Torna Letta (Enrico). L’altro non è mai andato via

Come era prevedibile il terremoto suscitato dalla creazione del governo Draghi continua a investire le forze politiche costringendole a cambiamenti traumatici: dopo il “commissariamento” dei Cinque Stelle con la probabile ascesa al vertice di Giuseppe Conte anche il partito democratico si affida a un cavaliere bianco richiamando dal suo esilio parigino Enrico Letta. A destra la situazione sembra più tranquilla dopo che i settori più moderati e “nordisti” della Lega sono stati accontentati con la collocazione di Giorgetti al governo in una posizione di rilievo; ma il fuoco cova sotto la cenere soprattutto nei gruppi parlamentari (italiani ed europei) e il nervosismo di Salvini appare evidente nel tentativo di riportare al centro della scena un problema, come quello dell’immigrazione clandestina, oggi assai meno sentito. La Meloni gioca invece (anche in Europa) la carta dell’opposizione “ragionevole” e trova in Draghi un interlocutore attento e disponibile.

Non è difficile scorgere dietro queste scelte la regia occulta di Mattarella, sempre attento a non farsi coinvolgere in dispute che comprometterebbero il suo ruolo istituzionale, ma anche consapevole del suo potere tanto più ampio quanto più le altre istituzioni appaiono impaurite e lesionate (a cominciare dal parlamento e dalla magistratura), in attesa che il “semestre bianco” congeli il panorama politico e la pandemia cessi di condizionare le fondamentali libertà dei cittadini.
Fa riflettere il fatto che i protagonisti di questa nuova stagione abbiano lontane origini abbastanza comuni, più vicine alla cultura cattolica di sinistra che non alle tecnocrazie liberali (Andreatta piuttosto che Carli, tanto per intenderci). Non fa eccezione Enrico Letta ed è curioso che il salvatore del poco che resta del post-comunismo italiano sia un cattolico; Berlinguer (ma soprattutto alcuni suoi ispiratori come Franco Rodano) sarebbero contenti.
Ma al di là di Mattarella (e forse suo tramite) si intravedono anche le preoccupazioni dei partner europei di blindare la politica estera europeistica e atlantica in attesa che in novembre la nuova leadership tedesca che scaturirà dalle elezioni succedendo al lungo regno della Merkel riveli le sue intenzioni.

Il problema di fondo però, al di là dell’emergenza Covid e della gestione del Recovery Fund, resta per noi quello della riforma istituzionale senza la quale i meccanismi decisionali e operativi resteranno bloccati dalla prassi devastante dei veti incrociati e delle convenienze elettorali a breve termine.
Sappiamo di cosa si tratta: non di riscrivere la Costituzione (per cui mancano le condizioni politiche e temporali) ma di concentrarsi su quattro punti essenziali sui quali è possibile trovare subito soluzioni concordate tra le principali forze politiche.

  1. una nuova legge elettorale chiara, comprensibile a tutti, che consenta a ogni elettore di capire quali saranno le conseguenze del suo voto. I partiti la vorrebbero proporzionale per essere tutti partecipi delle scelte di governo ma gli elettori devono sapere che più è ampio lo spettro della rappresentanza meno si riesce a concretizzare un progetto di governo a medio e lungo termine che vada oltre l’ordinaria amministrazione. Siamo l’unico paese tra le democrazie occidentali che cambia governo e maggioranze ogni anno e in cui la principale attività di ogni nuovo governo consiste nell’annullare ciò che aveva intrapreso il precedente. Il sistema ideale per assicurare la governabilità è l’uninominale che, tra l’altro, ha il vantaggio di ristabilire un legame diretto tra elettori e deputati che li rappresentano, come dimostrano le felici esperienze dei paesi che lo adottano (e che, non a caso, ha assicurato stabilità anche ai nostri enti locali). I partiti non lo vogliono perché temono di perdere il controllo sui gruppi parlamentari? Si possono trovare soluzioni intermedie purché siano condivise e tradotte in norma costituzionale per evitare che ogni maggioranza si faccia una legge elettorale su misura delle proprie (vere o presunte) convenienze.
  2. una riforma del Senato che lo riconduca a quel ruolo di “seconda Camera” che storicamente ha sempre avuto (e che mantiene in molte costituzioni europee). I senatori potrebbero essere eletti dai consigli regionali (non al loro interno) e decadere in occasione di ogni elezione regionale (come avviene per il Bundesrat tedesco). Il loro numero dovrebbe essere molto contenuto (uno per mezzo milione di abitanti?) e i loro poteri limitati alle modifiche costituzionali, al controllo delle leggi che incidono sulle competenze regionali e degli enti locali, alla seconda lettura di leggi già approvate dalla Camera per suggerire eventuali modifiche, e poco altro. Insieme ai deputati i senatori continuerebbero ad esercitare i poteri che la Costituzione attribuisce loro congiuntamente: elezione del presidente della Repubblica, dei giudici della Corte Costituzionale, dei componenti laici del CSM, delle Autorità indipendenti.
  3. la riforma del titolo V della Costituzione per ridisegnare i poteri delle Regioni, distinguendo nettamente quelli che esse possono esercitare in via esclusiva da quelli che devono restare all’amministrazione centrale dello Stato, evitando il più possibile le cosiddette “competenze concorrenti” che hanno rappresentato in questi anni la “via crucis” di ogni governo e di ogni Regione, ingolfando la Corte Costituzionale di ricorsi che rendono ancor più difficile il rispetto della certezza del diritto.
  4. la regolamentazione costituzionale degli stati di emergenza in modo da evitare che alcuni diritti fondamentali vengano sospesi con semplici decreti del presidente del Consiglio, rischiando un contenzioso che si prolungherà negli anni. Le soluzioni possono essere diverse e contemperare le esigenze di rapidità negli interventi con la necessità che i diritti civili trovino la loro salvaguardia non soltanto nelle variabili maggioranze parlamentari ma anche in alcuni organi di garanzia già presenti nel nostro ordinamento (presidente della Repubblica, Corte costituzionale, ecc.).

Difficile? Sì. Possibile? Sì, se si coglie l’occasione di un governo in cui quasi tutti sono intorno allo stesso tavolo e anche l’opposizione pare disponibile al dialogo.

Franco Chiarenza
13 marzo 2021

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