (emblematici i casi della Val di Susa, del terzo valico tra Liguria e Lombardia, della “Gronda” di Genova, e molti altri).
Tutto ciò dovrebbe preoccupare molto di più del debito pubblico, malgrado le dimensioni assurde che esso ha raggiunto. Se un debitore è dinamico e produttivo nessuno spinge perchè riduca la sua posizione debitoria, se è statico e resta chiuso in casa a curare il suo giardinetto, la fiducia dei creditori viene meno e le sollecitazioni speculative diventano incontenibili; non siamo ancora a questo punto ma il rischio comincia ad essere percepibile

In queste condizioni logica vorrebbe che l’attuale esperienza di governo non vada oltre l’approvazione del bilancio e che ci si avvii fatalmente a nuove elezioni. Ma non tutti sono d’accordo; non tanto (o non soltanto) perchè in primavera scadono i consigli d’amministrazione di molte aziende pubbliche o partecipate dallo Stato (anche se il sospetto è lecito), quanto per consentire ai Cinque Stelle di fare definitivamente i conti con se stessi prima di una verifica elettorale. Il movimento infatti sembra spaccato tra due linee di tendenza che la leadership di Di Maio non è riuscita a comporre: da una parte Grillo, tornato prepotentemente sulla scena, favorevole a un’alleanza permanente con la sinistra democratica (accentuando le caratteristiche ambientalistiche delle sue origini), dall’altra i moralisti “puri e duri”, ostili pregiudizialmente a qualsiasi collegamento col passato, fautori di uno “splendido” isolamento in Parlamento e nel Paese. Dalla soluzione di questo conflitto, assai più che da un’improbabile nuova forza centrista, dipendono probabilmente le future maggioranze di governo.

Franco Chiarenza
7 dicembre 2019

Chi, come me, sperava che il presidente Trump sarebbe stato per necessità e condizionamenti provenienti dal soft power dell’establishment di Washington persona diversa dal candidato alle presidenziali del 2016, deve ricredersi. Ogni volta che ha potuto Trump ha cercato di realizzare il suo modello di isolazionismo rivendicato nella campagna elettorale preferendo, anche nella scelta dei mezzi di comunicazione, le rozze semplificazioni e gli slogan di twitter a interventi più ragionati. Alla fine la sua idea di un’America militarmente potente, in grado di bastare a se stessa e quindi non legata a impegni multilaterali, arrogante e paternalistica nei rapporti con gli altri paesi (anche quelli europei più legati alla sua storia), forse non si è pienamente realizzata ma comunque ha sconvolto tutte le tradizionali alleanze che dopo la seconda guerra mondiale facevano perno su un’ idea diversa di America, fondata sull’accoglienza, sugli accordi multilaterali, sulla responsabilità di guidare tutto il mondo occidentale nella difficile sfida della globalizzazione.

Gli errori del presidente
Trump è però inciampato in due punti fondamentali: i rapporti con la Russia (al cui appoggio doveva in parte la sua elezione) e il potere di un’informazione indipendente che in America è ancora molto forte.
La sua idea di un accordo con la Russia che in sostanza lasciasse mano libera a Putin (al quale andava tutta la sua personale simpatia come si conviene tra convinti populisti) si è infranta su una resistenza dell’opinione pubblica che aveva sottovalutato; lo scandalo delle interferenze russe nelle elezioni presidenziali lo ha costretto a giocare in difesa accantonando ogni velleità di alleanza organica con Mosca. In questa ritirata la stampa e i mezzi di informazione indipendenti hanno giocato un ruolo fondamentale mentre il Congresso, dopo la vittoria democratica nelle elezioni mid term del 2018, tornava a farsi sentire avviando una procedura di impeachment basata su accuse più dimostrabili di quelle precedenti: le pressioni di Trump sul governo ucraino per ottenere rivelazioni sulle attività economiche del figlio di Joe Biden (ex vice presidente di Obama e possibile candidato democratico alle elezioni presidenziali del 2020), fino al punto di condizionare gli aiuti necessari a quel paese al soddifacimento delle sue richieste. La rimozione del presidente sarà ovviamente impossibile per la resistenza del Senato, ancora a maggioranza repubblicana, ma il colpo alla credibilità di Trump lascerà le sua tracce.
Un altro grave errore è stato la pagliacciata delle relazioni con la Corea del Nord che si è risolta con un nulla di fatto consentendo però al dittatore comunista Kim-Jong Un un successo di immagine che ne ha rafforzato il potere e soprattutto dimostrando il crescente potere di interdizione della Cina. Anche l’inasprimento delle sanzioni all’Iran (capovolgendo la politica di appeasement portata avanti da Obama) ha rafforzato la posizione dei “falchi” all’interno del regime islamico senza arrecare alcun vantaggio agli Stati Uniti. Non c’è partita di politica estera in cui Trump si sia impegnato che non sia stata fallimentare: dalla Cina al Medio Oriente. Il suo agitarsi menando fendenti a destra e manca fa pensare alle marionette di un tempo; ma purtroppo si tratta del capo della più grande potenza del mondo.

Le guerre commerciali
Un capitolo a parte riguarda i rapporti con l’Europa e il Giappone, paesi alleati che con gli Stati Uniti hanno condiviso la gestione di tutti gli strumenti multilaterali che ruotavano intorno all’egemonia americana: la NATO, il WTO, l’OCDE, il FMI, la Banca Mondiale, ecc. Una ragnatela che ha consentito in qualche misura di governare i processi di globalizzazione, una rete che ha protetto certamente i paesi europei da “invasioni di campo” destabilizzanti ma ha pure consentito agli Stati Uniti di mantenere una posizione centrale negli sviluppi dell’economia mondiale. Il prezzo da pagare era l’apertura del mercato americano alle importazioni dai paesi europei e dal Giappone che in effetti ha prodotto nel tempo un forte squilibrio della bilancia commerciale. Ad esso Trump ha attribuito la responsabilità dei processi di de-industrializzazione in atto da tempo e su tale convinzione ha avviato una politica di autarchia protezionistica che comporta la rottura di tutte le strutture e le alleanze costruite dagli Stati Uniti nel dopoguerra.
Ma le guerre commerciali provocano, prima o poi, le ritorsioni degli altri paesi, e quanto più estesi saranno i mercati e il potere d’acquisto che essi rappresentano tanto maggiore sarà il danno per gli Stati Uniti. Per questo Trump boicotta l’Unione Europea e preferisce trattare con i singoli paesi del Vecchio Continente; se infatti l’Unione si dotasse di strumenti politici adeguati rappresenterebbe un mercato equivalente a quello americano e quindi potenzialmente in grado di danneggiarne gli interessi in molti settori.
Trump non ha perso tempo: prima che l’Europa si riprendesse da questo brusco cambio di politica economica e cominciasse a reagire coi suoi tempi lunghi il governo americano ha avviato dazi protettivi che colpiscono soprattutto le esportazioni tedesche (ma anche francesi e italiane) riportando indietro l’orologio della storia. Se verrà rieletto l’anno prossimo è certo che le reazioni europee diverranno più consistenti soprattutto se si avvierà finalmente quel processo di unificazione politica (che non a caso Trump teme come il fumo negli occhi) e si procederà alla creazione di nuovi soggetti europei nel campo della comunicazione interattiva e delle nuove tecnologie in generale dove oggi le aziende americane sono egemoni. La decisione della Francia e di altri paesi europei di tassare le grandi imprese americane (Google, Amazon, ecc.) per i profitti realizzati nei loro territori costituisce un segnale che il presidente americano ha colto in tutta la sua gravità (minacciando ulteriori sanzioni). In pratica la politica di Trump, i cui effetti si vedranno tra qualche anno, finirebbe per favorire la creazione di nuovi poli di aggregazione potenzialmente in grado di arginare la supremazia americana: l’Europa unita innanzi tutto, ma anche la Cina (che potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per paesi come la Corea del Sud e lo stesso Giappone), la galassia dell’Asia sud orientale attraverso nuove forme di aggregazione (di cui l’ASEAN già rappresenta in qualche misura una prima struttura portante) e naturalmente la Russia che tornerebbe ad essere protagonista non soltanto in Europa ma anche in Medio ed Estremo Oriente. Con buona pace dell’idea infantile (ma elettoralmente accattivante) di un’America forte e priva di vincoli in grado di condizionare tutti gli interlocutori come un elefante può fare con creature infinitamente più modeste. Perchè prima o poi anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, come un famoso libro ci ha rivelato.

 

Franco Chiarenza
4 dicembre 2019

 

Vi ricordate di Gioia Tauro? Almeno i più anziani dovrebbero rammentare la quasi guerra civile che scoppiò in Calabria nel 1971 per lo spostamento del capoluogo regionale a Catanzaro e la pressante richiesta “compensativa” di realizzare nella provincia di Reggio Calabria a Gioia Tauro, al posto degli splendidi e giganteschi ulivi che da secoli erano il vanto di quel territorio, un quinto centro siderurgico sul modello di quello realizzato dall’IRI a Taranto, L’acciaio era considerato fondamentale per lo sviluppo economico e ospitare un’acciaieria era sinonimo di benessere e di piena occupazione. Poi il centro siderurgico non si fece e al suo posto sorse il primo porto attrezzato per i “containers” realizzato in Italia, tuttora esistente.
I tempi cambiano: oggi gli impianti siderurgici sono accolti con ostilità. Prevalgono le preoccupazioni sanitarie ed ambientali, e il fenomeno non riguarda soltanto l’acciaio ma in generale tutta la grande industria non più considerata come un’opportunità ma piuttosto fonte di conseguenze negative soprattutto di carattere ambientale. Si tratta di un fenomeno culturale complesso che non riguarda soltanto l’Italia.

De-industrializzazione. E poi?
Per questo la vicenda di Taranto va oltre Taranto e non si esaurirà nemmeno se, prima o poi, il “mostro” verrà abbattuto e le diecimila famiglie messe sul lastrico saranno impiegate, come ho sentito dire, nella bonifica dei terreni inquinati (che peraltro non potrà essere eterna), nel turismo, in fantomatiche industrie agro-alimentari “leggere”. Perchè la spinta alla destrutturazione della nostra economia industriale è molto forte e rappresenta una delle componenti del successo dei Cinque Stelle. Il primo risultato è già visibile: non soltanto diminuisce ulteriormente l’attrattività del sistema-Italia per gli investimenti esteri ma i capitali nostrani fuggono nelle forme più diverse all’estero. In tale contesto anche la fusione FCA – PSA non promette nulla di buono perchè il suo asse portante sarà in Francia e, nonostante le assicurazioni in contrario, nulla garantisce che nella ristrutturazione che ne seguirà, oppure in caso di crisi, a farne le spese saranno soprattutto gli stabilimenti Fiat in Italia. Non si tratta soltanto di convenienze economiche e fiscali ma di un clima di ostilità alimentato anche da settori consistenti dei mass-media e della magistratura consapevolmente complici.
Si vuole cambiare il modello produttivo del Paese, già in crisi per i limiti evidenti dimostrati dal “nanismo” delle imprese? Bene, ma per sostituirlo con cosa?
Le risposte a questa fondamentale domanda sono confuse: si immagina un futuro “bio” basato su una economia “circolare” (che sta a significare il riuso sistemico di tutti gli scarti), energie alternative a ogni forma di combustione, piste ciclabili, infrastrutture mirate soprattutto ai territori municipali, e, in fin dei conti, una riduzione dei consumi non necessari. Un bellissimo sogno fondato sulla sostenibilità ambientale ispirato alle giuste preoccupazioni delle future generazioni per i cambiamenti climatici che avanzano minacciosamente.
Quel che si dimentica in questa visione del futuro è la compatibilità tra i servizi gratuiti o semi-gratuiti che si vogliono assicurare a tutti e le risorse disponibili per farlo. Le risorse provengono dall’imposizione fiscale sui redditi e sui consumi; riducendo gli uni e gli altri diminuiscono inevitabilmente le possibilità di finanziamento pubblico. Ulteriori indebitamenti sono impossibili non soltanto per il debito gigantesco già accumulato ma anche perchè un indebolimento delle tradizionali fonti di reddito (imprese industriali e commerciali) suscita la diffidenza dei mercati e rende problematico il collocamento dei titoli di debito.

Due certezze
Come uscirne? Nessuno può dirlo, tutti hanno le loro ragioni e il dibattito alle volte si trasforma in un dialogo tra sordi, come appunto avviene a Taranto tra chi difende il suo pane quotidiano e chi invoca le priorità sanitarie e ambientali. Credo però che ci sono due condizioni imprescindibili di cui ogni governo – di destra o di sinistra – dovrebbe tener conto. La prima è la gradualità; certi processi, per giusti che possano sembrare, devono comunque essere realizzati riducendo al massimo i costi sociali che comportano. La seconda è la dimensione globale; certi obiettivi devono essere condivisi e perseguiti insieme agli altri, altrimenti si regalano posizioni di vantaggio alla concorrenza internazionale che aggravano ulteriormente la nostra economia. Serve un grande progetto di riconversione industriale a lungo termine da condividere almeno con gli altri paesi dell’Eurozona, se non vogliamo ridurci a diventare un resort di lusso per turisti americani e cinesi in cui l’unica occupazione possibile sarà quella di camerieri. Ecologicamente soddisfatti.

Franco Chiarenza
18 novembre 2019

L’acqua alta a Venezia non è una novità. Il fatto che quest’anno abbia assunto dimensioni inusuali era prevedibile e infatti era stato previsto sin dall’analogo allagamento del 1966. Che si dovesse perciò trovare un modo per mettere in sicurezza la città lagunare fu oggetto di un dibattito internazionale perchè l’integrità di Venezia è considerata da sempre un valore culturale unico al mondo (al di là dei fin troppo facili riconoscimenti dell’UNESCO). Le “leggi speciali” per Venezia si sono infatti susseguite da quel fatidico 1966 fino ad approdare, dopo lunghi dibattiti che divisero gli ambienti culturali e i veneziani, alla decisione di realizzare il MOSE, un sistema di dighe mobili in grado di sbarrare le inondazioni provocate dall’”acqua alta”. I lavori cominciarono nel 2003 (malgrado la decisione fosse di molti anni prima), sono stati più volte interrotti anche per gli scandali legati alle tangenti, sono costati quasi sei miliardi, e non è ancora in grado di funzionare, come ha dimostrato il disastro di questi giorni. Vi sembra normale?

Opere pubbliche infinite
Non è normale ma non è neanche un’eccezione. In Italia la costruzione delle opere pubbliche, anche quando sono decise e finanziate (il che richiede sempre tempi lunghissimi), procede a singhiozzo con continue interruzioni fino a raggiungere tempi infiniti. Vogliamo ricordare il ponte di Messina la cui costruzione fu deliberata con legge nel 1971 e si dovettero attendere 42 anni perchè un altro governo decidesse di non farlo? Pare che molti vogliano riproporlo, mi vien da ridere, se penso che il ponte sull’Oresund tra la Danimarca e la Svezia è stato costruito in sette anni e la galleria sottomarina che congiunge l’Inghilterra alla Francia in otto anni. O vogliamo parlare dell’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari, decisa dieci anni fa e i cui cantieri si sono finalmente aperti quest’anno, o della grottesca vicenda del traforo della Val di Susa?
Io non entro nel merito dei progetti; ognuno ha i suoi punti di vista ed è lecito discuterne anche a lungo; quello che non funzione è la mancanza di certezze. In uno stato moderno che si rispetti una decisione presa diventa definitiva perchè chi la realizza deve poterla programmare senza interruzioni, senza impedimenti politici, giudiziari, o di ogni altro genere. Ogni interruzione produce danni gravissimi: aumentano i costi, si licenziano le maestranze fino a nuovo ordine, si compromette l’indotto che si attiva attorno a qualsiasi opera di un certo respiro. Da noi è prassi costante che ogni gara d’appalto venga contestata davanti al TAR, ogni ente locale ponga veti e impedimenti per ottenere adegute compensazioni, ogni comitato di cittadini che si ritengono danneggiati chiedano all’autorità giudiziaria di sospendere i lavori, spesso riuscendoci. In questo modo non si va da nessuna parte, le opere pubbliche restano incompiute per decenni, quando vengono realizzate costano il doppio di quanto dovrebbero, le imprese, se non hanno robusti sostegni finanziari, falliscono, la disoccupazione aumenta.

Che fare?
Occorre coraggiosamente disboscare innanzi tutto i tanti enti che a diverso titolo esercitano poteri di interdizione; dico coraggiosamente perchè dietro di essi si nascondono spesso interessi inconfessabili e, nel migliore dei casi, condizionamenti politici. La filosofia del “not in my courtyard” è sempre elettoralmente vincente. Occorre poi separare le responsabilità personali degli appaltatori dalla normale prosecuzione dei lavori; se un magistrato rileva degli illeciti l’opera non venga sospesa, si nominino dei commissari giudiziari che subentrano nella direzione dei lavori, salvo poi, a giudizio definitivo, stabilire le rispettive responsabilità e i danni che ne sono derivati. Basterebbe questo per fare diminuire i tanti ricorsi e denunce strumentali mirati soltanto alla sospensione delle opere (anche nella speranza di poterle rimettere in discussione).
Non si ha idea quanto pesi nella valutazione del sistema-Paese per gli investimenti privati (dall’estero ma anche italiani) questa incertezza del diritto travestita da giustizia. Insieme ad altre cause (lentezza e incoerenza della giurisdizione, sistema formativo inadeguato e non rispondente alle esigenze delle imprese, ecc.) essa è più importante di una tassazione elevata e del costo della mano d’opera. E, al contrario di esse, si tratta di riforme a costo zero, anzi che producono molti vantaggi. C’è chi rema contro coprendo il proprio interesse al mantenimento delle inefficienze del sistema con il richiamo all’onestà (che, secondo loro, richiede controlli e vincoli burocratici sempre più stringenti). Se vogliamo uscire dal pantano bisogna liberarsi di quei rematori e sostituirli con altri che riportino la barca nella corrente della convenienza collettiva. Altrimenti molti cominceranno a pensare che la democrazia non sia in grado di risolvere i problemi del Paese; è già successo esattamente un secolo fa.

 

Franco Chiarenza
17 novembre 2019

Ne sento parlare da quando ero bambino (ho 85 anni). L’evasione fiscale era sempre il grande fantasma evocato come responsabile di tutti i mali, quella che costringeva lo Stato ad aumentare le tasse, prototipo di ingiustizia sociale, mostro con tante teste che non si riusciva mai ad abbattere, come l’Idra di Lerna della mitologia greca.
Anche i governi Conte (uno e due) non hanno mancato di evocarla e di prevedere una seria lotta per contrastarla. Ma sarebbe ora di chiederci seriamente: chi sono gli “evasori fiscali” e perchè in cinquant’anni non si è mai riusciti a fargli pagare le tasse? Se non rispondiamo a queste domande il resto sono chiacchiere.

Chi sono gli evasori
Tutti pensano ai “grandi evasori”, personaggi della finanza e dell’industria che nascondono i loro profitti e conseguentemente evitano la tassazione che sarebbe dovuta. E in effetti i grandi evasori esistono e nei loro confronti una politica di contrasto è in atto già da tempo anche se non dà i risultati sperati per due fondamentali ragioni: la prima va ricondotta alla libera circolazione di capitali (di per sé fondamentale per gli scambi internazionali) di cui alcuni soggetti approfittano per collocare i profitti nei cosiddetti “paradisi fiscali” (cioè paesi che sfuggono agli accordi internazionali e ai conseguenti obblighi), la seconda alla dimensione multinazionale di grandi imprese (non soltanto industriali) come per esempio Google o Amazon che hanno le loro sedi in paesi fiscalmente convenienti (“concorrenza fiscale”). Nei loro confronti, al di là di ciò che già oggi si fa (come far pagare alcune imposte in base al fatturato in Italia) poco si può senza accordi internazionali più vincolanti. Aumentare le pene carcerarie (che già esistono nella nostra legislazione) come vuole Di Maio è una misura inutile e demagogica: non farà entrare un euro nelle casse dello Stato e non farà fare nemmeno un giorno di galera agli evasori.
Ma la sorpresa è un’altra: i tre quarti dell’evasione fiscale calcolata dalle varie istituzioni che se ne occupano (ministero dell’economia, guardia di finanza, inps, istat, ricerche universitarie) non proviene dai “grandi evasori” ma invece dai medi e piccoli evasori che nel nostro paese sono milioni: dai mancati scontrini ai servizi forniti in nero fino a forme più gravi collegate con l’economia sommersa. E ciò spiega perchè le forze politiche sono sempre riluttanti a contrastarli seriamente per le conseguenze elettorali che possono derivarne.

Perchè non si è fatto tutto ciò che si poteva (e si può) fare
Dunque il balletto intorno al tesoro sommerso dell’evasione fiscale è stato soltanto una grande ipocrisia; il tesoro era in mezzo a noi comuni mortali assai più che nei forzieri dei grandi “paperoni”per la semplice ragione che se venti milioni di persone evadono la trascurabile cifra di 1000 euro l’anno (ma la stima è per difetto) lo Stato perde venti miliardi, molto di più di quanto dovrebbero versare i perfidi paperoni.
Ma cosa si può fare per contrastare questa mini-evasione tanto diffusa? Molto, ed è con piacere che abbiamo notato che il nuovo ministro dell’Economia Gualtieri sembra finalmente muoversi in questa direzione attraverso la tracciabilità di ogni pagamento mediante le carte di credito e quindi la limitazione del contante. Ma non basta: perchè l’evasione venga ridotta soprattutto nel settore dei servizi alle persone occorre aumentare sensibilmente la detraibilità delle spese (inserendo per esempio quelle di manutenzione degli immobili, a partire dagli idraulici, elettricisti, fornitori di servizi, ecc.), e promuovere una seria campagna di informazione (anche sui social) che spinga i cittadini a richiedere sempre regolari ricevute per ragioni di convenienza (detraibilità) e per ragioni di etica politica. Altre cose si potrebbero fare ma si dovrebbe scendere in dettagli tecnici troppo circostanziati per questo spazio.
Una prova che quanto ho detto risponde al vero? Quando Di Maio ha capito che un serio contrasto all’evasione fiscale riguardava anche l’economia sommersa si è affrettato a specificare che la lotta va fatta soltanto ai “grandi evasori”. Altrimenti come fa a rimettere piede a Pomigliano?

 

Franco Chiarenza
5 novembre 2019

Il governo Conte 2 procede il suo accidentato cammino cercando intanto di conseguire il primo obiettivo per cui è nato: fare quadrare i conti del 2019 e soprattutto la previsione di bilancio per il 2020 superando indenne il vaglio della Commissione europea. La manovra di bilancio si presenta ancora una volta confusa, piena di micro-tasse più o meno visibili, con trascurabili misure strutturali, frenata dalle preoccupazioni politiche del movimento Cinque Stelle. Bisogna riconoscere che con questa maggioranza e in così poco tempo non era possibile fare molto di più, ma resta l’impressione di una manovra tappa-buchi priva di un orizzonte che vada oltre la congiuntura.

Fragilità politica
La debolezza politica della compagine governativa è evidente. Il movimento Cinque Stelle è sostanzialmente diviso tra la linea dettata da Grillo (e che Di Maio segue con visibile riluttanza), favorevole a una collaborazione a oltranza con il PD, e quella di chi vorrebbe un “ritorno alle origini” anche a costo di un isolamento politico e di una verifica elettorale probabilmente penalizzante. Ma anche tra i democratici e i renziani il clima non è dei migliori; l’ex presidente del consiglio sembra poco interessato alle sorti del governo, attento piuttosto ad accaparrarsi adesioni tra i democratici più scettici ma anche tra la destra moderata delusa dalla linea politica di appiattimento su Salvini che Berlusconi continua a sostenere. Il futuro di Renzi (come lui lo vede) è chiaro: un blocco centrale che rappresenti l’ago della bilancia in un futuro parlamento eletto con una legge proporzionale pura (con una soglia di sbarramento molto bassa) nella speranza che né la destra di Salvini e Meloni né il partito democratico raggiungano comunque la maggioranza. Ma anche il movimento Cinque Stelle, per ridimensionato che sia, potrebbe trovarsi in una posizione tatticamente analoga.

Fragilità strategica
La grande questione che l’attuale maggioranza non riesce ad affrontare in maniera coerente, in parte per le contraddizioni interne ma anche per mancanza di risorse sufficienti, è quella della ripresa della crescita. Per raggiungere l’obiettivo la ricetta è nota ed è quella chiaramente illustrata da Carlo Bonomi all’assemblea degli industriali lombardi: abbattere il cuneo fiscale che penalizza la produzione, completare le infrastrutture sul territorio (ferrovie, strade, porti, trasporti urbani) e quelle per realizzare reti di comunicazione ad elevata potenzialità; e così facendo rendere attraente il sistema Italia agli investimenti stanando anche i capitali che restano inutilizzati nei canali finanziari. Infine concentrare gli investimenti pubblici disponibili nelle maggiori criticità a partire dalla scuola. Ma una politica siffatta, orientata alla crescita, impone una forte riduzione della spesa assistenziale – comunque mascherata – e una sforbiciata molto sostanziosa agli sprechi della pubblica amministrazione (non soltanto centrale ma anche regionale). Soltanto un governo forte con una prospettiva a lungo termine può affrontare un programma che garantisca tali priorità affrontando anche l’impopolarità che può derivarne. E qui mi fermo.

Franco Chiarenza
4 novembre 2019

Il fatto che i problemi ambientali, in essi comprendendo tutte le tematiche che riguardano il riscaldamento terrestre e l’inquinamento crescente che alterano gli equilibri biologici del nostro pianeta, siano stati portati in primo piano tra le questioni che si dibattono nel mondo costituisce certamente una sensibilizzazione opportuna. Che lo si faccia con toni esagitati e fuori misura, se sono i giovani a manifestarli, è altrettanto comprensibile. Ma il tema è troppo complesso per essere affrontato con disarmanti semplificazioni.
Non credo ci siano dubbi che il riscaldamento terrestre sia una realtà. Non è condiviso da tutti invece che il fattore antropico (cioè le alterazioni prodotte dall’uomo) ne sia la causa determinante. Molti sostengono infatti che si tratta in realtà a un nuovo ciclo di riscaldamento che si alterna nei millenni a fasi di raffreddamento, come attestano testimonianze storiche difficilmente contestabili. In ogni caso però il fenomeno è in corso e non vi è alcuna ragione per peggiorare la situazione con comportamenti umani che certamente hanno il loro peso. Da questo punto di vista quindi ben venga Greta Thunberg come simbolo di mobilitazione giovanile su un tema che ovviamente riguarda più loro che me (che di anni ne ho settanta in più della giovanissima e incazzatissima ragazzina svedese).
Ma, come sempre, il problema non sta nel fatto in sé ma nel come si intende risolverlo.

La questione economica
Tanto per capirci: i paesi che inquinano di più sono quelli a basso reddito pro-capite, a cominciare dalla Cina e dall’India per continuare con quelli dell’Africa sub-sahariana; hanno bisogno di energia a basso costo per sollevare le loro condizioni economiche e l’insistenza sulla sensibilità ambientale sembra loro un pretesto per mantenerli in posizione arretrata. L’Europa e i paesi occidentali hanno invece speso molto per diminuire l’inquinamento e progettano investimenti ancora maggiori per realizzare la cosiddetta “green-economy”. Ma esiste un punto limite oltre il quale si mette a rischio la competitività del sistema produttivo con conseguenze gravi in termini di occupazione e di crescita. Superare questo limite non significa ridurre il tenore di vita dei ricchi (che comunque con qualche piscina in meno se la cavano sempre) ma proprio dei ceti sociali che vivono per lo più di lavoro dipendente. Si può naturalmente discutere quale sia il punto di equilibrio e quanto le nuove tecnologie possano contribuire a fornire energie alternative a costi accettabili, ma comunque di questa esigenza di compatibilità dovrebbero sempre tenere conto quelli che discutono di questo problema. Greta, e coloro che la guidano dietro le quinte, fingono di ritenere la compatibilità economica irrilevante e per essere convincenti agitano un inquietante catastrofismo che ricorda il millenarismo di secoli passati e che può rappresentare il pretesto per proporre soluzioni politiche incompatibili con la nostra concezione liberale della società civile.

La società energetica
La società contemporanea si fonda sull’energia elettrica; non riusciamo nemmeno a immaginare un’esistenza senza elettricità. Per produrla si sono utilizzati fino ad oggi materiali combustibili (carbone, petrolio, gas) che con i nuovi sistemi di estrazione sono quasi inesauribili. Oppure si è fatto ricorso all’energia nucleare ottenuta attraverso gli stessi processi che hanno fatto della bomba atomica l’arma di distruzione più spaventosa della storia; un po’ per questa associazione, un po’ per lo spavento creato da alcuni “incidenti” (Cernobyl nel 1986, Fukushima nel 2011 e altri meno gravi), ma soprattutto per la mancata soluzione dello smaltimento delle scorie radioattive, molti paesi, tra cui il nostro, hanno abbandonato il nucleare. Negli anni tra le due guerre mondiali gli stati privi di materie prima (come il nostro) avevano incrementato la produzione di energia sfruttando le cadute d’acqua (centrali idroelettriche); ma pure questa tecnologia – nella quale gli italiani erano all’avanguardia, insieme a quella che utilizzava i soffioni di gas naturale (centrali geotermiche) mostrava i suoi limiti anche in termini di sicurezza ( le grandi dighe sono pericolose e producono impatti deleteri sull’ambiente circostante). Oggi lo sfruttamento idrico per produrre elettricità viene utilizzato soprattutto dove è possibile costruire bacini in corrispondenza allo sbarramento di fiumi di grande portata (come nel Tennessee, ad Assuan, in Brasile, in Cina, per citarne soltanto alcuni tra i più conosciuti) ma anche in questi casi non sono mancate le polemiche per gli effetti indiretti che le grandi dighe producono sul territorio.
In sostanza man mano che il progresso industriale si estende e la domanda di consumi elettrici aumenta non sembrano esserci alternative nella convenienza di utilizzare i combustibili fossili che infatti ancora oggi sono i più economici e diffusi. Quando l’allarme per le emissioni inquinanti ha raggiunto il suo punto più alto nella seconda metà del secolo scorso ci si è chiesti però come produrre energia in modo non dannoso per l’ambiente e sono comparse all’orizzonte alcune tecnologie alternative: energia solare, energia eolica (prodotta dal vento), altri carburanti ricavati da scarti agricoli). Ognuna di esse tuttavia ha mostrato inconvenienti gravi: il solare richiede superfici di esposizione troppo ampie per alimentare impianti di grandezza significativa, l’eolico (a prescindere dalla bruttezza delle “torri”) provoca danni alla fauna e alla flora delle zone interessate, i biocarburanti presuppongono coltivazioni estensive difficilmente disponibili senza ridurre le scorte alimentari. Vi sono inoltre difficoltà non ancora risolte che riguardano l’accumulazione e la distribuzione dell’energia prodotta, lo smaltimento di un numero crescente di batterie esauste, e altri fattori di inquinamento indiretti per i quali il danno ambientale cacciato dalla porta potrebbe rientrare dalle finestre. Inoltre tutte le nuove tecnologie alternative hanno una comune caratteristica negativa, quella di essere, almeno allo stato attuale, più costose di quelle tradizionali e quindi poco gradite ai paesi in via di sviluppo che proprio sui costi di produzione, tra i quali quelli energetici, giocano la loro partita con l’Occidente.

La questione morale
C’è un aspetto morale che giustamente viene messo in rilievo dai più giovani e che riflette le attese di giustizia che da sempre infiammano i sentimenti delle generazioni che si succedono; un assolutismo ideologico al quale è difficile contrapporre motivazioni economiche senza passare per conservatori egoisti. Ma anche da questo punto di vista la prudenza è d’obbligo; non soltanto perché poi, all’atto pratico, non sono molti coloro che concretamente sono disposti a ridurre il proprio tenore di vita per un futuro migliore, ma soprattutto per il rischio che il loro entusiasmo venga utilizzato per finalità molto diverse.
Dalle visioni apocalittiche al momento successivo di abbandonare il consenso democratico (perchè troppo complicato da ottenere in tempi rapidi) il passo è breve e porta direttamente a soluzioni sostanzialmente autoritarie (anche quando sono legittimate da una democrazia plebiscitaria). Quando si è troppo convinti della propria verità la tentazione di renderla indiscutibile per il bene dell’umanità diventa irresistibile, come dimostrano i tanti fanatismi che hanno attraversato la storia dell’umanità (ivi compresi quelli generati dagli assolutismi religiosi cristiani e islamici). Se l’ambientalismo diventa una religione produrrà forme di intolleranza fondamentalista e ci sarà qualcuno che ne approfitterà per mandare finalmente in soffitta i principi liberali e i diritti individuali e con essi il pluralismo delle idee che erano faticosamente riusciti a dare al mondo occidentale (e ad altre parti importanti del pianeta) due secoli di progresso. Greta sicuramente non ne è consapevole ma sorge legittimamente qualche dubbio sulle vere finalità di chi la spinge ad esibirsi.

E allora non si fa nulla?
Si possono fare molte cose affrontando il problema nei tempi e modi giusti, senza mettere a repentaglio i principi fondamentali della nostra civiltà liberale. E tenendo conto che la sfida globale di sottrarre l’umanità alla fame e a privazioni inaccettabili non è ancora vinta (pur avendo ottenuto innegabili progressi). E’ importante che grandi paesi, determinanti ai fini della riduzione delle emissioni inquinanti e finora recalcitranti – tra gli altri gli Stati Uniti e la Cina – abbiano cominciato a prendere misure di contenimento dell’inquinamento (come le tecnologie di “cattura” dei fumi che consentono di continuare a utilizzare il carbone, la graduale sostituzione del gas al petrolio, ecc.) e soprattutto che nuovi stili di vita vadano gradualmente sostituendo quella cultura dello spreco e dell’esibizionismo diffusi da mezzi di comunicazione involontariamente complici di un imbarbarimento anche culturale che dovrebbe preoccuparci non poco. Occorre procedere nella ricerca, avanzare nelle tecnologie che consentano di diminuire i costi delle fonti energetiche alternative, puntare non soltanto alla riduzione dei consumi inutili ma anche all’espansione delle risorse necessarie per raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi perchè tutti possano usufruire di livelli di civiltà che oggi riteniamo indispensabili. La soluzione del problema è nel progresso (tecnico, culturale, economico) non nel regresso guardando a un passato che non era affatto migliore dei nostri tempi. L’elenco delle cose da fare è lungo; se Greta è un simbolo di attenzione e di priorità per le nostre coscienze ben venga; se invece è soltanto una ragazzina alla ricerca di una visibilità mediatica che altrimenti non avrebbe, sarà meglio che torni sui banchi di scuola che qualcuno l’ha spinta ad abbandonare.

 

Franco Chiarenza
27 settembre 2019