Mai come in questo momento Erasmo da Rotterdam torna d’attualità, mentre l’Europa è squassata da ondate populistiche e minacce esterne che ne mettono in pericolo la stessa esistenza. Non so quanti degli studenti che hanno usufruito in questi anni delle borse Erasmus hanno avuto la curiosità di conoscere il pensiero di questo grande personaggio il quale, come loro, ha in qualche modo rappresentato l’unità dell’Europa. La quale, ieri come oggi, non era priva di confini e parlava linguaggi diversi, ma era una nel dibattito religioso e filosofico, una nello scambio di esperienze e nella riscoperta del suo passato nella lettura dei classici, una nella ricerca di una difficile compatibilità tra l’eredità cristiana, portatrice di valori assoluti, e la libertà di coscienza, avanguardia obbligata della libertà di ricerca e di espressione. Hanno fatto bene i governi europei, nell’istituire questa rete di scambi che ha consentito a migliaia di studenti di mescolare esperienze di studio e di relazioni in tutto il continente, a intitolare il progetto a Erasmo; nessuno meglio di lui poteva simboleggiare l’unità profonda che lega nella sua molteplicità di forme la cultura europea.
Dobbiamo a Carlo Ossola, studioso profondo del pensiero letterario, la pubblicazione di un bel libro che ripercorre la storia d’Europa in un momento essenziale della sua trasformazione attraverso l’opera tormentata di Erasmo. Con una scrittura scorrevole l’autore ripercorre i fondamenti del pensiero di Erasmo, l’importanza che ebbe in un periodo cruciale quando l’Europa si confrontò con la scissione cristiana, quando si posero le fondamenta della legittimità del dissenso da cui doveva scaturire l’essenza di quella filosofia che più tardi sarà chiamata liberalismo.
Ossola spiega molto bene la contrapposizione tra Erasmo e l’altro gigante della filosofia politica rinascimentale, Machiavelli; che rappresentano anche in qualche misura le differenze culturali tra l’Europa del nord e quella mediterranea. Ripercorrere le ragioni di questa dialettica tra due personaggi che non si conobbero mai ma che sono stati entrambi fondamentali è molto istruttivo anche per capire le trasformazioni che stiamo vivendo.
Il “Principe” di Machiavelli vide la luce nel 1513, l’”Institutio principis christiani” di Erasmo due anni più tardi; Ossola li contrappone polemicamente ed è chiaro che la sua simpatia va al secondo. E non c’è dubbio che, trattando entrambi il problema dell’esercizio del potere, anche la nostra simpatia va a chi – come l’olandese – lo fonda sulla ricerca del consenso piuttosto che al fiorentino che ne ricerca i rapporti di forza. Ma si tratta di semplificazioni che non rendono conto della complessità degli scritti dell’uno e dell’altro e delle contraddizioni che in entrambi sono frequenti, a cominciare – per quanto riguarda Erasmo – dalla compatibilità tra il suo pensiero e la tradizione cattolica alla quale fino alla fine rimase fedele.
Certo, con la scissione luterana Erasmo è costretto a confrontarsi per ragioni geografiche ma anche perché di Martin Lutero egli conosce bene le ragioni e il pensiero; ed è sul problema del libero arbitrio e della sua compatibilità col principio imperscrutabile della grazia divina che avviene la rottura. Tema complesso che si allarga alle concezioni calviniste che tanto inchiostro hanno fatto scorrere per comprenderne le relazioni con la libertà dei moderni ma che richiederebbe ben altro spazio di quello di una recensione.
Un libro quindi da leggere anche nella sua parte in cui Ossola si sofferma sull’influenza che gli scritti di Erasmo hanno avuto nei secoli successivi, sulle interpretazioni del suo pensiero, sulle manipolazioni ideologiche di cui è stato oggetto.

 

Franco Chiarenza
14 aprile 2017

Carlo Ossola – Erasmo nel notturno d’Europa – Vita e Pensiero editore (Milano 2015) – pag. 134, euro 13,00

Ho finito faticosamente di leggere “il regno” di Emmanuel Carrère. Faticosamente perché si tratta di un viaggio nei tormenti spirituali dell’autore che si contorce per 428 pagine in cerca di una risposta al fondamentale quesito se essere un cattolico credente o no. Le ultime parole del libro sono: “non lo so”. C’è tempo per un altro libro.
Potrò sembrare eccessivamente caustico, ma devo ammettere che gli esami di coscienza hanno sempre avuto per me scarsa attrazione, sin da quando adolescente in un collegio di Barnabiti mi toccava farli ogni quaresima; non mi interessavano i miei, figurarsi quelli degli altri.
Naturalmente il libro di Carrère, scrittore e autore di testi cinematografici e televisivi, è scritto bene, in alcune parti riesce a catturare l’attenzione sul protagonista che, come in tutte le autobiografie (perché di questo essenzialmente si tratta), è l’autore stesso.
Le parti più interessanti di questo testo sono però a mio avviso quelle che ricostruiscono la genesi dei Vangeli (in particolare quelli di Luca e Matteo) e la ricostruzione della figura di Paolo di Tarso che incombe nel lungo viaggio che l’autore compie alla ricerca di se stesso. Quando emerge lo storico il racconto prende quota e l’enigma del successo bimillenario del cristianesimo appare in tutte le sue contraddizioni. In queste parti ci sono pagine straordinarie che valgono tutto il libro e che hanno il pregio per un liberale appassionato di storia come me di semplificare senza distorcere il grande affresco che nei secoli – nel bene e nel male – il messaggio evangelico, rilanciato e “organizzato” da Paolo, ha avvolto la cultura europea. Alcune ricostruzioni sono parto della fantasia accattivante di Carrère, il quale non esita a immaginarsi come un Luca narrante, ma anche in questi casi l’umanizzazione dei comportamenti resta correttamente separata dal rigore storico documentato. Un libro dunque che il “liberale qualunque” consiglia a chi ha un po’ di tempo e altrettanta pazienza.

 

Franco Chiarenza
20 marzo 2017

 

Emmanuel Carrère – Il Regno – Adelphi (Milano 2015) – pag. 428, euro 22

Ho la brutta abitudine di leggere sempre in ritardo i nuovi libri; così ho finito soltanto adesso la lettura di questo scritto di Luigi Compagna pubblicato nel 2015. Un bel libro in cui l’autore ricostruisce con intelligenza le vicende dell’”Italietta” post-risorgimentale, con particolare attenzione al decennio giolittiano, sfociate poi nello scontro tra neutralisti e interventisti che portò l’Italia a partecipare alla prima guerra mondiale sul fronte opposto alle alleanze in cui fino a quel momento si era riconosciuta.
Compagna giustamente, nel ricostruire con grande attenzione le vicende delle “radiose giornate” del maggio 1915, colloca la decisione del governo italiano in un ambito esclusivamente circoscritto alla politica interna, a sua volta condizionata dallo scontro, politico e culturale, tra l’empirismo giolittiano e le diverse componenti che convergevano soltanto nell’avversione a Giolitti e al suo sistema di governo. L’entrata in guerra con l’Intesa fu sostanzialmente un modo per eliminare Giolitti dalla scena politica, obiettivo su cui con diverse motivazioni e assai differenti obiettivi, si ritrovarono insieme il nazionalismo sentimentale e irrazionale di D’Annunzio (ma anche di Prezzolini, Marinetti e di altri precursori del fascismo), l’opposizione democratica degli “onesti” che denunciavano come criminali i sistemi di governo di Giolitti (come Salvemini e Albertini), e le ambizioni di Vittorio Emanuele III che forse voleva passare alla storia come il re che aveva completato l’unità d’Italia perseguita dai suoi avi (o forse soltanto già stanco dei vuoti riti parlamentari e preoccupato delle incognite politiche e sociali che l’allargamento del suffragio stava determinando).
Compagna riprende bene il filo rosso che attraversa il liberalismo italiano di quegli anni con una particolare attenzione a Croce il quale proprio alla vigilia della “grande guerra” diventa più attento alla politica contingente e salda quel rapporto con Giolitti che lo porterà al ministero della pubblica istruzione nel breve governo che lo statista di Dronero presiedette nel 1920. Nella spaccatura che attraversa il liberalismo italiano passa la linea di frontiera tra le due concezioni politiche e ideologiche che si confrontano in quegli anni; e si tratta di divisioni talmente profonde che anche a fronte di fenomeni nuovi che irrompono sulla scena politica come gli sviluppi del partito socialista e l’emergere di un partito di massa di ispirazione cattolica non cessano di combattersi e facilitano in tal modo la presa del potere da parte del fanatismo nazionalista che trova in Mussolini il suo interprete.

Col fascismo, nella fase iniziale, tutti i liberali svolgono un ruolo ambiguo. Quelli che si rifacevano all’empirismo giolittiano (e tra essi Croce) pensavano a un possibile riassorbimento del fascismo nell’ordine costituzionale dopo avergli lasciato il “lavoro sporco” di restaurare l’autorità dello Stato fortemente compromessa dal “biennio rosso” e dalle velleità rivoluzionarie che l’avevano accompagnato. I liberali democratici duri e puri come Gobetti e Salvemini da parte loro dicevano apertamente di preferire Mussolini (visto come un rivoluzionario “riassorbibile” nella prassi democratica) al corrotto notabilato parlamentare del giolittismo. Quando fu chiaro che il fascismo era cosa diversa, assai più strutturato (anche culturalmente) di quanto essi ritenessero e che non era possibile utilizzarlo per poi disfarsene ma, al contrario, erano i liberali che erano stati utilizzati dal fascismo nascente per legittimarsi di fronte a quei “poteri forti” (monarchia, grande industria, esercito) che sarebbero ancora stati in grado di arrestarne l’avanzata, il dietro-front fu rapido e unanime ma tardivo; la saldatura tra lo Stato borghese monarchico e la dittatura fascista era ormai avvenuta e solo l’ingenuità di Giovanni Amendola poteva immaginare che la Corona sarebbe intervenuta a impedirla.

Nonostante gli errori certamente imputabili a Giolitti e ai suoi metodi di governo (peraltro non molto diversi da quelli utilizzati dai suoi oppositori) la simpatia dell’autore va senza dubbio allo statista piemontese; partendo da una riflessione di Rosario Romeo sulla sostanziale delegittimazione dei parlamenti post-unitari egemonizzati da una borghesia che non riconosceva neanche indirettamente diritti di rappresentanza ai nuovi ceti sociali cittadini e rurali emergenti, Compagna osserva giustamente che questa appunto era la preoccupazione di Giolitti e che si deve al suo pragmatismo e alla sua sottile “dittatura” se tramite un parlamento così poco rappresentativo egli sia riuscito ad allargare progressivamente il suffragio, consentendo così a socialisti e cattolici di entrare nel gioco politico attraverso le istituzioni e non fuori di esse. Così, senza interrompere un processo graduale ma la cui direzione era chiara (e dichiarata) Giolitti poté svolgere un’azione riformatrice profonda anche se silenziosa, fondata su un corretto funzionamento delle strutture ordinarie dello Stato, che portò a grandi miglioramenti nella salute della popolazione, nella lotta all’analfabetismo, nei diritti sindacali, nel tenore di vita delle plebi meridionali, come ebbe a ricordare Benedetto Croce in un famoso discorso alla Consulta nel 1945 (opportunamente riproposto nel libro di Compagna) e in cui – finalmente – il filosofo napoletano accoglie definitivamente il principio che nella realtà delle cose concrete il liberalismo non era possibile senza democrazia (non meno di quanto la democrazia abbia bisogno di fondamenti liberali per sopravvivere alle tentazioni totalitarie).

Molto interessante, anche se suscettibile di ulteriori approfondimenti, il capitolo in cui si analizza il rapporto intercorso in sede di giudizio storico tra i leader comunisti italiani e l’esperienza giolittiana; problematico ma sostanzialmente positivo in Togliatti, negativo invece per Gramsci ma con motivazioni che, da un punto di vista liberale portano invece a riconoscere la funzione stabilizzatrice ma non inerte dei governi di Giolitti.
Corre in tutto il libro il confronto tra i diversi modi – non solo astrattamente culturali – di praticare il liberalismo nel lungo periodo in cui i liberali hanno governato l’Italia: dall’idealismo crociano che gradualmente si incrocia e si incontra col pragmatismo della borghesia piemontese (di cui Giolitti rappresenta la più completa espressione) all’insofferenza morale (che diventa moralistica) per la mancata rivoluzione delle coscienze che è l’essenza del giacobinismo mazziniano di Salvemini (e del suo odio per Croce oltreché naturalmente per Giolitti) fatalmente destinato ad incrociarsi col fanatismo nazionalista e con le forme più estreme dell’irrazionalismo che ha accompagnato la crisi dei valori borghesi all’inizio del XX secolo. Il drammatico risultato che ne è conseguito è consistito in due conflitti mondiali che hanno distrutto l’Europa non soltanto materialmente ma anche facendo venir meno l’egemonia culturale che nel bene e nel male essa aveva esercitato nei secoli precedenti.

Un bel libro dunque che consiglio agli amici di leggere anche per la sua imprevedibile attualità. Arrivati alla fine ci si chiede: non avremmo bisogno di un nuovo Giolitti non solo per la sua intelligenza strategica ma anche e forse soprattutto per la capacità di tradurre i grandi obiettivi nella politica quotidiana, quella che arriva in tutte le case, “senza più riscontro nella legislazione attuale (farraginosa e irta di piccole misure inutili e dannose) dove si riconosceva una formazione svoltasi alla scuola di una magistratura e di una burocrazia intelligenti, ordinate”. Parole di Togliatti in una conferenza su Giolitti negli anni ’50. Il quale così concludeva: “La chiara legislazione e la ordinaria amministrazione giolittiana sono l’ultimo bagliore di un passato”.

 

Franco Chiarenza

 

Luigi Compagna – Italia 1915. In guerra contro Giolitti. – Rubbettino (Soveria Mannelli, 2015) Pag. 187 – euro 14,00