Pierluigi Ciocca è un economista troppo noto perchè si debba qui ricordarne i meriti; il suo curriculum all’interno della Banca d’Italia rende sempre le sue tesi credibili e meritevoli di rispetto.
Il libro di cui parliamo è utile per diverse ragioni: la prima è di carattere storico perché l’autore ci ricorda con dati e cifre inoppugnabili le vere ragioni della nostra crisi, al di là dei tanti miti che hanno accompagnato la crescita del nostro Paese (a cominciare da quello del “piccolo è bello”, dimostrando che il piccolo che non cresce rischia di morire precocemente).
Ma la ragione più importante per la quale il “liberale qualunque”, notoriamente incompetente in materia, raccomanda la lettura di questo libro è un’altra: in esso traspare (e non è la prima volta nell’ampia produzione di Ciocca) non soltanto una riabilitazione del ruolo svolto dall’IRI – la grande conglomerata pubblica ereditata dal fascismo che dominò l’economia italiana nel dopoguerra – nella ricostruzione del Paese e nel rilancio della crescita, ma anche l’intenzione di riproporre, in forme e modalità diverse, la necessità di un intervento pubblico coordinato finalizzato alla creazione delle grandi infrastrutture (non solo sul territorio ma anche nelle articolazioni del credito e nella distribuzione delle risorse disponibili) sottraendolo alle spinte elettorali contingenti: pubblico sì ma autonomo nelle scelte, come fu appunto – almeno in parte – il sistema che si andò formando nel dopoguerra (IRI, ENI, EFIM e poi anche ENEL).
Per un liberale come me “innamorato” dell’economia di mercato e delle privatizzazioni, che in passato ha sempre deprecato l’esistenza di questi “mostri” incontrollabili attraverso i quali il potere politico esercitava un innegabile condizionamento clientelare, queste nostalgie suscitano qualche perplessità, ma inducono a riflettere senza pregiudizi.

Lo spazio di una recensione – necessariamente breve – non consente di argomentare le diverse sollecitazioni contenute nel saggio di Ciocca; ma certamente va detto, anche in considerazione della attuale situazione italiana, che l’idea di utilizzare alcune disponibilità patrimoniali dello Stato (per esempio le partecipazioni in IRI e ENEL che non hanno altra funzione al di là degli utili che distribuiscono) e la stessa Cassa depositi e prestiti, per costituire un meccanismo pubblico di sostegno, partecipato anche da capitali privati, garantito nella sua autonomia, in grado di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, di dare impulso alla ricerca finalizzata all’innovazione (di cui il nostro sistema produttivo ha tanto bisogno), merita di essere seriamente considerata. Se davvero potesse essere realizzato nei termini proposti nel libro un meccanismo di sostegno pubblico coordinato e trasparente potrebbe svolgere un’utilissima funzione per il rilancio dell’economia italiana, oggi soffocata dalle urgenze dettate dall’emergenza o dagli appuntamenti elettorali. Non vedo in ciò nulla che non sia compatibile con le più moderne esperienze di economie di mercato (e anche di quelle antiche, come fu l’IRI ai suoi inizi). Meglio sicuramente degli interventi pubblici di rappezzo, disorganici, costosi, spesso inopportuni perché spinti da proteste sindacali che si prestano ad essere coperture di inefficienze imprenditoriali, impedendo quella necessaria funzione di “distruzione creativa” che per Schumpeter costituisce un momento essenziale della rigenerazione capitalistica (e quindi della sua vitalità). Certo, i fallimenti non devono ricadere sui lavoratori (i quali, in questi casi, vanno tutelati con adeguati e transitori strumenti assistenziali) ma non si deve consentire il ricatto sociale per mantenere in vita realtà produttive incapaci di affrontare il mercato.
Da un punto di vista liberale l’intervento pubblico si giustifica come sostegno alle imprese in crisi soltanto quando per le loro dimensioni, per l’importanza che hanno sull’intera filiera produttiva (come nel caso di Taranto) o per i riflessi di una crisi globale (come sono state quella “classica” del 1929 ma anche le altre che si sono succedute dopo il 2008) le conseguenze di un loro fallimento avrebbero comportato effetti disastrosi per l’intera economia del Paese. E poiché partecipiamo a un mercato comune con gli altri paesi europei spetta naturalmente agli organismi competenti (in particolare alla Commissione dell’Unione Europea) sincerarsi che l’eventuale “aiuto di Stato”, vietato dai trattati, abbia quei caratteri transitori ed emergenziali che lo giustificano.

Una proposta come quella abbozzata nel libro (peraltro come mera ipotesi) non poteva che venire da un economista come Ciocca, sempre controcorrente (o meglio contro alcune correnti), uno che non cerca negli eventi esterni le responsabilità della nostra difficile situazione economica, ma le attribuisce, con cifre e constatazioni difficilmente contestabili, alle nostre classi dirigenti e alle loro scelte; non soltanto alla classe politica ma anche agli imprenditori, ai sindacati, alle variegate e variopinte corporazioni che perpetuano i loro privilegi dai tempi del fascismo. Se è vero che molti nemici rappresentano una ragione d’onore (come hanno sostenuto – pare – condottieri antichi, dittatori moderni e ministri contemporanei) Ciocca sta a posto.
Tutto ciò premesso, il “liberale qualunque” (che nemico di Ciocca non è, anzi ritiene di esserne amico) si chiede: ma con la classe politica che ci ritroviamo (compresa l’opposizione), chi è in grado di garantire che un tale “meccanismo” (come tiene a definirlo Ciocca) non degeneri in qualcosa di molto diverso?

Prima di concludere voglio segnalare, tra le tante cose interessanti di cui parla il libro, due in particolare, su cui non mi soffermo ma che ritengo imperdibili per i lettori: il capitolo che analizza la centralità della Germania e la sua formula dell’economia sociale di mercato, nei suoi pregi e nei suoi (tanti) difetti, e l’altro che analizza le possibili drammatiche conseguenze di una nostra uscita dall’euro. Può darsi che nei dintorni di palazzo Chigi qualcuno si sia spinto fino alla fatica di leggerlo perché di “Italexit” non sento parlare più.

Franco Chiarenza
7 Maggio 2019

 

Pierluigi Ciocca, Tornare alla crescita, Donzelli editore (Roma 2018), pp. 209, euro 19

Il libro è un fascio di luce sul dramma, la confusione, le contraddizioni, incertezze, inconsapevolezze e comportamento dei protagonisti dei dieci giorni che vanno dal 16 luglio 1943 – quando si ebbero i primi contatti per la riunione del Gran Consiglio – al 25 luglio quando la riunione, andando oltre le finalità dei partecipanti, determinò la fine del regime fascista sigillata dall’arresto di Mussolini alle 17.30 dello stesso 25, ordinato dal re “per proteggerlo”.

Già negli ultimi anni del 1942, con le sconfitte in Africa e in Russia, si cominciò a pensare che la guerra sarebbe stata perduta. Poi, il 10 luglio 1943 c’era stato lo sbarco degli alleati in Sicilia e il 19 il bombardamento di Roma, preceduto il 17 da un lancio di manifestini firmati da Roosvelt e Churcill che incitavano gli italiani a scegliere se “morire per Mussolini e Hitler o vivere per l’Italia e la civiltà”. Per salvare l’Italia dalla catastrofe occorreva sganciarsi dalla Germania, esautorare Mussolini, restituire il comando del Paese al re e cercare una pace separata. Fin dal 1942 i militari avevano pensato di porre fine al regime eventualmente anche eliminando Mussolini, ma l’iniziativa era condizionata all’assenso del re che esitava. I rapporti sull’umore della popolazione che il capo della polizia inviava a Mussolini non lasciavano dubbi: “non hanno paura di parlare apertamente contro il regime … dicono che il DUCE non può farsi vedere in pubblico perché la gente lo lincerebbe … dappertutto si sente parlar male del DUCE …”). Era questa la situazione che Emilio Gentile presenta come premessa e sfondo alla riunione del Gran Consiglio.

La riunione del 25 luglio fu originata dalla decisione del regime di indire per il 18, in ogni capoluogo di regione, adunate di incitamento alla resistenza contro l’invasore sbarcato in Sicilia. Avrebbero dovuto parlare i principali esponenti del regime molti dei quali membri del Gran Consiglio. Da parte dei designati ci furono perplessità e resistenze per cui il segretario del partito Scorza indisse una riunione per il 16. Fu l’occasione per un conciliabolo tra gerarchi che si risolse in una richiesta della convocazione del Gran consiglio che poi ebbe inizio il 24.

La mancanza di un verbale della riunione del Gran Consiglio ha comportato la necessità di ricostruire quei giorni in base a diari, memorie, dichiarazioni, articoli, appunti e ricordi dei protagonisti; documentazioni per lo più parziali, postume, ripensate e scritte col senno di poi, inconsapevolmente inesatte o apologetiche o tendenti a giustificare la propria condotta, spesso discordanti. Emilio Gentile definisce “apocrifi d’autore” molti degli scritti dai quali, con una sorta di “calcolo combinatorio”, di accettazione delle concordanze e di eliminazione delle discordanze e di ciò che risultava implausibile, ha potuto ricostruire i dieci giorni che vanno dal 16 al 25 luglio.
Il quadro che si ricava da questo lavoro di cernita ci fa anche conoscere i protagonisti della riunione e le loro precedenti generali posizioni e atteggiamenti di obbedienza assoluta con successiva pretesa di un’indipendenza mai esistita; con qualche eccezione come quella di Bottai che da tempo era critico sull’eccessivo accentramento dei poteri su Mussolini.

L’ arresto di Mussolini fu solo anticipato rispetto a quello già deciso dal re e dai militari per qualche giorno dopo. La riunione del Gran Consiglio semplicemente lo anticipò e dette al re un “motivo legittimo” per agire.

Le tragedie del dopo il 25 luglio sono note. Dal 25 luglio si arrivò presto a quell’otto settembre che Galli della Loggia chiamò “Morte della Patria” e di cui scrisse nell’omonimo libro, e per il quale Silvio Bertoldi descrisse nei suoi libri la pochezza, inettitudine, irresponsabilità – e diremmo anche viltà – da parte di chi aveva la possibilità e il dovere di guidare l’Italia. Solo negli ultimi anni la data dell’otto settembre ha stemperato quel triste alone emotivo che la circondava: è l’effetto della progressiva scomparsa di coloro che quei giorni li vissero o “sentirono”. Ma i meno giovani quella triste data non la dimenticano. Rimane la domanda se quel che avvenne dopo il 25 luglio si poteva evitare, se si poteva uscire dalla guerra in modo dignitoso e meno tragico, se si poteva evitare lo sfascio e la disgregazione dell’esercito, se si poteva evitare Cefalonia, …

E del libro colpiscono le considerazioni e le domande che si pongono e si suggeriscono e sul se Mussolini poteva essere indotto a trattar lui un distacco dalla Germania favorendo una fine meno tragica della guerra.

Ma le cose andarono come andarono. Ormai è tutto storia, una storia amara.

 

Guido Di Massimo
17 Aprile 2019

 

Emilio Gentile, 25 Luglio 1943, Laterza (Roma-Bari 2018), pp.320, euro 18

L’ultima opera letteraria di Ernesto Paolozzi segna un ulteriore momento di allontanamento dell’autore dal liberismo – inteso come concezione liberale dell’economia – attraverso un percorso che lo studioso crociano aveva intrapreso da tempo; non a caso il libro è stato scritto a quattro mani con Luigi Vicinanza, giornalista di formazione comunista poi passato a incarichi prestigiosi nel gruppo editoriale di Repubblica.
Il saggio contiene molte annotazioni di buon senso, alcune denunce condivisibili, ripete preoccupazioni che tutta la cultura liberale (anche nella sua versione social-democratica) analizza da tempo; per andare a parare dove?
La democrazia liberale è sempre stata – sin da quando è divenuta “moderna” con Benjamin Constant – una procedura che regola i conflitti politici attraverso la mediazione di una èlite che elabora i progetti di governo su cui chiede la “fiducia” popolare. La partecipazione si esprime, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, attraverso corpi intermedi diversamente organizzati che, pur non identificandosi mai con l’intero corpo sociale, sono in grado di operare un processo di sintesi che trova nella rappresentanza il suo momento decisionale. Dare alla democrazia altri significati è sempre stato un modo di avvilire e comprimere le procedure che della democrazia sono l’indispensabile motore; quando è in buona fede è un’illusione se non illiberale quanto meno “a-liberale”. Tali procedure sono in crisi? Certamente, perché l’avvento dell’era digitale, a cominciare dai nuovi mezzi di comunicazione, impone cambiamenti profondi, perché la globalizzazione moltiplica i soggetti attivi sui mercati (facendo venir meno le posizioni di rendita dei paesi più sviluppati), perché le nuove tecnologie modificano profondamente il lavoro manifatturiero (e non soltanto); un fenomeno complesso che investe ogni aspetto della vita umana (economia, comunicazione, appartenenze religiose, idee ed ideologie, ambiente, sicurezza) nei cui confronti la politica non è stata ancora in grado di dare risposte convincenti. Anche perché a fenomeni globali non si possono dare risposte parziali.
Da qui nascono e prosperano i nuovi populismi che – come quelli vecchi che li hanno preceduti – suggeriscono soluzioni semplicistiche a problemi complessi (salvo poi non sapere come affrontarli quando giungono al potere). Il loro successo è direttamente proporzionale all’incapacità delle sinistre europee di proporre soluzioni accettabili ai loro stessi elettorati tradizionali, traditi da illusioni troppo a lungo coltivate, e impauriti da cambiamenti che, in quanto ineluttabili, vanno governati e non esorcizzati.

La domanda è: le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro sono tali da mettere in pericolo la stessa democrazia, come sembrano suggerire gli autori del saggio? Non ne sono convinto, anche se mentre è certamente condivisibile il traguardo finale (lavorare meno, lavorare tutti) non sono affatto chiare le strade da percorrere per raggiungere l’obiettivo pagando costi sociali sopportabili.
La retorica del “dover essere” non rappresenta mai una soluzione, serve tutt’al più a ricordarci le difficoltà che i sistemi liberal-democratici stanno attraversando nel contenere e indirizzare un’opinione pubblica innervosita e preoccupata, ma non assente. Non esistono scorciatoie: è all’interno della democrazia (liberale) che va cercata la soluzione; ogni altra strada conduce a derive autoritarie che senza risolvere il problema si limiterebbero ad occultarlo.
Le procedure democratiche funzionano anche quando vengono utilizzate per un rovesciamento radicale delle nostre convinzioni culturali e politiche, almeno finchè resta inalterato il patto regolativo che garantisce ogni possibile ricambio. Stiamo vivendo un momento in cui nuovi soggetti politici premiati elettoralmente da sensibilità popolari diverse dalle nostre stanno cercando di sostituire le precedenti classi dirigenti. Non ne condivido né i presupposti culturali né le modalità di governo, e men che meno le prospettive fondamentaliste a cui una parte almeno di essi sembra ispirarsi, ma in ogni caso non si può dire che la democrazia non abbia funzionato.
Essa, intesa come procedura di verifica e di sintesi della volontà popolare, non ha alternative in Occidente; può perfezionarsi, cambiare le classi dirigenti, ma la possibilità che il disagio sociale possa innescare processi autoritari simili a quelli che generarono i regimi totalitari tra le due guerre mondiale mi pare per fortuna remoto.
Prima o poi la maggioranza dei cittadini elettori si renderà conto che la strada da percorrere non è quella che conduce a chiudersi dentro la fortezza in cui molti cercano salvezza dalle proprie paure, all’interno dei propri confini (non soltanto territoriali ma anche culturali e sociali), ma piuttosto la capacità di riprendere quel filo dei rapporti multilaterali che l’Occidente a guida americana aveva faticosamente dipanato dopo la seconda guerra mondiale e che la vittoria di Trump ha spezzato spingendo gli egoismi nazionali a una guerra di tutti contro tutti. Non si possono contrastare gli effetti della globalizzazione più di tanto; ma è possibile immaginare interventi coordinati che senza comprimere i vantaggi dei processi spontanei indotti dalla rete interattiva e intermodale degli scambi (economici, sociali e culturali) riescano a contrastarne gli effetti negativi che essa produce (per esempio – per restare al tema di fondo del libro – sulle distorsioni del mercato del lavoro che producono il dumping sociale).
C’è un passaggio del libro in cui si afferma che della democrazia il mercato globalizzato può fare a meno. Non ne sono affatto convinto: senza il “rule of law”, senza la certezza del diritto, il mercato non funziona e genera mostri incontrollabili destinati a trasformarsi o ad implodere, ed è proprio questo il punto debole della crescita cinese (di cui peraltro parleremo magari in un’altra occasione).

 

Franco Chiarenza
9 marzo 2019

 

Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza – Diseguali: il lato oscuro del lavoro – Guida editori (Napoli 2018) – pag. 133, euro 12.

Gianmarco Pondrano d’Altavilla, storico e umanista, e Antonio Scala, fisico e ricercatore (ovviamente di formazione scientifica) si sono messi insieme (e già questa è una lodevole eccezione) per analizzare una interessante ricerca che quest’ultimo, insieme a Walter Quattrociocchi, ha condotto in ambito accademico con un campione molto esteso e articolato sugli effetti di polarizzazione indotti dall’uso dei social-network e sulle conseguenze che le cosiddette “echo chambers” – già descritte nel 2001 da Cass Sunstein – possono avere su un corretto funzionamento dei sistemi politici liberal-democratici.
Non riassumo in questa sede le interessanti considerazioni degli autori del saggio (che è stato integralmente pubblicato su Micromega) ma mi limito a suggerire qualche integrazione, ferma restando la mia condivisione con le conclusioni di Pondrano e Scala.

Io credo che vada fatta una netta distinzione tra la realtà presente e i “rimedi” futuri.
Il presente si evolve ormai in termini talmente veloci da avere scavalcato non soltanto i tradizionali passaggi generazionali ma limiti temporali fino a poco tempo fa considerati insuperabili; per tale ragione la dinamica dei cambiamenti sociali e politici influenzati dai nuovi mezzi di comunicazione non può essere affrontata allo stesso modo – soprattutto volendo suggerire qualche rimedio – nel breve e nel lungo periodo.
La “chiave” del futuro infatti, in una visione liberale dell’evoluzione sociale che faccia i conti con le trasformazioni globali del XXI secolo (che riguardano la comunicazione ma non soltanto) sta, a mio avviso, in una parola magica: educazione. Che ovviamente non va intesa nel senso di comportamenti corretti (come viene oggi quasi sempre utilizzata) ma nel suo senso originario e letterale di processi di conoscenza che consentano ad ogni essere umano di comprendere, almeno nei suoi fondamenti, il mondo che lo circonda. Parliamo dunque ovviamente di scuola, aggregazioni sociali spontanee, ricerca di regole etiche condivise fondate sul principio di responsabilità.
La scuola non può continuare a ignorare la nuova realtà di internet; ma non per aggiungere un insegnamento tecnico ai programmi già sovrabbondanti (le nuove generazioni arrivano all’età scolare già conoscendo quanto meno le modalità di utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione) ma le regole etiche che devono accompagnarne l’impiego fondate sul principio di responsabilità. Responsabilità per ciò che si fa ma anche per ciò che si dice o si scrive. Ogni progetto formativo di qualsiasi genere e grado deve insegnare prima di ogni altra nozione quali sono i principi etici che regolano uno stato di diritto perchè su di essi si fonda la cittadinanza. Un concetto valido da almeno due secoli ma che oggi assume una pregnanza ancora maggiore se si vuole che internet cessi di essere – per le democrazie liberali – un problema e diventi invece un’opportunità. Da una corretta definizione della cittadinanza liberale scaturisce quasi naturalmente la capacità del confronto (la cui mancanza è giustamente rilevata nella ricerca citata), il principio socratico del dubbio e della contestabilità di ogni verità rivelata, fosse anche dalla scienza accademica, purchè lo si faccia adottando un metodo di confronto scientifico fondato su dati e fatti dimostrabili. Alla base del rifiuto pregiudiziale (e spesso infondato) che pervade talvolta (non sempre) l’infinito chiacchiericcio universale dei “social” c’è l’ignoranza e la paura generata dalla consapevolezza di non essere in grado di capire e interpretare le complesse realtà che avvolgono l’umanità in una nebbia di dubbi e di diffidenza per tutto ciò che appare come “istituzionale”. E’ una nuova versione del contadino di una volta, analfabeta e ignorante, che diffidava di ogni ragionamento che proveniva dalle “istituzioni” (padroni, preti, funzionari dello Stato) per il timore di esserne raggirato. E magari si fidava di più del consiglio della fattucchiera o dell’amico – spesso ignoranti come lui – ma sentiti come più vicini al proprio mondo di valori e certezze ereditati dalla tradizione. E come allora il primo rimedio fu la scuola elementare oggi bisogna ripensare l’intero processo formativo fondandolo non sui contenuti ma sui metodi di apprendimento.

Ma si tratta di tempi lunghi e alla fine di quel percorso noi contemporanei (io certamente) saremo morti – come diceva Keynes – o quanto meno avremo già subito gli effetti negativi delle polarizzazioni dogmatiche dilagate nelle contrapposizioni politiche, con buona pace di quella dialettica improntata all’ascolto e al confronto che non dovrebbero mai mancare in una società liberale.
Che fare dunque oggi? La mia risposta (del tutto compatibile con le conclusioni di Pondrano e Scala) è che occorre servirsi con maggiore convinzione di quegli stessi strumenti che oggi favoriscono la polarizzazione. Si dovrebbe disegnare una strategia liberale di contrattacco fondata su gruppi diversificati che operino sistematicamente in rete offrendo puntuali contestazioni alla cultura “fake” cercando di penetrare nelle “tribù” delle certezze pregiudiziali, seminando dubbi da opporre alle certezze (evitando le certezze contrapposte) nella speranza che dal ragionamento germogli la curiosità del confronto e con essa l’affermazione di un metodo dialettico che costituisce la principale eredità delle democrazie liberali del secolo scorso. Vedo con piacere che gli autori del saggio citano Stuart Mill che nel suo celebre saggio “On the liberty” fissò in modo inequivocabile la superiorità del metodo liberale nella politica, nella conoscenza, nei comportamenti quotidiani; alcuni amici che si definiscono liberali affermano che Stuart Mill fu più socialista che liberale per avere egli compreso che la riduzione delle diseguaglianze rappresentava (e costituisce tuttora) una condizione di sopravvivenza per gli stati liberali. Ma se per tale convinzione Stuart Mill va considerato un socialista dichiaro di esserlo anch’io.

Sarebbe utile tuttavia anche mettere mano ai meccanismi procedurali della democrazia parlamentare. Non si può non prendere atto che la disintermediazione politica è irreversibile e che – come appunto dimostra la ricerca diretta da Quattrociocchi – la nascita delle aggregazioni sulla rete interattiva non sostituisce la dialettica “ideologica” dei vecchi partiti ma favorisce invece una contrapposizione tra gruppi monolitici e settari, infrangibile al dialogo e al confronto. In tale contesto le procedure parlamentari tradizionali restano inevitabilmente travolte dalla prevalenza di sentimenti irrazionali ed emotivi che generano tifoserie insensate alimentate da verifiche di popolarità registrate puntualmente giorno per giorno, come dimostra anche l’esperienza recente che stiamo vivendo in Italia. E ogni volta che si propongono soluzioni che almeno in parte potrebbero rilegittimare la funzione fondamentale della rappresentanza si contesta che il problema non si risolve con l”ingegneria istituzionale”. Eppure tante degenerazioni nascono anche dalle forzature istituzionali che – soprattutto nella elaborazione delle leggi elettorali – hanno caratterizzato l’azione di forze politiche poco lungimiranti, di destra e di sinistra. Invece io credo che qualcosa si possa fare.
Parlarne diffusamente significherebbe andare fuori tema; un vizio che mio vecchio professore di italiano nelle medie mi rimproverava sempre. Ma in conclusione mi permetto di suggerire uno studio sulle conseguenze che potrebbero avere varie forme di democrazia deliberativa (ampiamente trattate dalla pubblicistica soprattutto americana) in un contesto che vede la prevalenza di internet su ogni altro strumento di formazione dell’opinione pubblica. Senza cadere nelle utopie della “democrazia diretta” alcuni correttivi al principio del mandato irrevocabile potrebbero probabilmente essere adottati – soprattutto nell’ambito di un sistema elettorale uninominale – senza travolgere i fondamenti della costruzione della democrazia rappresentativa. Forse sarebbe il caso di parlarne evitando arroccamenti tanto insensati quanto quelli di chi si propone di ridurre il parlamento a “un’aula sorda e grigia” chiamata soltanto a ratificare le decisioni dei partiti di governo. Dejà vu.

 

Franco Chiarenza
10 Gennaio 2019

E’ il sottotitolo di un libro di Piero Tony, magistrato in pensione, pubblicato nel 2015 da un “editore di sinistra” (Giulio Einaudi). Ed è un impietoso atto d’accusa contro le distorsioni del sistema giudiziario di cui la sinistra italiana porta una rilevante quota di responsabilità.
Quando dico “sinistra” non intendo soltanto quella politica, ormai spesso tale più per tradizione storica che per un’effettiva visione sociale alternativa, ma piuttosto quella sinistra pedagogica e moralista che è maggioranza negli ambienti intellettuali che contano lungo l’asse che da Milano si spinge fino a Roma e a Napoli ma che è invece minoranza quasi sempre nel Paese.
Essa ha utilizzato la magistratura, in larga parte condizionata dagli stessi presupposti culturali e politici, per “raddrizzare” il Paese attribuendole una funzione sostanziale di governo che in Parlamento non riusciva a svolgere; il pensiero corre naturalmente a “mani pulite” ma non soltanto di questo si tratta, ma di una lunga e ininterrotta serie di interventi che gradualmente hanno trasformato l’Italia in una repubblica giudiziaria (come molti osservatori stranieri – a cominciare dall’Economist – non hanno mancato di rilevare).
I liberali – se sono davvero tali – non sono moralisti, non utilizzano la questione morale come strumento demagogico per conseguire obiettivi di potere. Se quindi le finalità di miglioramento della società fossero raggiunte attraverso mezzi istituzionalmente non ortodossi Machiavelli ci ricorda che sono i risultati che contano; anche se – come invece ci ha insegnato Erasmo – bisogna fare attenzione perché i mezzi utilizzati non sono indifferenti rispetto agli obiettivi che si intendono conseguire e finiscono per assumere una funzione che trascende le finalità di chi li ha utilizzati.
Per restare al nostro libro, se davvero una giustizia di parte avesse ottenuto il risultato di rendere migliore il Paese, al di là di ogni formalità istituzionale, si potrebbe anche convenire sulla sua necessità; ma è stato davvero così? E’ quel che si domanda Piero Tony in questo pamphlet forse troppo leggero per la quantità di problemi che solleva, ma molto utile come atto di denuncia e come testimonianza di una coscienza che ha il coraggio di interrogarsi pubblicamente.

Il libro contiene pagine da ricordare come quelle sulla responsabilità civile dei giudici (sancita da un referendum ma sempre boicottata dai magistrati), sull’abuso delle intercettazioni telefoniche, sui rischi di una interpretazione estensiva della discrezionalità, sui dubbi che solleva certa legislazione ambigua come quella che riguarda il concorso associativo, e infine sulle modalità scandalose che caratterizzano in Italia il funzionamento del sistema penitenziario.
Il libro di Tony ha il pregio di concludersi con alcune proposte concrete che andrebbero prese molto sul serio; sarebbe forse il momento che magistrati preparati e consapevoli che hanno ormai lasciato la carriera, per limiti di età o per scelte diverse, costituiscano un’associazione che proprio per essere al di fuori di qualsivoglia gioco di potere sia in grado di rappresentare un organo di consulenza utile al governo, al parlamento e soprattutto a una pubblica opinione sempre più sconcertata.

 

Franco Chiarenza
17 dicembre 2017

 

Piero Tony – Io non posso tacere – (Giulio Einaudi, Torino 2015) – pag. 125, euro 16

Due anni fa è uscito un libro molto interessante che segnalo solo oggi con consapevole ritardo ma nella certezza della sua attualità. Si tratta di una biografia dell’imperatrice Cixi la quale di fatto ha governato la Cina nel fondamentale periodo della tormentata transizione dalla tradizione secolare che teneva immobile il grande paese asiatico alla modernità che irrompeva attraverso la politica aggressiva delle potenze occidentali.
Il libro, piuttosto ponderoso, si legge tuttavia come un romanzo e immerge il lettore nell’atmosfera straordinaria della corte imperiale, nei suoi riti, nelle congiure di palazzo, e fa capire perché in Cina è fallito il tentativo – che pure vi fu – di un innesto democratico secondo modelli occidentali (Sun Yat-sen) e come fosse inevitabile una soluzione di potere autoritaria impersonata prima dal nazionalismo di Ciang Kai Scek e poi dal comunismo totalitario di Mao Ze Dong.
L’autrice Jung Chang non riesce a nascondere la sua simpatia per la protagonista della storia, l’imperatrice Cixi, e ne mette in risalto la forza di carattere che ha accompagnato le complesse vicissitudini della sua esistenza, anche quando emergono dalla narrazione stessa i gravi errori compiuti da questa donna che ha avuto in mano i destini della Cina ma, per i condizionamenti culturali che il libro descrive bene, non ha saputo tempestivamente indirizzare nella giusta direzione i destini del suo grande impero.
Come sempre la conoscenza della storia aiuta a comprendere il presente; leggendo questa affascinante biografia si capisce qualcosa di più della Cina di oggi.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2017

 

Jung Chang – L’imperatrice Cixi – Longanesi, Milano 2015 – (pag. 440 – euro 20)

L’idea era buona, la realizzazione un po’ meno. Sintetizzare alcuni momenti fondamentali della nostra storia attraverso cento fotografie commentate da storici illustri è l’idea alla base di questo libro recentemente apparso in libreria; ma il risultato appare per molti versi un’occasione perduta.
Non tanto per il comprensibile sconcerto che si prova con la prima fotografia che ritrae i famosi nudi taorminesi di Von Gloeden, i quali peraltro rappresentano l’occasione per raccontare l’immagine che dell’Italia si aveva nella borghesia nord europea ancora condizionata da stereotipi estetizzanti e vagamente sociologici che appartenevano alle esperienze del grantour, ma perché simboleggia una scelta delle immagini che per non volere essere banale e prevedibile cade tuttavia spesso nell’insignificanza.
I testi di commento, necessariamente sintetici (ottima scelta quella di ridurli allo spazio quasi giornalistico di una sola pagina a fronte delle foto), sono improntati a chiarezza e attenzione ai fatti, come si conviene a storici seri e consapevoli della dimensione sostanzialmente divulgativa del libro, con la sola eccezione dell’ultima parte (1980-2017) affidata purtroppo a Giovanni De Luna il quale ha trasformato la narrazione dei fatti in un comizio ideologico appena dissimulato. Non per nulla De Luna proviene dalla cultura comunista di “Potere Operaio” e si capisce quindi quanto distorta possa essere la sua lettura di fatti che ha vissuto come testimone in causa. Ma poiché l’interpretazione della realtà contemporanea può avere letture diverse e contrastanti sarebbe stato forse meglio affidarne la scrittura a uno storico personalmente meno coinvolto e in grado di astenersi da parzialità così evidenti. Non ne mancano, a cominciare dagli altri che sono stati utilizzati nel libro per la stesura dei testi precedenti: Vittorio Vidotto, Emilio Gentile e Simona Colarizi.

 

Franco Chiarenza
29 novembre 2017

 

Vittorio Vidotto, Emilio Gentile, Simona Colarizi, Giovanni De Luna – Storia d’Italia in 100 foto – immagini a cura di Manuela Fugenzi – Laterza (Bari-Roma 2017) – pag.224, euro 22 

Leggo sempre con interesse i libri di Massimo Teodori con il quale – non da oggi – trovo significative contiguità culturali e politiche: “Il vizietto cattocomunista” pubblicato due anni fa ma che ho finito di leggere solo da pochi giorni non fa eccezione.
Teodori ripercorre in questo suo scritto il filo rosso di continuità che nella politica italiana ha sempre tenuto insieme i cattolici di sinistra e i comunisti, anche quando erano costretti a interpretare parti in conflitto quasi sempre determinate da vincoli internazionali che condizionavano le scelte dei governi e dell’opposizione della prima repubblica. E identifica questo “comune sentire” in due filoni principali, quello della prevalenza dell’interesse collettivo sui diritti individuali e l’altro – ad esso conseguente – del dirigismo economico. Una convergenza che univa le due “chiese”, la cattolica e la comunista, in una comune concezione del potere sostanzialmente paternalistica tendente per sua stessa natura ad escludere il dissenso, mentre le società liberali si caratterizzano al contrario per avere istituzionalizzato il dissenso e con ciò il pluralismo politico e l’alternanza del potere.
Il libro serve a noi che abbiamo vissuto quegli anni come utile pro-memoria di fatti che col tempo sembrano avere perduto di attualità mentre – come dimostra l’autore – riemergono come una costante che, nonostante le camaleontiche trasformazioni, può essere ancora proposta come chiave di interpretazione di avvenimenti contemporanei; e serve ai giovani per comprendere meglio la logica sottesa di alcune pagine di storia altrimenti incomprensibili.
Certo, avrei preferito che le tesi contenute nel libro di Teodori fossero espresse in toni più distaccati; in alcuni punti lo scritto somiglia più a un polemico pamphlet che non a un contributo storiografico, non senza qualche forzatura interpretativa che ho trovato “esuberante”.
In ogni caso il libro nella sua consecutio, seppure talvolta un po’ sommaria, rappresenta un utile contributo alla comprensione della “vera anomalia italiana” che consiste in quell’intreccio di culture profondamente illiberali che hanno segnato tanta parte della nostra storia più recente e che ancora oggi impedisce al nostro Paese di allinearsi in modo convinto ai parametri culturali liberali che costituiscono la base delle democrazie occidentali.

 

Franco Chiarenza
28 novembre 2017

 

Massimo Teodori – Il vizietto cattocomunista – Marsilio, Venezia 2015 – (pag. 164, euro 14)

Pensavo si trattasse di una riedizione, seppure rivista e aggiornata, di un testo che già avevo letto per essere stato pubblicato dalla Fondazione Einaudi di Roma nel 1995, ho dovuto invece constatare che il libro di Ernesto Paolozzi è qualcosa di diverso, molto di più. In esso infatti emergono le inquietudini del presente, le incertezze (molto liberali) della validità delle ricette in cui abbiamo sempre creduto.
In questa raccolta di saggi (in qualche momento un po’ disomogenea) emerge infatti con chiarezza la difficoltà – in qualche momento angosciosa – di mettere in qualche modo d’accordo i vecchi canoni del liberalismo (e nel caso specifico di quello crociano, di cui Paolozzi è sempre stato attento conoscitore) che la nostra generazione riteneva in certa misura inviolabili, con le nuove trasformazioni sociali indotte dalla globalizzazione (mondializzazione preferisce chiamarla l’autore, dandogli un significato differente) che con fatica si adattano alle procedure delle democrazie liberali.
Il testo è molto contenuto, considerata la difficoltà dei temi trattati, ma non è di facile lettura e non appartiene alla letteratura politica divulgativa di cui sono inutilmente pieni gli scaffali delle nostre librerie. Ogni riga presuppone conoscenze basilari, ogni capitolo induce a riflessioni profonde e propone dubbi non risolti nella più pura tradizione popperiana (che ne è stato della feroce avversione a Popper che ricordo nelle nostre conversazioni di tanti anni fa?).

Molte cose che Paolozzi descrive e commenta sono ampiamente condivisibili, almeno nel contesto culturale liberale in cui ci riconosciamo. Anche se avrei alcune obiezioni sull’utilizzo di certe affermazioni di Tocqueville che non corrispondono affatto alla realtà americana di oggi ancora basata, come ai tempi in cui il visconte Alexis de Clérel andava scoprendola, su un’etica civile diffusa e condivisa che rappresenta il cemento capace di tenere insieme le sue contraddizioni laceranti; non ho conosciuto critici più feroci della società statunitense degli americani stessi, ma al contempo sono loro che ancora ci indicano in una costruzione politica e sociale come quella che hanno eretto e consolidato in oltre due secoli l’unica strada percorribile per salvare il liberalismo, e con esso la libertà “tout court”: quella “balance of powers” che resiste a tutte le spinte omogeneizzanti, anche le più recenti indotte dalla globalizzazione dell’economia e dalla diffusione planetaria delle nuove tecnologie digitali (su cui Paolozzi esprime condivisibili preoccupazioni).

Ma altro è a mio avviso il punto fondamentale che emerge dalla lettura dei diversi saggi contenuti nel libro di Paolozzi: il rapporto tra liberalismo e relativismo e quindi l’inevitabile riflessione sui limiti del principio di tolleranza che di ogni concezione liberale rappresenta un evidente presupposto, quel rispetto del pensare e dell’agire di ogni individuo altro da sé, senza il quale il liberalismo perde ogni significato; e come mettere d’accordo questa esigenza – tanto più importante in un’epoca come la nostra in cui le intolleranze e i settarismi sembrano segnare una nuova preoccupante emersione – con l’idealismo crociano tanto avverso ad ogni forma di relativismo e sempre alla ricerca di principi assoluti su cui connotare la “religione della libertà”.
La risposta Paolozzi la trova in una lettura originale delle ultime opere del filosofo napoletano rilanciando un’evoluzione “movimentista” del suo pensiero, distante ma componibile con il liberalismo della “Critica”, ancora influenzato dall’idealismo hegeliano anche quando ne prendeva le distanze (“Ciò che è vivo e ciò che è morto…..”). E dunque Paolozzi dedica al principio di “vitalità”, incardinato nella categoria dell’utile, alcuni spunti molto stimolanti restituendoci un’immagine di don Benedetto diversamente “vitale” (mi si perdoni il gioco di parole) e imprevedibilmente moderna.

Naturalmente non è questa la sede per approfondire il tema e per condividerne o contestarne alcuni passaggi ma in ogni caso va riconosciuto al libro di Paolozzi il merito di cercare di mettere insieme in una piattaforma costruita su fondamenti comuni quel che resta valido del pensiero liberale contemporaneo. Tentativo tanto più apprezzabile in quanto si misura con la questione davvero dirimente del nostro tempo che è quella della complessità, e della domanda che ne scaturisce logicamente: se gli strumenti offerti dalla democrazia liberale sono ancora in grado – anche con gli inevitabili adattamenti – di governarne i tanti aspetti di un mondo in transizione di cui sappiamo da dove viene ma non riusciamo a capire dove va.
C’ è nel libro un passaggio molto bello, quando Paolozzi scrive: “Il liberale può e deve svolgere un ruolo che potremmo definire di movimento, che non è l’incoerenza o l’opportunismo, ma l’intelligenza di chi sa che il bene non è un feticcio da adorare. Il bene si conquista giorno dopo giorno solo nella concreta azione politica la quale si trova a fronteggiare problemi sempre nuovi e quindi a proporre soluzioni sempre nuove, di ripensare e rimodulare il rapporto tra lo Stato e l’individuo nello svolgimento della storia.”

 

Franco Chiarenza
5 maggio 2017

 

Ernesto Paolozzi – Il liberalismo come metodo – Kairos edizioni – Napoli 2015 – pag. 126

La democrazia è un sistema di governo irreversibile ma continuamente modificabile in relazione ai diversi modi di aggregare il consenso e di indirizzarlo a finalità di interesse comune; per questo essa deve prevedere al suo interno meccanismi di auto-limitazione che le impediscano di degenerare in forme di populismo plebiscitario, anticamera di ogni autoritarismo. E’ questa in qualche modo la conclusione che ho tratto dalla lettura dell’ultimo saggio di Sabino Cassese, giunto in libreria proprio mentre la crescita di movimenti populisti anti-sistema pone al centro del dibattito pubblico la crisi della democrazia.
La democrazia in realtà non è in crisi ma in espansione, sostiene Cassese; il populismo riflette una domanda di maggiore partecipazione di base che si esprime in una crescente domanda di partecipazione diretta (cosiddetta democrazia deliberativa) finendo per mettere in difficoltà lo stato liberale fondato su un equilibrio di poteri non tutti di origine democratica, ma essenziale per assicurare un governo che possa unire alla legittimazione elettorale le necessarie visioni strategiche e l’efficienza della pubblica amministrazione in tutte le sue componenti. La democrazia liberale pone un limite invalicabile alle maggioranze elettorali che è costituito dai diritti personali irrinunciabili e il costituzionalismo liberale lo garantisce attraverso un sistema di check and balance che presuppone l’esistenza di corpi autonomi intermedi in grado di esercitare funzioni di controllo e di intermediazione anche attraverso i mezzi di comunicazione (il che rende essenziale e non comprimibile la libertà di informazione e di comunicazione in generale). Al di là di ogni altra considerazione il modello “Cinque Stelle” applicato alla Costituzione produrrebbe un sistema di governo fondato su una serie continua di plebisciti (più o meno manovrati) attraverso i quali una ristretta oligarchia in grado di regolarne i flussi (la democrazia elettronica aiuta) farebbe le sue scelte senza condizionamenti intermedi in base soltanto alle indicazioni indiscutibili di un capo carismatico (eletto o no poco cambia; Grillo comunque non lo è). Per chi conosce la storia un modello che potremmo definire “giacobinismo elettronico”; e non a caso forse il motore digitale che ne regola il funzionamento è stato intitolato a Rousseau (per il quale – ricordiamo – la “volontà generale” espressa da una èlite di illuminati prevale sui diritti individuali).

Il libro di Cassese peraltro è molto interessante anche nelle parti in cui affronta altre tematiche di grande rilievo come i rapporti con le istituzioni “non democratiche” (magistratura soprattutto) il che lo rende particolarmente attuale. I riferimenti bibliografici, esposti con rara chiarezza e secondo linee guida indispensabili in una materia così ampiamente trattata, ne accrescono il valore.
Ne consiglio vivamente la lettura: serve a schiarirsi le idee anche per chi crede di sapere tutto sull’argomento. Come è stato per me.

 

Franco Chiarenza
30 aprile 2017

Sabino Cassese – La democrazia e i suoi limiti – Mondadori (Milano 2017) – pag. 120, euro 17