I missili di Kim e il grande gioco di Xi

Al di là della comprensibile preoccupazione per i giochi missilistici del padre padrone della Corea del Nord condivisa da ogni persona ragionevole ho l’impressione che l’immagine prevalente in Occidente di un bambino incosciente che gioca con i fiammiferi e che basti un intervento un po’ rude del papà cinese per rimettere le cose a posto (che sembra anche la convinzione di Trump) sia poco convincente.

Alcune domande
Alcune domande si pongono ineluttabilmente: 1) come ha fatto un piccolo paese poverissimo alle prese pochi anni fa con carestie catastrofiche a cui hanno dovuto far fronte aiuti internazionali (anche occidentali) a mettere in piedi non la fabbricazione di una bomba atomica (ormai alla portata di qualunque paese che abbia voglia di investirvi le risorse necessarie) ma la costruzione e il lancio di missili balistici intercontinentali tecnologicamente avanzati e tali da minacciare addirittura lo stesso territorio nord-americano? 2) quali sono le reali finalità di questa ostentata provocazione? Affermare lo “status” di potenza nucleare? E a quale scopo? Difendersi da un’invasione americana è una risposta propagandistica che non ha alcun fondamento perché la sopravvivenza della Corea del nord dipende esclusivamente dalla garanzia cinese (così come quella della Corea del sud non potrebbe rinunciare alla protezione americana).
Cui prodest, a chi giova in realtà tutto questo?

Guardare lontano
La risposta a queste domande non è facile. In apparenza tutto sembra confermare che si tratti dei giochi pericolosi di un dittatore megalomane: la Cina, almeno a parole, prende le debite distanze e accetta le sanzioni decretate dall’ONU contro la Corea del nord, la Russia non sembra particolarmente interessata (almeno per ora), non si vede chi altro voglia aiutare un regime ormai contestato anche dai fratelli e cugini ancora formalmente comunisti, né si comprende quali reali vantaggi verrebbero a Kim Jong-un dal far parte del cosiddetto “club nucleare” (nel quale vi sono paesi come il Pakistan senza che ciò incida significativamente sul loro ruolo internazionale).
Proviamo però a guardare lontano cercando di indovinare le mosse della grande partita a scacchi che si gioca sul futuro in Estremo Oriente (e da lì nel mondo intero). L’obiettivo della Cina, una volta accettato il sistema capitalistico fino a farsene paladina contro il neo-protezionismo di Trump, come è avvenuto al recente vertice dei paesi del Pacifico a Da Nang, è quello di eliminare l’influenza americana e di assumere la leadership dell’intero scacchiere. Per far questo occorre indebolire il Giappone e minarne la stretta alleanza con gli Stati Uniti, impedire la riunificazione della Corea sul modello filo-americano di Seul, riannettersi Taiwan secondo le regole imposte a Hong Kong. A quel punto il gigante cinese potrebbe giocare la partita ad armi pari con i paesi del Sud Est asiatico (india, Pakistan, Indonesia) isolando sostanzialmente le nazioni eredi della tradizione britannica (Australia e Nuova Zelanda) difficilmente assimilabili ma ridotte in termini geo-politici all’impotenza.
La politica non si fa con la fantapolitica, potrebbe obiettare qualcuno. Anche perché se c’è davvero un burattinaio che tira i fili senza esporsi non può ignorare i rischi di una recita così provocatoria. Ma in realtà gli americani, al di là di un probabile riarmo del Giappone e della Corea del sud (su cui qualche apprensione sarebbe giustificata), poco possono fare: non certo una reazione nucleare sproporzionata e con pesanti coinvolgimenti della popolazione civile, e nemmeno un intervento militare di tipo tradizionale perché la Cina non potrebbe mai consentirlo. Dimostrare che gli Stati Uniti sono soltanto una “tigre di carta” (come già ebbe ad affermare Mao Ze Dong tanti anni fa) avrebbe un significato da non sottovalutare soprattutto in Oriente dove l’immagine conta talvolta più della sostanza. Le reazioni scomposte di Trump servono soltanto ad amplificarne il senso di impotenza (“se stanno mettendotelo nel didietro – recita un proverbio esplicito nella sua volgarità – meglio stare fermi; agitarsi non risolve il problema e aumenta il dolore”). Chiedere aiuto alla Cina, se è vera la mia ipotesi, è solo un’ingenuità. E’ certo invece che un indebolimento americano, anche soltanto di immagine, non può che giovare alla Cina. D’altronde la presidenza di Trump, confusa, velleitaria, ma orientata in maniera ormai evidente ad abbandonare le ragioni morali e di principio su cui gli Stati Uniti dopo la guerra avevano fondato la loro egemonia – culturale prima che politica, militare ed economica – sembra avere accettato una riduzione anche drastica del suo ruolo in Estremo Oriente, e ciò non può che avere incoraggiato il dittatore nord-coreano e i suoi eventuali occulti protettori.

Fantasie? Come diceva l’ineffabile Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.

Franco Chiarenza
30 novembre 2017

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