La trappola russa di Trump

La cosiddetta “roulette russa” è, come è noto, un tragico gioco che consiste nello spararsi alla tempia con una pistola a tamburo a sei colpi e un solo proiettile; se si è sfortunati e parte il colpo è la fine. L’elezione di Trump presentava per i repubblicani rischi analoghi; bisognava solo capire delle tante vulnerabilità del nuovo presidente quale sarebbe esplosa prima: l’imprevedibilità del personaggio, il suo “entourage” (anche familiare), le posizioni ambigue e contraddittorie che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale, l’ostilità dei mezzi di informazione in un paese dove la stampa indipendente ha sempre esercitato un forte controllo sul potere esecutivo non lasciavano molti margini. Ma il colpo è partito dove meno era prevedibile, il cosiddetto “Russiagate”.

La guerriglia fredda
Il fatto che il governo russo avesse influito sulle elezioni presidenziali sviluppando un sistema di fakenews in grado di delegittimare la candidata democratica era stato inizialmente percepito come possibile, anche fastidioso, ma non determinante. Ma gli sviluppi delle inchieste che si sono susseguite sugli stretti rapporti tra alcuni collaboratori di Trump e personaggi dell’amministrazione russa sono andate a toccare un nervo sempre scoperto dell’opinione pubblica americana, quello di contenere le pretese egemoniche del Cremlino in Europa e in Oriente; una “guerriglia fredda” che ha continuato a trascinarsi dopo la fine del sistema sovietico e che ha trovato nuovo alimento nell’arbitraria annessione della Crimea e nei tentativi di limitare la sovranità dell’Ucraina. Se davvero la Russia ha aiutato Trump (anche finanziando alcuni suoi collaboratori) quale sarebbe stato il prezzo da pagare?
Trump aveva ingenuamente pensato, mal consigliato forse da Bannon, che gli Stati Uniti avrebbero potuto facilmente ritirarsi dal ruolo di “gendarme della democrazia” nel mondo praticando una politica di spartizione delle rispettive egemonie con la Russia. Ciò avrebbe permesso a Trump di realizzare quel sogno isolazionistico che dovrebbe consentire all’America di “fare da sé” risolvendo tutti i problemi economici attraverso politiche protezionistiche variamente calibrate. A Putin, che dalla globalizzazione ha tutto da temere, una linea politica siffatta sarebbe andata benissimo, anche perché lasciando scoperta un’Europa debole e divisa riapriva le possibilità di creare un’egemonia sul Vecchio Continente o almeno su una parte di esso.
Ma questa strategia, al di là di ogni valutazione ideologica, presentava due incognite che non hanno tardato a manifestarsi: l’ostilità di una larga parte dei repubblicani eredi dell’antica politica kissingeriana del contenimento della potenza russa, e la nuova realtà della Cina la quale, forte di uno sviluppo capitalistico senza precedenti, al contrario della Russia ha puntato tutte le sue carte sulla globalizzazione. C’erano poi, nella strategia di Trump, altri effetti collaterali che non avrebbero mancato di fare sentire la loro influenza: i rapporti col Giappone, le reazioni europee, le divergenze col Canadà (oltrechè naturalmente col Messico).

Il birillo
E’ cominciata allora la continua oscillazione del presidente dilettante. Il rapporto preferenziale con Putin si è rotto e il Congresso lo ha obbligato a firmare l’inasprimento delle sanzioni alla Russia, la tanto disprezzata Europa è stata improvvisamente richiamata alla sua funzione di partnership all’interno dell’alleanza atlantica, la politica prudente di Obama in Medio Oriente è stata sostituita da un interventismo che ricorda i precedenti di Bush in Iraq, i componenti del suo staff salgono e scendono senza una chiara direttiva strategica, il segretario di Stato Tillerson sembra muoversi in totale autonomia, e perfino sulla revoca della contestata riforma sanitaria promossa dai democratici non si è trovato un accordo e l’Obamacare potrebbe restare in funzione ancora a lungo.
Quanto Trump riuscirà a resistere in queste condizioni è difficile prevedere; ma potrebbe arrivare prima del previsto il giorno in cui, ripetendo la celebre frase di Cicerone, qualcuno si leverà nel Campidoglio americano domandando: quousque tandem abutere, Donald, patientia nostra?

 

Franco Chiarenza
25 luglio 2017

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