La vicenda della Sea Watch su cui ci si sta accapigliando in Italia (e altrove) è al tempo stesso molto semplice e assai complessa. Semplice nella sua dinamica: una nave appartenente a una ONG prende a bordo una quarantina di naufraghi abbandonati in mare dai soliti scafisti criminali. Con ciò si chiude l’aspetto umanitario della vicenda, i naufraghi risultano al momento dello sbarco in buone condizioni di salute (quelli che non lo erano erano già stati portati a terra), e si apre invece una complicata questione politica che non riguarda più i naufraghi come persone (posto che il loro ricollocamento in Italia o in altri paesi, dato il numero esiguo, non costituisce un problema) ma questioni di principio politiche con notevoli ricadute giuridiche.
Da una parte c’è Salvini, azionista di maggioranza di un governo che proprio sul problema dell’immigrazione clandestina ha raccolto il consenso elettorale con un preciso mandato di ridurre drasticamente il suo impatto sulla popolazione civile, il quale, in coerenza con gli impegni presi con l’elettorato, ha chiuso alle ONG l’accesso ai porti italiani; dall’altra c’è una ONG che ha assunto un atteggiamento chiaramente provocatorio con l’intenzione evidente di forzare il blocco e dimostrare così che la strada è di nuovo aperta al trasferimento dei profughi in Italia. C’è poi il governo olandese coinvolto direttamente per il fatto che il Sea Watch batte bandiera olandese e quindi, secondo il governo italiano, avrebbe dovuto farsi carico dei profughi. Non basta: c’è in gioco anche la Commissione dell’Unione Europea vincolata da un trattato (trattato di Dublino) che l’Italia non vuole più riconoscere e che gli altri stati dell’Unione rifiutano di modificare nella parte che più interessa l’immigrazione clandestina, gli oneri che ricadono sul paese di primo sbarco.
Una matassa difficile da sbrogliare in cui tutti hanno le loro ragioni e i loro torti ma che non consente forzature illegali e inopportune come quelle che la giovane comandante della Sea Watch ha compiuto a Lampedusa.
Intorno alla vicenda si è quindi giocata una partita politica senza esclusione di colpi che ha lasciato sul terreno una sola vittima, la possibilità di raggiungere un accordo ragionevole su scala europea. Questioni di principio, preoccupazioni elettorali (anche negli altri paesi europei), interpretazioni giuridiche, forzature “umanitarie” pretestuose, si sono mescolate in un intreccio che sarà difficile da sbrogliare. Salvini ha condotto la partita come un gatto col topo: alla fine il topo è rimasto vivo ma il leader della Lega ha dimostrato agli italiani di essere un vigile interprete delle loro preoccupazioni, e ai paesi dell’Europa del Nord le contraddizioni implicite nei loro comportamenti. La sinistra e i radicali si sono prestati alla finzione umanitaria che faceva da schermo a una sostanziale provocazione sperando di averne qualche vantaggio in termini di consenso elettorale ma non si vede una strategia realmente alternativa a quella della Lega in grado di aggregare consenso. L’ONG responsabile di questa vicenda voleva probabilmente dimostrare che Salvini è soltanto una “tigre di carta” e che la politica di chiusura dei porti non funziona, ma il costo ha finito per risultare troppo alto per un risultato tanto modesto.

Punto a capo
Bisogna ripartire da zero per cercare una soluzione che vada oltre il braccio di ferro che è stato ingaggiato tra la destra italiana e i paesi del Nord Europa che vedrebbero volentieri l’Italia svolgere con i profughi africani la stessa funzione di serbatoio che la Turchia garantisce nei confronti di quelli provenienti dall’Est. La riforma del trattato di Dublino è urgente: altrimenti Salvini avrà buon gioco a pretenderne una denuncia unilaterale.
Naturalmente però il problema vero è in Libia: è lì che bisogna intervenire con misure di breve e lungo termine. Nell’immediato, perché non chiedere all’Unione Europea di promuovere un intervento armato umanitario, autorizzato dall’ONU e affidato all’Unione Africana (per evitare accuse di neo-colonialismo), per il controllo e la gestione dei campi profughi? Con un adeguato supporto logistico e finanziario la cosa sarebbe realizzabile senza eccessive difficoltà e senza interferire più di tanto nella guerra civile in atto in quel paese.
Nel frattempo però non si può lasciare alle ONG, di alcune delle quali non sono chiari né i finanziamenti né gli obiettivi reali, il potere di decidere quali e quanti profughi trasferire in Italia. Ovviamente si dirà che le navi delle ONG si limitano a raccogliere i naufraghi ma, anche senza sospettare connivenze non dimostrate, è evidente che gli scafisti che continuano a gestire l’emigrazione clandestina sanno bene dove e quando fare incrociare le imbarcazioni abbandonate con mezzi di soccorso che non riportino indietro i profughi. Il risultato paradossale, al di là di ogni esigenza umanitaria (che va comunque sempre assicurata), è che coloro che vengono salvati non sono i più disgraziati ma quelli che hanno potuto pagare gli scafisti, alimentando così i loro loschi profitti!

Il futuro
La questione dell’immigrazione considerata in una proiezione a lunga scadenza passerà inevitabilmente dall’apertura delle frontiere (nostre ma pure degli altri paesi europei), anche per esigenze obiettive imposte dal crollo demografico; il problema riguarda i tempi e le modalità con cui effettuare tale trasmigrazione (perché di questo si tratterà) modificando le nostre leggi che oggi rendono problematico e illegale l’utilizzo degli immigrati, ma anche evitando che l’Italia venga utilizzata come un gigantesco campo profughi in cui concentrare tutti gli immigrati e da cui attingere eventualmente soltanto in base alle necessità di ciascun paese europeo. Il che avverrà inevitabilmente se i porti restano aperti, gli sbarchi consentiti e, al contempo, vengono chiuse le frontiere terrestri in palese violazione degli accordi di Schenghen (pudicamente dichiarati “sospesi”).
Il problema delle frontiere esterne dell’Unione è strettamente legato alla riapertura di quelle interne. O si risolve affidando all’Unione il compito di vigilarle con mezzi adeguati (anche paramilitari), eliminando definitivamente quelle interne e riattivando senza deroghe e “sospensioni” la libera circolazione all’interno dei paesi europei che hanno aderito allo “spazio Schenghen, oppure i “sovranismi” troveranno una loro giustificazione. L’obbligo di accogliere e registrare i profughi da parte dei paesi di “primo ingresso” (che è la questione che divide i paesi più esposti dagli altri) può essere mantenuto soltanto se accompagnato dall’apertura delle frontiere interne e da misure di accoglienza gestite dall’Unione e rese obbligatorie per tutti. E’ tempo di rimettersi intorno a un tavolo senza preclusioni pregiudiziali; vale per l’Italia ma anche per gli altri partner sempre pronti a invocare la solidarietà e a non praticarla.

Il fantomatico “piano Marshall” per l’Africa
Molti sono quelli che cercano di eludere problemi immanenti con fughe in avanti come immaginare un fantomatico “piano Marshall” per l’Africa che in tempi brevi dovrebbe consentire agli africani di restare a casa loro in condizioni esistenziali accettabili. L’ho pensato anch’io ma mi sono convinto che:

  1. per realizzarlo occorrono risorse molto rilevanti (che dubito i paesi europei sarebbero disposti a impegnare) e tempi talmente lunghi da non incidere sulle spinte migratorie.
  2. un piano coordinato di interventi dovrebbe essere accompagnato da una rinuncia di alcune potenze europee ex-coloniali a gestire strategie di sostegno strettamente legate ai propri interessi (Francia, Italia, Gran Bretagna ma anche Germania, ecc).
  3. il piano ERP funzionò dopo la guerra nell’Europa occidentale anche perchè si accompagnò alla presenza di una classe dirigente responsabile, formata secondo principi omogenei, preparata a gestire la complessità dell’economia. Purtroppo non mi pare che, nella maggioranza dei casi, tali condizioni esistano nell’Africa equatoriale e meridionale (con qualche eccezione: Sudafrica, Kenya, Etiopia e pochi altri).
  4. l’unica cosa realizzabile concretamente in tempi brevi è l’avvio di una politica di integrazione, collegata con l’Unione Europea, nei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo (Magreb, Egitto, Libano). L’Italia potrebbe proporlo insieme agli altri paesi meridionali dell’Unione, Francia, Spagna, Grecia, Malta.
    Condizioni complessivamente difficili che richiederebbero da parte dell’Europa uno sforzo unitario che non pare all’orizzonte e che comunque frenerebbero l’emigrazione ma non la fermerebbero per la semplice ragione che è l’Europa che tra pochi anni avrà bisogno degli immigrati per sopravvivere.

Piuttosto bisogna pensare a come selezionare l’immigrazione, come garantire la loro integrazione, come formare le nuove generazioni (nostre e loro) a convivere in una situazione così diversa, con la consapevolezza che i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra identità nazionale ed europea può anche passare attraverso l’integrazione degli immigrati secondo la grande lezione che ci proviene dalla storia dell’impero romano e che si è ripetuta molti secoli dopo negli Stati Uniti d’America.

 

Franco Chiarenza
1 luglio 2019

Le previsioni più o meno sono state rispettate. Poche sorprese quindi dai risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento dell’Unione Europea. Ora che il temporale è passato mostrandosi meno devastante dello tsunami che alcuni avevano a più riprese preannunciato, cerchiamo di capire quali sono le conseguenze che dovremo trarne: in Europa e in Italia. Naturalmente dal nostro punto di vista, quello del “liberale qualunque”.

In Europa

  1. I “sovranisti” sono cresciuti (come previsto), ma non fino al punto di rovesciare l’ampia maggioranza europeista. Essendo molto divisi tra loro potranno costituire un blocco frenante ma non ispirare un progetto alternativo, come dicono di voler fare.
  2. I popolari (democratici cristiani) sono diminuiti (come previsto) ma restano il primo partito in Europa. Sono però deboli perchè riflettono le difficoltà del paese in cui hanno maggior peso, la Germania. Il loro candidato alla presidenza della Commissione (Manfred Weber) potrebbe non farcela.
  3. La vera (e unica) sorpresa è costituita dai Verdi che sono cresciuti ovunque e potrebbero essere determinanti per le future maggioranze parlamentari. Hanno le idee chiare, una leadership credibile (sia in Germania che in Francia), inseriscono perfettamente la loro sensibilità ambientale nelle istituzioni dell’Unione che difendono senza riserve (euro compreso).
  4. I liberaldemocratici hanno consolidato la loro terza posizione. Purtroppo in gran parte per l’apporto dei liberali inglesi (che hanno raccolto molti voti anti-Brexit) che verrà meno quando l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione giungerà a compimento, probabilmente in ottobre.
  5. Il sorpasso dei sovranisti francesi sul partito di Macron non è una sorpresa. I candidati “europeisti” hanno sempre prevalso sulla destra soltanto al ballottaggio; il voto europeo conferma che la Francia è purtroppo spaccata in due e lo resterà per molto tempo, come la Gran Bretagna. Sarà un caso che entrambe siano ex-imperi coloniali che scontano resistenze nazionaliste, certamente irrazionali ma in grado di aggregare i tanti motivi di protesta che inevitabilmente si formano in una società democratica? Comunque non vi saranno conseguenze a breve termine per Macron; la sua debolezza non deriva dall’incalzare di Marina Le Pen ma dal venir meno (per diverse ragioni) di interlocutori credibili in Germania e in Italia con cui fare blocco in Europa.
  6. In Gran Bretagna le elezioni hanno assunto inevitabilmente il carattere di un secondo referendum sulla Brexit. Non stupisce quindi il successo dell’anti-europeista Farange, peraltro compensato dall’avanzata dei liberal-democratici (europeisti) e dalla tenuta dei laburisti (molti dei quali europeisti). Ne esce, ancora una volta, un paese diviso a metà che la nuova leadership conservatrice non potrà facilmente governare. Nuove elezioni saranno inevitabili, salvo un improbabile accordo tra conservatori e laburisti per una soft Brexit. Ma nel frattempo cosa sarà successo in Europa?

In Italia

A giudicare dal comportamento elettorale degli italiani sembra quasi che il loro Paese non si trovi in Europa. La dinamica e le ragioni del voto italiano non corrispondono infatti a quelle degli altri grandi paesi europei.

  1. La Lega cresce anche oltre il 30% già previsto. Ma il consenso trasversale che raccoglie dovrebbe preoccupare Salvini per le contraddizioni interne che lo caratterizzano. Buona parte del nord (compreso il Piemonte strappato al PD) che ha votato la Lega con percentuali “bulgare” non condivide posizioni estremistiche contro l’Unione europea e non metterebbe mai a rischio i vantaggi che gli sono derivati dall’apertura dei mercati; anche perché si tratta spesso di elettori che provengono da settori moderati che in passato avevano votato Forza Italia o Cinque Stelle. Mettere insieme tante diversità per una proposta credibile, al di là degli slogan, sarà difficile: in Italia e in Europa.
  2. Il crollo dei Cinque Stelle (ampiamente preannunciato dai sondaggi) è andato oltre le più fosche previsioni, soprattutto al centro-nord. Ma non bisogna credere che il movimento di Grillo e Casaleggio stia per scomparire dalla scena: perderà ancora qualche pezzo (tra cui probabilmente Roma e Torino dove i risultati elettorali sono suonati come mozioni di sfiducia per le relative sindache pentastellate) ma, riordinate le idee, manterranno un forte potere di condizionamento, soprattutto nel sud. Se risolvessero alcuni problemi di democrazia interna e orientassero la loro immagine più sull’ambientalismo (sviluppo sostenibile) e meno sul giustizialismo e su misure assistenziali che hanno alimentato un consenso sostanzialmente clientelare, la loro collocazione europea potrebbe avvicinarsi ai Verdi.
  3. Il partito democratico ha mostrato segni di ripresa, soprattutto in alcune elezioni amministrative. Tuttavia il tentativo di Calenda di raccogliere attorno al PD tutte le forze europeiste e anti-salviniane, a prescindere dagli orientamenti socialisti o liberal-democratici, è fallito, anche perchè si risolveva in una confluenza confusa nel partito socialista europeo. L’elettorato liberale si è diviso tra +Europa (ALDE), PD (PSE), e FI (PP), ritrovandosi nella penosa situazione di non essere rappresentato in Europa da nessuno.
  4. Emma Bonino non è riuscita a superare la soglia del 4%. Le ragioni sono sostanzialmente tre: la sfiducia nella possibilità di raggiungere il quorum che ha indotto molti a votare Calenda (e anche Berlusconi), veti e obiezioni di carattere personale soprattutto nei confronti di Tabacci e Della Vedova, la mancanza di una proposta programmatica più visibile e originale di quanto non sia stata. Il risultato raggiunto in condizioni così difficili è comunque positivo e induce noi liberali a sperare che possa costituire in futuro il nocciolo duro su cui costruire una partito di centro, laico e liberale, integrato in Europa a pieno titolo nella nuova alleanza tra Macron e l’ALDE.
  5. I risultati della giornata elettorale del 26 maggio complessivamente considerati (con le elezioni regionali e in molte città) fanno fare oggettivamente un passo avanti al progetto berlusconiano di una “grande destra” a guida moderata perché dimostrano che Salvini non può fare a meno dell’appoggio di Forza Italia per conquistare la maggioranza (come infatti è avvenuto in Piemonte). Salvini e Meloni però, pur temendo l’isolamento (soprattutto in Europa dove la mediazione “popolare” di Berlusconi sarà necessaria per non restare esclusi dai giochi), non vogliono d’altra parte avere “nemici a destra”. Ricordate il vecchio slogan della sinistra “nessun nemico a sinistra”? Ora lo praticano anche le destre per non lasciare a Casa Pound il monopolio del nostalgismo, che qualche peso, soprattutto in termini di militanza, pure lo dà. A questo pasticciato intrigo tutto è consentito tranne l’uso del termine “liberale”.

Qualcuno chiederà: e il governo Conte che fine farà? Non lo sa nessuno perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di farlo cadere. E’ condannato a morte dai risultati elettorali del 26 maggio ma – come il Bertoldo della seicentesca novella – ha chiesto la grazia di scegliere l’albero a cui essere impiccato. Potrebbe passare ancora un bel po’ di tempo. Resto comunque convinto che la spina la staccheranno i Cinque Stelle anche a costo di elezioni anticipate che li vedrebbero fortemente ridimensionati. Salvini infatti appena chiuse le urne si è affrettato a dichiarare che il governo potrà continuare ma ha invertito l’ordine delle priorità mettendo subito in difficoltà Di Maio. Il quale si trova anche a fronteggiare un visibile disagio dei gruppi parlamentari destinati alla decimazione un po’ per il calo del consenso elettorale ma anche per l’assurda regola dell’”inesperienza al potere” in base alla quale i pentastellati non possono avere più di due mandati. Altrimenti si corrompono.

 

Franco Chiarenza
28 maggio 2019

Pierluigi Ciocca è un economista troppo noto perchè si debba qui ricordarne i meriti; il suo curriculum all’interno della Banca d’Italia rende sempre le sue tesi credibili e meritevoli di rispetto.
Il libro di cui parliamo è utile per diverse ragioni: la prima è di carattere storico perché l’autore ci ricorda con dati e cifre inoppugnabili le vere ragioni della nostra crisi, al di là dei tanti miti che hanno accompagnato la crescita del nostro Paese (a cominciare da quello del “piccolo è bello”, dimostrando che il piccolo che non cresce rischia di morire precocemente).
Ma la ragione più importante per la quale il “liberale qualunque”, notoriamente incompetente in materia, raccomanda la lettura di questo libro è un’altra: in esso traspare (e non è la prima volta nell’ampia produzione di Ciocca) non soltanto una riabilitazione del ruolo svolto dall’IRI – la grande conglomerata pubblica ereditata dal fascismo che dominò l’economia italiana nel dopoguerra – nella ricostruzione del Paese e nel rilancio della crescita, ma anche l’intenzione di riproporre, in forme e modalità diverse, la necessità di un intervento pubblico coordinato finalizzato alla creazione delle grandi infrastrutture (non solo sul territorio ma anche nelle articolazioni del credito e nella distribuzione delle risorse disponibili) sottraendolo alle spinte elettorali contingenti: pubblico sì ma autonomo nelle scelte, come fu appunto – almeno in parte – il sistema che si andò formando nel dopoguerra (IRI, ENI, EFIM e poi anche ENEL).
Per un liberale come me “innamorato” dell’economia di mercato e delle privatizzazioni, che in passato ha sempre deprecato l’esistenza di questi “mostri” incontrollabili attraverso i quali il potere politico esercitava un innegabile condizionamento clientelare, queste nostalgie suscitano qualche perplessità, ma inducono a riflettere senza pregiudizi.

Lo spazio di una recensione – necessariamente breve – non consente di argomentare le diverse sollecitazioni contenute nel saggio di Ciocca; ma certamente va detto, anche in considerazione della attuale situazione italiana, che l’idea di utilizzare alcune disponibilità patrimoniali dello Stato (per esempio le partecipazioni in IRI e ENEL che non hanno altra funzione al di là degli utili che distribuiscono) e la stessa Cassa depositi e prestiti, per costituire un meccanismo pubblico di sostegno, partecipato anche da capitali privati, garantito nella sua autonomia, in grado di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, di dare impulso alla ricerca finalizzata all’innovazione (di cui il nostro sistema produttivo ha tanto bisogno), merita di essere seriamente considerata. Se davvero potesse essere realizzato nei termini proposti nel libro un meccanismo di sostegno pubblico coordinato e trasparente potrebbe svolgere un’utilissima funzione per il rilancio dell’economia italiana, oggi soffocata dalle urgenze dettate dall’emergenza o dagli appuntamenti elettorali. Non vedo in ciò nulla che non sia compatibile con le più moderne esperienze di economie di mercato (e anche di quelle antiche, come fu l’IRI ai suoi inizi). Meglio sicuramente degli interventi pubblici di rappezzo, disorganici, costosi, spesso inopportuni perché spinti da proteste sindacali che si prestano ad essere coperture di inefficienze imprenditoriali, impedendo quella necessaria funzione di “distruzione creativa” che per Schumpeter costituisce un momento essenziale della rigenerazione capitalistica (e quindi della sua vitalità). Certo, i fallimenti non devono ricadere sui lavoratori (i quali, in questi casi, vanno tutelati con adeguati e transitori strumenti assistenziali) ma non si deve consentire il ricatto sociale per mantenere in vita realtà produttive incapaci di affrontare il mercato.
Da un punto di vista liberale l’intervento pubblico si giustifica come sostegno alle imprese in crisi soltanto quando per le loro dimensioni, per l’importanza che hanno sull’intera filiera produttiva (come nel caso di Taranto) o per i riflessi di una crisi globale (come sono state quella “classica” del 1929 ma anche le altre che si sono succedute dopo il 2008) le conseguenze di un loro fallimento avrebbero comportato effetti disastrosi per l’intera economia del Paese. E poiché partecipiamo a un mercato comune con gli altri paesi europei spetta naturalmente agli organismi competenti (in particolare alla Commissione dell’Unione Europea) sincerarsi che l’eventuale “aiuto di Stato”, vietato dai trattati, abbia quei caratteri transitori ed emergenziali che lo giustificano.

Una proposta come quella abbozzata nel libro (peraltro come mera ipotesi) non poteva che venire da un economista come Ciocca, sempre controcorrente (o meglio contro alcune correnti), uno che non cerca negli eventi esterni le responsabilità della nostra difficile situazione economica, ma le attribuisce, con cifre e constatazioni difficilmente contestabili, alle nostre classi dirigenti e alle loro scelte; non soltanto alla classe politica ma anche agli imprenditori, ai sindacati, alle variegate e variopinte corporazioni che perpetuano i loro privilegi dai tempi del fascismo. Se è vero che molti nemici rappresentano una ragione d’onore (come hanno sostenuto – pare – condottieri antichi, dittatori moderni e ministri contemporanei) Ciocca sta a posto.
Tutto ciò premesso, il “liberale qualunque” (che nemico di Ciocca non è, anzi ritiene di esserne amico) si chiede: ma con la classe politica che ci ritroviamo (compresa l’opposizione), chi è in grado di garantire che un tale “meccanismo” (come tiene a definirlo Ciocca) non degeneri in qualcosa di molto diverso?

Prima di concludere voglio segnalare, tra le tante cose interessanti di cui parla il libro, due in particolare, su cui non mi soffermo ma che ritengo imperdibili per i lettori: il capitolo che analizza la centralità della Germania e la sua formula dell’economia sociale di mercato, nei suoi pregi e nei suoi (tanti) difetti, e l’altro che analizza le possibili drammatiche conseguenze di una nostra uscita dall’euro. Può darsi che nei dintorni di palazzo Chigi qualcuno si sia spinto fino alla fatica di leggerlo perché di “Italexit” non sento parlare più.

Franco Chiarenza
7 Maggio 2019

 

Pierluigi Ciocca, Tornare alla crescita, Donzelli editore (Roma 2018), pp. 209, euro 19

Il 26 maggio si voterà per il nuovo parlamento europeo. E’ un appuntamento importante per diverse ragioni:

  1. perché il parlamento europeo svolge un ruolo fondamentale in molte materie ma soprattutto nella elezione della Commissione e nell’approvazione del bilancio comunitario. Un cambiamento di maggioranza avrebbe ripercussioni dirette su tutti i paesi dell’Unione.
  2. perché l’Unione sta attraversando un momento cruciale della sua esistenza. Attaccata all’interno da chi vuole farla regredire a una zona di libero scambio, all’esterno da chi ne teme le potenzialità se procedesse nell’integrazione (Russia, Cina ma anche Stati Uniti da quando Trump ha rilanciato uno sbilenco isolazionismo), essa si trova in mezzo a un guado dove rischia di marcire.
  3. perché l’Europa deve affrontare alle sue frontiere crisi difficili e sfide decisive: a) i flussi migratori dal Medio Oriente e dall’Africa. b) il conflitto armato in Ucraina. c) la Brexit, con i problemi di assestamento che comunque comporterà. d) la guerra civile in Libia.
  4. perché al suo interno e nelle immediate vicinanze stanno affermandosi sistemi di governo illiberali e obiettivamente in contrasto con i principi di diritto su cui l’Unione è stata fondata (per esempio l’Ungheria di Orban o la Turchia di Erdogan).

Tutte ragioni che dovrebbero fare riflettere coloro che pensano che il parlamento europeo sia un organismo inutile e che le cose che contano siano soltanto quelle di casa nostra. Infatti non è così: dalle istituzioni europee dipendono molte regole, vincoli, finanziamenti che riguardano anche noi. Inutile lamentarsi di ciò che l’Unione Europea fa o non fa se poi non si va a votare per i nostri rappresentanti al parlamento europeo, quasi che la loro scelta sia sostanzialmente indifferente. Il tempo in cui i partiti mandavano a Strasburgo personaggi espulsi dai circuiti del potere nazionali, come compenso per i servizi resi, è finito per sempre. Oggi è in Europa che si giocano le partite decisive e bisognerebbe fare attenzione a chi ci mandiamo.

Tutto ciò premesso; votare per chi?
Un liberale non dovrebbe avere dubbi: per chi rappresenta nella dimensione europea i valori liberali. Quindi per l’alleanza dei liberal-democratici europei, rappresentata in Italia dalla lista + Europa di Emma Bonino.
Sento molti liberali, o comunque vicini al liberalismo democratico, tentati di votare per il partito democratico o per il partito di Berlusconi, con la motivazione di evitare di disperdere il voto (perché + Europa potrebbe non raggiungere la soglia del 4%). E’ un grave errore, compiuto anche in passato quando è servito a convogliare voti di minoranza in grandi aggregazioni partitiche dove sono annegati senza lasciare traccia.
Se + Europa avesse accettato l’offerta di Zingaretti di confluire in una lista unica (naturalmente egemonizzata dal partito democratico) come avrebbe voluto Calenda, l’unico risultato concreto sarebbe stato di perdere i voti di chi – europeista e liberal-democratico – non intendeva confondersi con i socialisti europei. Perché deve essere chiaro che il partito democratico è per origini, per scelta (soprattutto dopo l’elezione di Zingaretti alla segreteria), per affinità politiche e culturali, una componente importante del partito socialista europeo affiliato all’Internazionale socialista. Mentre Forza Italia, malgrado le rivendicazioni “liberali” del suo leader, è in realtà un partito conservatore che aderisce al partito popolare europeo dove affluiscono tutte le componenti politiche moderate di ispirazione cristiana.
Naturalmente si può discutere se tali distinzioni, ereditate dal secolo scorso, abbiano ancora un fondamento; non vi è dubbio infatti che le differenze siano diventate nel tempo molto sottili con il tramonto delle ideologie totalizzanti e delle alternative di sistema, ma forse qualche diversità ancora esiste, e comunque esistono elettorati che ritengono che ci siano ancora.

Non vi è dubbio che nel futuro parlamento europeo il problema di fondo da risolvere sarà un altro, e qui la divisione sarà netta. Da una parte chi ritiene che di fronte al cambiamento degli scenari geopolitici l’Europa debba serrare le fila e presentarsi più unita possibile, il che significa, in pratica, rinunciare almeno in parte alle sovranità nazionali nella politica estera e in quella della difesa comune, dall’altra coloro che, al contrario, pensano che la crisi europea possa essere meglio affrontata restituendo piena libertà di manovra ai singoli stati, riducendo la Comunità alla semplice gestione di un’area di libero scambio o poco più. E’chiaro che la maggioranza che dovrà esprimere la nuova Commissione non potrà eludere questo fondamentale dilemma: da una parte quindi ci saranno popolari, socialisti, liberali (e probabilmente ambientalisti verdi), dall’altra “sovranisti” variamente raccolti su una prospettiva riduzionista.
In tale contesto è facile prevedere dove si collocheranno la Lega, Fratelli d’Italia e i movimenti di estrema destra, e in contrapposizione democratici, radicali e berlusconiani; la domanda è, dove andranno i Cinque Stelle? Non lo sanno nemmeno loro, il loro movimento è un “ircocervo” (come lo avrebbe definito Benedetto Croce) sovranista per certi aspetti, europeista per altri. Si attendono istruzioni da Grillo e Casaleggio.

Noi liberali intanto votiamo + Europa.

 

Franco Chiarenza
6 maggio 2019

 

Il sottosegretario Armando Siri è indagato per reati molto gravi di corruzione connessi anche a possibili legami mafiosi. Il movimento Cinque Stelle ne ha chiesto le dimissioni e il presidente Conte le ha pretese, Secondo un sondaggio pubblicato da “Il fatto quotidiano” il 71% degli italiani sostiene che Siri deve dimettersi. Che dire? Da liberale dico che il movimento di Grillo e il 71% degli italiani ignorano cosa sia lo stato di diritto.

In un paese normale (dal mio punto di vista) Siri, condannato tempo fa con rito abbreviato (che comporta l’ammissione di colpevolezza) per bancarotta fraudolenta, non avrebbe mai dovuto essere nominato sottosegretario. E stupisce che il Quirinale, tanto attento ai “curricula” dei membri del governo, non l’abbia a suo tempo fatto rilevare.
Ciò premesso allo stato delle cose Siri è semplicemente indagato e non ancora rinviato a giudizio; ciò significa semplicemente che sono state avviate indagini a suo carico che potrebbero anche non essere considerate fondate dal giudice di merito. Ora, non si pretende che – nel caso di membri del governo – si debba attendere il terzo grado di giudizio (come vorrebbe la Costituzione, prima di considerare un imputato colpevole), ma almeno il rinvio a giudizio sì. Altrimenti si consente a qualsiasi magistrato inquirente di decapitare il governo a suo piacimento.
E poi vorrei chiedere a Di Maio: perché per la Raggi, sindaco della Capitale, il rigore moralistico dei Cinque Stelle non vale? Non è forse anche lei indagata?

Altro che morale pubblica e onestà. Mi pare piuttosto che stiamo sprofondando in un clima da basso impero, con congiure, tranelli, colpi bassi; per mostrarsi poi uniti e sorridenti al balcone. Il governo non cadrà per così poco, proclamano all’unisono, e intanto preparano il prossimo tweet per colpirsi vicendevolmente. Eppure l’elettorato sembra (stando ai sondaggi) solo marginalmente preoccupato. Come dire: saranno pure compari litigiosi ma il reddito di cittadinanza l’hanno fatto, l’abbassamento dell’età pensionistica pure, il deficit ha aumentato il debito pubblico (ma questo era previsto e chi se ne frega), i porti sono stati chiusi agli immigrati (anche se se ne vedono in giro sempre troppi), possiamo finalmente sparare a piacimento contro i ladri. Il resto non conta.
Quanti sono quelli che ragionano così?

Franco Chiarenza
5 maggio 2019

Il percorso del governo Conte somiglia sempre più a una corsa a ostacoli. Gli scontri tra gli alleati della maggioranza si moltiplicano, le mediazioni del presidente del Consiglio sono continue e affannose, manca un progetto a lunga scadenza realmente condiviso a fronte di una situazione economica che resta molto difficile malgrado i deboli segnali di ripresa che provengono dai dati del primo trimestre (dovuti essenzialmente a un miglioramento della bilancia commerciale). Nel frattempo i due partiti di governo, incassati i dividendi elettorali su cui hanno investito (si vedrà nel tempo quanto consistenti), riscoprono le profonde differenze ideologiche che li dividono e che costituiscono un limite invalicabile alla loro alleanza; in sostanza quel che li univa si va esaurendo, ciò che li separa emerge inesorabilmente. La domanda è: chi staccherà la spina per primo e quando?

Incognita europea
Mi pare chiaro che chi prenderà l’iniziativa di rompere l’alleanza sarà il movimento Cinque Stelle. E ciò per diverse ragioni: la crescente insofferenza della propria base militante (assai superiore a quella, che pure esiste, della base leghista), la consapevolezza che la perdita di oltre dieci punti nel consenso elettorale (dato per certo da tutti i sondaggi) costituisce un fatto strutturale difficilmente recuperabile stando al governo, la possibilità (magari sostituendo in corsa il “capo politico”) di cambiare alleato e mantenere in vita la legislatura (eventualità evidentemente preclusa a Salvini). Non so quanto sia vero che Grillo si sia lasciato sfuggire l’ammissione di “essere inadeguati” rivolta al suo movimento, ma certamente questa è la realtà, come dimostra anche la vicenda sempre più penosa della sindacatura Raggi a Roma. E poiché fare l’opposizione è più facile che governare capisco la voglia di tornare a fare baccano e lasciare ad altri il compito di sciogliere nodi sempre più aggrovigliati (che loro stessi hanno contribuito ad aggravare). In tale prospettiva (se essa dovesse prevalere nelle segrete stanze della Casaleggio&C.) in panchina c’è Di Battista che riscalda i muscoli.
Diversa la situazione di Salvini. Il leader della Lega sa di avere raggiunto probabilmente il pieno dei consensi e che però questo non basta per governare da solo (e nemmeno con l’alleanza di Berlusconi e di Meloni, replicando una formula che ha avuto successo nelle elezioni regionali ma non avrebbe i numeri sufficienti a livello nazionale).
Per questo le elezioni europee rappresentano una cartina di tornasole fondamentale. Se dovessero confermare il declino dei Cinque Stelle saranno loro a staccare la spina, anche a costo di aprire una crisi al buio. E per farlo sceglieranno il terreno a loro più congeniale, quello della questione morale (e ciò spiega i toni usati sulla questione Siri). Peccato che le continue goffagini della Raggi costituiscano un serio ostacolo a tale progetto (e non a caso sulla “questione romana” Salvini spinge l’acceleratore, anche per togliere ai Cinque Stelle il monopolio della virtù).

Opposizione invisibile
In tutto questo bailamme colpisce il silenzio assordante dell’opposizione. Al di là delle dichiarazioni di maniera (stile vecchio PCI) Zingaretti pare più intento a cercare alleanze all’interno del perimetro circoscritto della sinistra tradizionale piuttosto che avviare una seria controffensiva mediatica, Calenda si lecca le ferite di un’iniziativa sbagliata perchè percepita come collaterale al PD invece che tesa a raccogliere consensi in un’area elettorale che non si riconosce nella leadership di quel partito. Toccherebbe a +Europa svolgere questa funzione di raccolta ma anche qui, almeno fino ad ora, si percepisce soltanto una presenza sbiadita. Anche perchè la speranza che finalmente in queste elezioni si voti finalmente in base a tematiche davvero europee si sta affievolendo; a fronte di un europeismo di bandiera, stanco e diviso, la destra ha buon gioco a definire il suo nazionalismo non anti-europeo ma “diversamente europeista”, richiamandosi a presunti valori identitari comuni su cui raccogliersi “contro” qualcuno e qualcosa (immigrati, burocrati di Bruxelles, globalizzazione, ecc.). E in tale contesto riproporre all’elettorato scelte politiche sostanzialmente nazionaliste e prive di qualsiasi riferimento ai veri problemi dell’Europa.

Franco Chiarenza
25 aprile 2019

Roma è di nuovo nell’occhio del ciclone. E quando mai non lo è stata? potrebbe obiettare qualcuno. E avrebbe ragione: da molti anni ormai la Capitale è diventata sinonimo di malaffare, corruzione, inerzia burocratica, pigrizia culturale. E inoltre – in questo almeno specchio fedele del Paese – indebitata fino all’osso del collo nella totale indifferenza dei suoi abitanti che pensano che prima o poi qualcuno (cioè lo Stato, cioè tutti gli italiani) pagherà.
Il fatto che Salvini usi strumentalmente le difficoltà della sindaca Raggi per riattivare la vecchia bandiera anti-romana della Lega di Bossi nulla toglie al fatto che un “problema romano” esiste e non da oggi. La gestione Raggi, al di là degli evidenti limiti politici della persona, non ha risolto nulla per la semplice ragione che – come sempre fa il movimento che l’ha espressa – scambia l’ordine dei fattori della crisi: Roma (e l’Italia tutta) non è in crisi perché è corrotta, è corrotta patologicamente perché non riesce a risolvere i problemi strutturali che la riguardano e, in particolare, la capacità di svolgere in maniera funzionale il suo ruolo di Capitale.
Cosa vuol dire “problemi strutturali”? Significa – detto in soldoni – burocrazia meno asfissiante e più efficiente (e forse meno numerosa), servizi adeguati a una metropoli su cui gravitano oltre tre milioni di abitanti, capacità di accoglienza per le diverse tipologie di ospiti che la frequentano (turismo religioso e di massa, turismo di èlite, corpi diplomatici, attività di governo, uomini d’affari, eventi culturali, mondo della comunicazione e dello spettacolo, ecc.), investimenti nella mobilità (soprattutto potenziando la rete su ferro sotterranea e in superficie), sviluppo urbanistico fondato su certezze giuridiche in grado di diminuire drasticamente i poteri discrezionali dell’amministrazione, fonte di ogni corruzione; il che comporta forse una revisione del piano regolatore ma soprattutto una normativa più severa sulle deroghe (anch’esse fonte di abusi come quelli perpetrati a danno dei vincoli ambientali e archeologici (che a Roma ovviamente rivestono particolare importanza).
E altro si potrebbe aggiungere per definire tutti quei problemi che non riguardano la quotidianità ordinaria ma che per essere risolti richiedono progetti ad ampio respiro seriamente studiati per immaginare la direzione da imprimere allo sviluppo futuro della città e i mezzi per farvi fronte. .

Non è sempre stato così
Chi scrive è abbastanza vecchio per avere conosciuto un’altra Roma, quella dell’inizio della Repubblica, quando sulla Capitale si riversavano le speranze, i progetti, i confronti – anche aspri – politici e culturali, quando era capitale indiscussa della letteratura, dei nuovi mezzi di comunicazione, di ogni genere di espressione artistica. Quando, forse per la prima volta nella sua storia moderna, sembrava davvero avere acquisito una centralità riconosciuta, quando più della metà dei suoi abitanti venivano dal resto d’Italia dando vita a un melting pot straordinario che coinvolgeva ogni strato sociale. Certo, l’espansione incontrollata della città, i fenomeni corruttivi già allora preoccupanti, gli attentati al patrimonio naturalistico e archeologico (invano denunciati da Cederna), facevano già intravedere un futuro problematico; i settori più vigili della sinistra democratica suonavano il campanello d’allarme (“Capitale corrotta = Nazione infetta” titolava una famosa inchiesta dell’Espresso nel 1955). Ma comunque la città riusciva, nonostante tutto, a mantenere un ruolo centrale, punto di riferimento obbligato per l’intera classe dirigente, come avviene normalmente in tutte le capitali europee. Anche sul piano internazionale Roma non rappresentava soltanto un patrimonio storico e culturale unico al mondo ma riusciva anche a mantenere una capacità di presenza che ne faceva, con Parigi e Londra (Berlino essendo ancora divisa dal Muro, Madrid capitale di un paese ancora in fase di uscita dal regime franchista) un polo di richiamo ineludibile.
Poi, lentamente ma inesorabilmente, è cominciata la decadenza. E se non si smetterà con la politica dei “pannicelli caldi” essa continuerà rendendo ancor più invivibile la città ai suoi abitanti e più antipatica al resto degli italiani che si sentono doppiamente danneggiati: per i soldi elargiti a fondo perduto e per lo svantaggio che deriva a tutto il Paese da un’immagine così deteriorata della propria Capitale.

Come procedere
Bisogna spiegare agli italiani che una Capitale efficiente e presentabile è una convenienza per tutti, anche per coloro che vivono in periferia e che con Roma bazzicano poco. Lo slogan dell’Espresso può essere rovesciato: Capitale efficiente = Nazione avvantaggiata. Ma occorre anche prendere atto che una Capitale ha dei sovraccosti che derivano dalla sua stessa funzione, e per tale ragione tutte le capitali del mondo sono governate da leggi che in qualche modo ne riconoscono la specificità e la regolano in maniera trasparente e controllabile. Fu quello che a suo modo fece il fascismo con l’istituzione del governatorato. Dopo la guerra la reazione alla retorica romanista che era stata largamente utilizzata dalla propaganda del regime non consentì di affrontare il problema con la serenità necessaria; Roma fu considerata un comune come gli altri (dal punto di vista istituzionale) e non furono certo le modifiche costituzionali del 2002 e la ridenominazione del Comune con la dizione Roma Capitale a modificare concretamente la situazione. Occorreva più coraggio e mettere in cantiere una legge organica che definisca lo “status” della Capitale, separando dove è possibile le responsabilità che ricadono sull’amministrazione centrale dello Stato (con i relativi oneri) da quelle che riguardano la gestione ordinaria che non hanno ragione di essere trattate diversamente da ogni altra città metropolitana. Di fatto (ma purtroppo mai con un chiaro disegno giuridico istituzionale) così avveniva prima del fascismo; lo Stato si assumeva molti oneri, sovraintendeva alle opere pubbliche necessarie, controllava direttamente parti importanti della città (ministeri, caserme, aree archeologiche, persino il fiume Tevere, ecc.). Sarebbe ora di mettere mano a un provvedimento organico, un quadro definitivo entro il quale sia possibile ai diversi organismi che oggi incidono sulla vita della Capitale (Stato, Regione, Città metropolitana) definire i propri compiti e relative responsabilità. E, poiché si tratta di metterci anche soldi, è giusto che chi paga possa controllare le spese. Nel pieno rispetto delle garanzie democratiche, dell’autonomia istituzionale della Città, è possibile trovare strumenti di garanzia che rispettino anche la legittima pretesa dei cittadini italiani di conoscere quanto gli costa la Capitale e in cambio di quali servizi. Servirebbe non soltanto a fare ripartire Roma ma anche a riconciliarla con tutti gli italiani.

Franco Chiarenza
23 aprile 2019

Il libro è un fascio di luce sul dramma, la confusione, le contraddizioni, incertezze, inconsapevolezze e comportamento dei protagonisti dei dieci giorni che vanno dal 16 luglio 1943 – quando si ebbero i primi contatti per la riunione del Gran Consiglio – al 25 luglio quando la riunione, andando oltre le finalità dei partecipanti, determinò la fine del regime fascista sigillata dall’arresto di Mussolini alle 17.30 dello stesso 25, ordinato dal re “per proteggerlo”.

Già negli ultimi anni del 1942, con le sconfitte in Africa e in Russia, si cominciò a pensare che la guerra sarebbe stata perduta. Poi, il 10 luglio 1943 c’era stato lo sbarco degli alleati in Sicilia e il 19 il bombardamento di Roma, preceduto il 17 da un lancio di manifestini firmati da Roosvelt e Churcill che incitavano gli italiani a scegliere se “morire per Mussolini e Hitler o vivere per l’Italia e la civiltà”. Per salvare l’Italia dalla catastrofe occorreva sganciarsi dalla Germania, esautorare Mussolini, restituire il comando del Paese al re e cercare una pace separata. Fin dal 1942 i militari avevano pensato di porre fine al regime eventualmente anche eliminando Mussolini, ma l’iniziativa era condizionata all’assenso del re che esitava. I rapporti sull’umore della popolazione che il capo della polizia inviava a Mussolini non lasciavano dubbi: “non hanno paura di parlare apertamente contro il regime … dicono che il DUCE non può farsi vedere in pubblico perché la gente lo lincerebbe … dappertutto si sente parlar male del DUCE …”). Era questa la situazione che Emilio Gentile presenta come premessa e sfondo alla riunione del Gran Consiglio.

La riunione del 25 luglio fu originata dalla decisione del regime di indire per il 18, in ogni capoluogo di regione, adunate di incitamento alla resistenza contro l’invasore sbarcato in Sicilia. Avrebbero dovuto parlare i principali esponenti del regime molti dei quali membri del Gran Consiglio. Da parte dei designati ci furono perplessità e resistenze per cui il segretario del partito Scorza indisse una riunione per il 16. Fu l’occasione per un conciliabolo tra gerarchi che si risolse in una richiesta della convocazione del Gran consiglio che poi ebbe inizio il 24.

La mancanza di un verbale della riunione del Gran Consiglio ha comportato la necessità di ricostruire quei giorni in base a diari, memorie, dichiarazioni, articoli, appunti e ricordi dei protagonisti; documentazioni per lo più parziali, postume, ripensate e scritte col senno di poi, inconsapevolmente inesatte o apologetiche o tendenti a giustificare la propria condotta, spesso discordanti. Emilio Gentile definisce “apocrifi d’autore” molti degli scritti dai quali, con una sorta di “calcolo combinatorio”, di accettazione delle concordanze e di eliminazione delle discordanze e di ciò che risultava implausibile, ha potuto ricostruire i dieci giorni che vanno dal 16 al 25 luglio.
Il quadro che si ricava da questo lavoro di cernita ci fa anche conoscere i protagonisti della riunione e le loro precedenti generali posizioni e atteggiamenti di obbedienza assoluta con successiva pretesa di un’indipendenza mai esistita; con qualche eccezione come quella di Bottai che da tempo era critico sull’eccessivo accentramento dei poteri su Mussolini.

L’ arresto di Mussolini fu solo anticipato rispetto a quello già deciso dal re e dai militari per qualche giorno dopo. La riunione del Gran Consiglio semplicemente lo anticipò e dette al re un “motivo legittimo” per agire.

Le tragedie del dopo il 25 luglio sono note. Dal 25 luglio si arrivò presto a quell’otto settembre che Galli della Loggia chiamò “Morte della Patria” e di cui scrisse nell’omonimo libro, e per il quale Silvio Bertoldi descrisse nei suoi libri la pochezza, inettitudine, irresponsabilità – e diremmo anche viltà – da parte di chi aveva la possibilità e il dovere di guidare l’Italia. Solo negli ultimi anni la data dell’otto settembre ha stemperato quel triste alone emotivo che la circondava: è l’effetto della progressiva scomparsa di coloro che quei giorni li vissero o “sentirono”. Ma i meno giovani quella triste data non la dimenticano. Rimane la domanda se quel che avvenne dopo il 25 luglio si poteva evitare, se si poteva uscire dalla guerra in modo dignitoso e meno tragico, se si poteva evitare lo sfascio e la disgregazione dell’esercito, se si poteva evitare Cefalonia, …

E del libro colpiscono le considerazioni e le domande che si pongono e si suggeriscono e sul se Mussolini poteva essere indotto a trattar lui un distacco dalla Germania favorendo una fine meno tragica della guerra.

Ma le cose andarono come andarono. Ormai è tutto storia, una storia amara.

 

Guido Di Massimo
17 Aprile 2019

 

Emilio Gentile, 25 Luglio 1943, Laterza (Roma-Bari 2018), pp.320, euro 18

La creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario ha suscitato molte preoccupazioni e lo stesso Capo dello Stato non ha mancato di sottolineare in una comunicazione ai presidenti delle Camere la sua inquietudine. Si teme che la maggioranza di governo voglia scardinare l’attuale sistema creditizio mettendolo sotto accusa e inseguendo così, ancora una volta, una facile popolarità. Perchè le banche in Italia non sono mai state popolari (anche quando si chiamano così). Uno degli obiettivi del populismo infatti – sempre e ovunque – è stato quello di “riformare” le banche rendendo più facile l’accesso al credito. Piace a tutti prendere i soldi a prestito, piace meno restituirli alla scadenza, non piace affatto che si debbano pagare gli interessi. In materia regna una grande confusione alimentata anche dalla diffusa ignoranza sul funzionamento di un’economia moderna, complice pure la scuola che non ne prevede l’insegnamento almeno dei principi basilari.
Dietro tanta ostilità si scorge la convinzione che le banche dovrebbero essere pubbliche o che comunque le loro eventuali perdite debbano sempre essere garantite dallo Stato inteso come pagatore di ultima istanza di tutti i debitori “che non ce la fanno”. Ma le cose non stanno così ed è bene che non stiano così; e quando stavano più o meno così – negli anni della prima repubblica – è anche per questo che abbiamo accumulato quel gigantesco debito pubblico che da allora ci portiamo appresso.

Perché autonome
Il sistema creditizio è oggi articolato in molti istituti privati in competizione tra loro; chi porta i soldi in banca può scegliere quella che offre maggiori vantaggi, chi chiede un mutuo o un prestito cerca l’istituto di credito che offre le migliori condizioni. Dalla concorrenza, come sempre, l’utente ha tutto da guadagnare. Naturalmente le banche corrono dei rischi dai quali cercano di proteggersi (talvolta esageratamente) che si accentuano quando le crisi economiche colpiscono l’occupazione e quindi i redditi. Per questo la legge impone alle banche di mantenere un patrimonio sufficiente a far fronte a qualsiasi difficoltà e attribuisce alla Banca d’Italia il compito di vigilare in proposito.
Per evitare che la politica inquini il sistema creditizio (come è largamente avvenuto durante la prima repubblica) favorendo operazioni in perdita per motivi di consenso elettorale la Banca d’Italia deve mantenere la propria autonomia.

Perché europee
Oggi le banche operano indifferentemente in tutti i paesi europei che hanno adottato l’euro; banche francesi e tedesche sono largamente presenti in Italia, banche italiane sono protagoniste in alcuni paesi dell’est, ecc. L’unità monetaria ha spostato alcune funzioni di controllo dalle banche centrali dei singoli paesi alla Banca centrale europea che ha sede a Francoforte; ma ancora non è stato possibile unificare anche le diverse normative in maniera da rendere l’eurozona realmente omogenea (Unione bancaria). Quando ciò avverrà avremo finalmente un sistema creditizio europeo competitivo e aperto.

Perché falliscono
Con l’adozione del cosiddetto “bail in” le banche non possono più contare automaticamente nel sostegno dello Stato quando non sono in grado di onorare i loro impegni. E in proposito occorre fare alcune distinzioni non sempre chiare al grande pubblico. Gli azionisti (proprietari) delle banche non dovrebbero mai essere esentati dalle loro responsabilità: sono stati loro a nominare gli amministratori che non hanno saputo gestire l’istituto ed essendo sempre loro a incassare i profitti quando ci sono, è giusto che paghino quando perdono; si chiama infatti capitale di rischio. Diversa la posizione di chi è stato indotto ad acquistare titoli di credito della banca in cambio di finanziamenti; se l’illecito è dimostrato i dirigenti della banca dovrebbero andare in galera e i truffati risarciti (se necessario anche dallo Stato che però dovrebbe rivalersi sul patrimonio delle banche in questione). Infine ci sono i correntisti, considerati sempre vittime innocenti ma qualche volta invece “furbetti” che hanno speculato su improbabili tassi di interesse e, quando è andata male, piangono all’ombra di alcuni ingenui che sono stati davvero raggirati. In tal caso lo Stato (e lo stesso sistema bancario attraverso strumenti di solidarietà) deve garantire i conti correnti di modesta entità. Ma una cosa è certa: l’opinione pubblica non è stata sufficientemente informata che anche le banche possono fallire e che “mettere i soldi in banca” non è più sinonimo di sicurezza. Anche le banche, come ogni altro servizio privato, vanno scelte con attenzione.

In conclusione: Mattarella ha ragione a preoccuparsi. In un momento di crisi come quello che nuovamente stiamo attraversando mettere sotto accusa le banche e cercare nella Banca d’Italia un capro espiatorio per ridurne l’autonomia significa allarmare ulteriormente i mercati, allontanare gli investimenti, rendere problematici i finanziamenti. E’ impossibile che gli uomini di governo, per sprovveduti che siano, non ne siano consapevoli; ma cosa non si farebbe per qualche voto in più!!!

Franco Chiarenza
16 aprile 2019

Torna il tormentone dello “jus soli” dopo che a un ragazzino straniero che è riuscito a chiamare i carabinieri dal suo cellulare durante un sequestro tanto spettacolare quanto assurdo di un bus scolastico è stato deciso di conferire la cittadinanza italiana come se fosse un premio. Ma la cittadinanza è altra cosa ed è davvero incredibile continuare a sbandierarla come una elargizione da concedere come compensazione di (vere o presunte) emarginazioni. Ho letto in proposito affermazioni incredibili come quella dei comitati renziani (“Ritorno al futuro”) per i quali “riconoscere la cittadinanza ai tanti compagni di classe e di gioco dei nostri figli” sarebbe un dovere morale osteggiato in maniera incomprensibile perchè ingiustamente associato al fenomeno migratorio. Ma davvero?
Per fare chiarezza sarà meglio tenere conto di alcune realtà di fatto:

  1. la nazionalità (o cittadinanza che dir si voglia) è di norma una condizione “naturale” automaticamente riconosciuta soltanto ai figli di genitori italiani, o anche di uno solo di essi che lo richieda col consenso del coniuge. Anche nei paesi in cui vige lo jus soli si tratta di una facoltà (e quindi non di un automatismo) che di solito si esercita al compimento della maggiore età.
  2. al di fuori di questa condizione di nascita la nazionalità dovrebbe sempre essere attribuita soltanto quando chi la richiede sia in grado di ottemperare ad alcune condizioni da accertare preventivamente: conoscenza della lingua, della storia e delle tradizioni del Paese; adesione ai principi contenuti nella Costituzione; rinuncia alla nazionalità di nascita. Tutte condizioni che presuppongono la maggiore età dell’interessato.
  3. purtroppo non è vero che la battaglia ideologica che si è scatenata su una questione tutto sommato marginale (perchè più simbolica che portatrice di sostanziali differenze nelle condizioni sociali e nei diritti individuali) prescinda dall’immigrazione. In realtà nessuno dei proponenti di un malinteso jus soli ha pensato alle migliaia di ragazzi europei e americani (ma anche asiatici) che studiano nelle nostre scuole; la presunta “ingiustizia esclusione” in realtà, nell’immaginario politically correct, sembra riguardare essenzialmente i poveri piccoli neri. I quali spesso discriminati lo sono davvero ma non perchè non hanno la cittadinanza italiana ma perchè appunto sono neri e magari musulmani; come dimostra il recente caso avvenuto a Roma dove gli abitanti di un palazzo hanno impedito l’accesso a un appartamento regolarmente assegnato a una coppia di neri musulmani cittadini italiani. Ma davvero qualcuno pensa di combattere il razzismo sventolando un passaporto italiano?
  4. estendere la nazionalità a soggetti che non hanno ancora la capacità di giudizio per richiederla consapevolmente costituisce una violenza (come d’altronde certi sacramenti religiosi somministrati ai bambini; ma per essi vale l’attenuante di una tradizione consolidata). Cosa succederà se a 18 anni il ragazzo italianizzato preferisce ritornare alla sua nazionalità originaria? Negli Stati Uniti e in Inghilterra il “ritorno alle origini” è abbastanza frequente.
  5. non è vero che un ragazzo non italiano che studia da noi e i cui genitori sono regolarmente residenti nel nostro Paese (come prevede la proposta di legge ipocritamente chiamata “jus culturae”) abbia diritti e possibilità diverse da chi è figlio di cittadini italiani. E in quei rari casi (se ce ne fossero) sarebbe giusto intervenire per parificare le condizioni di tutti i residenti che – si presume – sono anche contribuenti.
  6. fanno ridere Di Maio e Salvini (che si è unito al coro dopo qualche iniziale perplessità) che associano la cittadinanza ai “valori” del nostro Paese, intendendo per tali – immagino- quelli contenuti nella Costituzione; che faremo con le migliaia di italiani che non li rispettano, gli togliamo la nazionalità? Quasi quasi avrei già pronta una lunga lista.
  7. infine: ma con tutti i problemi che abbiamo non sarebbe meglio pensare a cose più serie, tenuto anche conto che per come la proposta di legge era stata modificata, la sua concreta applicazione avrebbe riguardato un numero trascurabile di adolescenti?

Un’ultima considerazione: la concessione della cittadinanza a Rami e Adam come ricompensa per il loro coraggio (ma non chiamiamoli eroi, per favore; sono eroi quelli che si sacrificano per gli altri senza vantaggi personali, loro hanno salvato gli altri per salvare sé stessi) pare non corrispondesse affatto a un loro desiderio. Sono stati convinti a prestarsi a un gioco politico più grande di loro, ma in realtà nella loro scuola stavano benissimo anche se non avevano il passaporto italiano.
A proposito di passaporto. Quando viaggeranno con i genitori (non italiani) avranno un passaporto diverso?

 

Franco Chiarenza
31 Marzo 2019