Che fare. E cosa non fare. Pro-memoria estivo per l’Opposizione

A modesto avviso di un “liberale qualunque” le cose da fare per superare l’attuale congiuntura sono:

  1. Abbandonare la retorica pro-contro immigrati cercando di spostare altrove il punto dirimente del contrasto. Stessa cosa sulla legittima difesa. Si tratta di tematiche complesse che richiedono analisi realistiche su cui la sinistra si muove con difficoltà ed è sicuramente perdente anche in ampi settori di elettorato moderato.
  2. Centrare il confronto con la maggioranza sull’Europa, anche in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo l’anno prossimo. E’ un tema che imbarazza e divide i Cinque Stelle che in materia non hanno mai avuto idee chiare; in molti di essi le derive sovraniste e nazionaliste della nuova Lega sono accolte con evidente disagio. Riprendere dunque lo slogan della Bonino “Più Europa”, con l’obiettivo di rilanciare il processo di unificazione politica con chi ci sta. Evitare la retorica di un’ “Europa diversa”, quasi a giustificare gli anti-europeisti. Ognuno di noi la vuole diversa (più liberale, più socialista, più attenta alle differenze sociali, più ambientalista, e quant’altro). “Quale Europa” è una dialettica da sviluppare in un’Unione che già sia stata costituita e alla quale siano state cedute porzioni importanti di sovranità in politica estera, nella difesa, nel coordinamento delle politiche finanziarie nell’ambito della moneta comune. Prima facciamo l’Europa poi discutiamo come dev’essere, non viceversa. Dire di essere europeisti soltanto a condizione che l’Unione sia come la vorremmo è un modo garbato di dire che si vuole fermare il processo di integrazione. A ben vedere si tratta della stessa divaricazione che divise i nostri antenati quando si trattò di unificare l’Italia. Da un lato gli unitari a tutti i costi, anche, se necessario, mantenendo la monarchia sabauda e alleandosi con Napoleone III, dall’altra i “duri e puri” della Repubblica romana (“uniti sì ma solo se ……”). Ha avuto ragione Cavour (prima facciamo l’Italia poi discutiamo).
  3. Integrare il discorso sull’Europa con quello dei “compiti a casa”, riprendendo in parte il primo riformismo di Renzi (quello della Leopolda) ma senza Renzi il quale, per ora, resta impresentabile ai fini di un recupero del consenso. I compiti a casa sono le cose che non funzionano e su cui né la Lega né il movimento Cinque Stelle propongono soluzioni convincenti: in primis scuola e giustizia.
  4. I “compiti a casa” servono anche a risolvere il problema dei problemi, quello della disoccupazione. Non sono le leggi che producono lavoro, ma soltanto gli investimenti. Essi si possono favorire con provvedimenti che riducano gli eccessi burocratici, portino la pressione fiscale a livelli accettabili, facciano funzionare bene e rapidamente la giustizia (soprattutto civile e amministrativa), raccordino l’offerta formativa alla domanda delle imprese. In questo (e poche altre cose) consistono i “compiti a casa”.
  5. Affrontare con decisione e sincerità tematiche elettoralmente sensibili come le pensioni e il sostegno alla disoccupazione involontaria (in sostanza il cosiddetto “reddito di cittadinanza”). In una situazione di risorse limitate favorire gli adeguamenti pensionistici e creare nuove misure assistenziali significa scegliere una politica sostanzialmente volta a sostenere anziani (e giovani mal formati rispetto alle esigenze del mondo produttivo) inevitabilmente a scapito della creazione di nuovi posti di lavoro. Il “reddito di inclusione sociale” varato dal governo Gentiloni, con qualche modifica migliorativa, è uno strumento valido per contrastare il disagio sociale. Anche gli incentivi 4.0 per l’innovazione di prodotto messi in cantiere dal precedente governo sono stati accolti con favore dagli imprenditori; potrebbero produrre più occupazione se la loro utilizzazione non fosse ostacolata in parte dalla mancanza di mano d’opera qualificata (donde l’importanza di una riforma radicale delle scuole tecnico-professionali).
  6. Ridurre sensibilmente il debito pubblico per ridare fiato al credito. Continuare a pensare di farlo senza ricorrere a misure straordinarie costituisce un’ingenuità a cui non crede più nessuno. L’unico modo per conseguire l’obiettivo è quello di un prelievo “una tantum” sul patrimonio immobiliare da destinare esclusivamente alla riduzione del debito. Chi non è d’accordo suggerisca alternative praticabili senza continuare a prendere in giro l’Europa, i mercati e, in ultima analisi, noi stessi.
  7. Diminuire sensibilmente la pressione fiscale. Se, al di là dei contrasti ideologici “di principio”, si dimostrasse che la flat tax sarebbe in grado di fare emergere almeno in parte il gigantesco sommerso che caratterizza (e penalizza) la nostra economia, se ne potrebbe discutere. Nicola Rossi (economista storico della sinistra) ha sostenuto che, realizzata con intelligenza e gradualità, essa potrebbe rappresentare una soluzione accettabile. Per tranquillizzare gli scrupoli della sinistra costituzionale che ritiene ancora la progressività delle imposta un tabù irrinunciabile (mentre ha prodotto uno dei sistemi fiscali più iniqui e fallimentari dell’Occidente) basterebbe forse chiamarla diversamente. La nostra sinistra è da sempre molto sensibile ai nominalismi a scapito della sostanza dei problemi.
  8. Opere pubbliche. Possono costituire una leva importante per rilanciare l’economia assorbendo in parte la disoccupazione e creando le infrastrutture necessarie per rendere attrattivo il Paese a nuovi investimenti. La retorica pentastellata contro le “grandi opere” poggia su un duplice equivoco che va smantellato, anche contestando le cifre false su cui si basa la loro propaganda. Il primo è che gli appalti per le grandi opere siano fonte certa di corruzione e di connivenze poco trasparenti; anche se spesso in passato è stato così bastano norme chiare e controlli verificabili per impedire che ciò avvenga (e in parte il governo Gentiloni le aveva già messe in atto). Il secondo equivoco riguarda i costi che si fanno apparire sproporzionati mentre con le somme “risparmiate” si potrebbero finanziare lavori pubblici più vicini alle esigenze quotidiane dei cittadini: ferrovie locali, strade provinciali, scuole, ospedali, assistenza, ecc. Non è così. Alcune grandi opere, per esempio, sono finanziate da fondi europei che vengono concessi per progetti infrastrutturali di interesse continentale (i grandi assi stradali e ferroviari, il rilancio delle zone sottosviluppate, ecc.). Il nostro Paese è l’unico che non ha saputo (o voluto?) utilizzare i fondi europei per realizzare adeguati investimenti sul territorio. Di questi invece ha bisogno l’economia del futuro, non solo per creare nuovo lavoro ma anche per mantenere quello che c’è. E non si tratta soltanto di infrastrutture nei trasporti ma anche (e forse soprattutto) di quelle immateriali come università efficienti, ricerca scientifica, razionalizzazione della sanità pubblica, ecc.
  9. Mezzogiorno. Basta con la vecchia retorica meridionalistica. Ripetiamo ai miei conterranei la lezione inascoltata di Gaetano Salvemini che ricordava già un secolo fa che la salvezza del Mezzogiorno non può venire da fuori. Da realtà esterne e sovrastanti (Stato centrale, Europa, finanza internazionale) possono arrivare sostegni anche significativi se le regioni meridionali riescono a mettere insieme un progetto organico di rilancio economico credibile e orientato al futuro, nel cui contesto le infrastrutture giocano un ruolo fondamentale. Inutile crogiolarci nel lamentoso vittimismo di certi meridionali se per andare in ferrovia da Roma a Bari ci vogliono tempi biblici, se il collegamento tra Palermo e Catania è affidato a una ferrovia degna del Far West del secolo scorso, se le autostrade costruite nel Sud dallo Stato (e, chissà perché, solo quelle) crollano ignominiosamente e quando ci sono ricordano le montagne russe. Il tutto con la complicità di una classe dirigente che ha preferito utilizzare le risorse disponibili per creare migliaia di “posti fissi” non necessari, moltiplicando così una burocrazia già nota per la sua incapacità e la sua pigrizia. La verità è che i nuovi investimenti, se “privati”, non attirano; sono considerati precari e non garantiscono il posto di lavoro in caso di inefficienza; Checco Zalone nei suoi film ce ne ha dato una plastica descrizione. E poi ci si chiede perché gran parte dell’elettorato meridionale sia passato in blocco dalla vecchia DC clientelare a Berlusconi, e da quest’ultimo senza esitazioni al movimento Cinque Stelle. Scrutando all’orizzonte se si presenta qualcun altro che in futuro voglia “assisterlo”.
    Si tratta di una grave carenza culturale che peraltro non riguarda tutti i meridionali ma soltanto quelli più rassegnati e impigriti dalla mancanza di stimoli. Per trattenere gli altri – i migliori – sul territorio ed evitare che fuggano altrove bisogna dir loro la verità e spingerli a creare le condizioni per superare questa situazione nell’unico modo possibile: una rivoluzione culturale.

Alcuni di questi punti sono incompatibili con la cultura prevalente del partito democratico il quale continua a identificare il ruolo della sinistra nell’intervento salvifico dello Stato e quindi, in sostanza, in una politica dirigista. Gli appelli del tipo “i barbari sono alle porte bisogna unirsi per fare fronte”, come quello lanciato da Massimo Cacciari – pur condivisibili nell’analisi – mi lasciano perplessi nella loro praticabilità. Il centro sinistra è diviso non (o non soltanto) per rivalità personali ma perché pretende di tenere insieme visioni troppo diverse nel modo di concepire il modello politico e sociale del futuro. La storia del passato dimostra che le unificazioni forzate da emergenze vere o presunte non pagano elettoralmente: due più due non ha mai fatto cinque ma quasi sempre tre. Uno studioso della politica come Cacciari dovrebbe saperlo bene. Piuttosto che cercare di mettersi d’accordo con compromessi programmatici pasticciati è meglio procedere separati.
Esiste in Italia uno spazio centrista che, in base ai risultati conseguiti da Monti nel 2013, corrisponde “grosso modo” al 10% dell’elettorato. Renzi era riuscito ad assorbirlo nelle elezioni europee dell’anno successivo pagando però il prezzo di una scissione a sinistra (come sempre avviene quando la sinistra cerca di occupare uno spazio di centro: chi ha studiato la storia dei socialisti italiani lo sa bene). Oggi questo elettorato moderato e liberale (che potrebbe ampliarsi fino al 20%) è disperso tra Forza Italia, Cinque Stelle e PD. Forza Italia, costretta nella camicia di forza che continua a imporgli Berlusconi con la sua ingombrante presenza, non sembra in grado di assorbirlo (anche perché la prevedibile leadership di Tajani appare debole e troppo dipendente da Arcore). I Cinque Stelle dovrebbero avere raggiunto il loro massimo punto di espansione; qualsiasi scelta di merito, in mancanza di un chiaro obiettivo ideologico, gli farà perdere consensi, e comunque le concezioni liberali in economia sembrano estranee alla cultura prevalente nel suo “nocciolo duro”. Il partito democratico è alle prese con scelte laceranti, tra la convinzione (dura a morire) che bisogna recuperare un elettorato di sinistra (anche se qualcuno ingenuamente potrebbe chiedersi perché questo “popolo di sinistra” non ha colto l’occasione per sostenere “Liberi e Uguali”), la tentazione di riassorbire un elettorato moderato di centro e le velleità vendicative di Renzi.

I “liberali qualunque”, da me presuntuosamente rappresentati (in numero di due aderenti; non tre perché andrebbero incontro a una sicura scissione) ritengono che occorra costruire un nuovo spazio politico di riferimento al di fuori del PD, in grado di percorrere in modo chiaro e deciso la strada di un riformismo liberale senza la preoccupazione di dovere fare i conti con Grasso e Fassina da una parte e con il paternalismo di Berlusconi dall’altra. Mi pare sia questa l’indicazione che proviene – in modi diversi ma sostanzialmente convergenti – da personaggi come Calenda e Cottorelli ed è su di essa che si possono costruire significative alleanze tra ceti medi, imprenditori, giovani che cercano opportunità e non assistenza. Dieci per cento? Basterebbe a cambiare la politica italiana. Per le necessarie alleanze e gli inevitabili compromessi c’è tempo.

Franco Chiarenza
9 agosto 2018

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