Gianmarco Pondrano d’Altavilla, storico e umanista, e Antonio Scala, fisico e ricercatore (ovviamente di formazione scientifica) si sono messi insieme (e già questa è una lodevole eccezione) per analizzare una interessante ricerca che quest’ultimo, insieme a Walter Quattrociocchi, ha condotto in ambito accademico con un campione molto esteso e articolato sugli effetti di polarizzazione indotti dall’uso dei social-network e sulle conseguenze che le cosiddette “echo chambers” – già descritte nel 2001 da Cass Sunstein – possono avere su un corretto funzionamento dei sistemi politici liberal-democratici.
Non riassumo in questa sede le interessanti considerazioni degli autori del saggio (che è stato integralmente pubblicato su Micromega) ma mi limito a suggerire qualche integrazione, ferma restando la mia condivisione con le conclusioni di Pondrano e Scala.

Io credo che vada fatta una netta distinzione tra la realtà presente e i “rimedi” futuri.
Il presente si evolve ormai in termini talmente veloci da avere scavalcato non soltanto i tradizionali passaggi generazionali ma limiti temporali fino a poco tempo fa considerati insuperabili; per tale ragione la dinamica dei cambiamenti sociali e politici influenzati dai nuovi mezzi di comunicazione non può essere affrontata allo stesso modo – soprattutto volendo suggerire qualche rimedio – nel breve e nel lungo periodo.
La “chiave” del futuro infatti, in una visione liberale dell’evoluzione sociale che faccia i conti con le trasformazioni globali del XXI secolo (che riguardano la comunicazione ma non soltanto) sta, a mio avviso, in una parola magica: educazione. Che ovviamente non va intesa nel senso di comportamenti corretti (come viene oggi quasi sempre utilizzata) ma nel suo senso originario e letterale di processi di conoscenza che consentano ad ogni essere umano di comprendere, almeno nei suoi fondamenti, il mondo che lo circonda. Parliamo dunque ovviamente di scuola, aggregazioni sociali spontanee, ricerca di regole etiche condivise fondate sul principio di responsabilità.
La scuola non può continuare a ignorare la nuova realtà di internet; ma non per aggiungere un insegnamento tecnico ai programmi già sovrabbondanti (le nuove generazioni arrivano all’età scolare già conoscendo quanto meno le modalità di utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione) ma le regole etiche che devono accompagnarne l’impiego fondate sul principio di responsabilità. Responsabilità per ciò che si fa ma anche per ciò che si dice o si scrive. Ogni progetto formativo di qualsiasi genere e grado deve insegnare prima di ogni altra nozione quali sono i principi etici che regolano uno stato di diritto perchè su di essi si fonda la cittadinanza. Un concetto valido da almeno due secoli ma che oggi assume una pregnanza ancora maggiore se si vuole che internet cessi di essere – per le democrazie liberali – un problema e diventi invece un’opportunità. Da una corretta definizione della cittadinanza liberale scaturisce quasi naturalmente la capacità del confronto (la cui mancanza è giustamente rilevata nella ricerca citata), il principio socratico del dubbio e della contestabilità di ogni verità rivelata, fosse anche dalla scienza accademica, purchè lo si faccia adottando un metodo di confronto scientifico fondato su dati e fatti dimostrabili. Alla base del rifiuto pregiudiziale (e spesso infondato) che pervade talvolta (non sempre) l’infinito chiacchiericcio universale dei “social” c’è l’ignoranza e la paura generata dalla consapevolezza di non essere in grado di capire e interpretare le complesse realtà che avvolgono l’umanità in una nebbia di dubbi e di diffidenza per tutto ciò che appare come “istituzionale”. E’ una nuova versione del contadino di una volta, analfabeta e ignorante, che diffidava di ogni ragionamento che proveniva dalle “istituzioni” (padroni, preti, funzionari dello Stato) per il timore di esserne raggirato. E magari si fidava di più del consiglio della fattucchiera o dell’amico – spesso ignoranti come lui – ma sentiti come più vicini al proprio mondo di valori e certezze ereditati dalla tradizione. E come allora il primo rimedio fu la scuola elementare oggi bisogna ripensare l’intero processo formativo fondandolo non sui contenuti ma sui metodi di apprendimento.

Ma si tratta di tempi lunghi e alla fine di quel percorso noi contemporanei (io certamente) saremo morti – come diceva Keynes – o quanto meno avremo già subito gli effetti negativi delle polarizzazioni dogmatiche dilagate nelle contrapposizioni politiche, con buona pace di quella dialettica improntata all’ascolto e al confronto che non dovrebbero mai mancare in una società liberale.
Che fare dunque oggi? La mia risposta (del tutto compatibile con le conclusioni di Pondrano e Scala) è che occorre servirsi con maggiore convinzione di quegli stessi strumenti che oggi favoriscono la polarizzazione. Si dovrebbe disegnare una strategia liberale di contrattacco fondata su gruppi diversificati che operino sistematicamente in rete offrendo puntuali contestazioni alla cultura “fake” cercando di penetrare nelle “tribù” delle certezze pregiudiziali, seminando dubbi da opporre alle certezze (evitando le certezze contrapposte) nella speranza che dal ragionamento germogli la curiosità del confronto e con essa l’affermazione di un metodo dialettico che costituisce la principale eredità delle democrazie liberali del secolo scorso. Vedo con piacere che gli autori del saggio citano Stuart Mill che nel suo celebre saggio “On the liberty” fissò in modo inequivocabile la superiorità del metodo liberale nella politica, nella conoscenza, nei comportamenti quotidiani; alcuni amici che si definiscono liberali affermano che Stuart Mill fu più socialista che liberale per avere egli compreso che la riduzione delle diseguaglianze rappresentava (e costituisce tuttora) una condizione di sopravvivenza per gli stati liberali. Ma se per tale convinzione Stuart Mill va considerato un socialista dichiaro di esserlo anch’io.

Sarebbe utile tuttavia anche mettere mano ai meccanismi procedurali della democrazia parlamentare. Non si può non prendere atto che la disintermediazione politica è irreversibile e che – come appunto dimostra la ricerca diretta da Quattrociocchi – la nascita delle aggregazioni sulla rete interattiva non sostituisce la dialettica “ideologica” dei vecchi partiti ma favorisce invece una contrapposizione tra gruppi monolitici e settari, infrangibile al dialogo e al confronto. In tale contesto le procedure parlamentari tradizionali restano inevitabilmente travolte dalla prevalenza di sentimenti irrazionali ed emotivi che generano tifoserie insensate alimentate da verifiche di popolarità registrate puntualmente giorno per giorno, come dimostra anche l’esperienza recente che stiamo vivendo in Italia. E ogni volta che si propongono soluzioni che almeno in parte potrebbero rilegittimare la funzione fondamentale della rappresentanza si contesta che il problema non si risolve con l”ingegneria istituzionale”. Eppure tante degenerazioni nascono anche dalle forzature istituzionali che – soprattutto nella elaborazione delle leggi elettorali – hanno caratterizzato l’azione di forze politiche poco lungimiranti, di destra e di sinistra. Invece io credo che qualcosa si possa fare.
Parlarne diffusamente significherebbe andare fuori tema; un vizio che mio vecchio professore di italiano nelle medie mi rimproverava sempre. Ma in conclusione mi permetto di suggerire uno studio sulle conseguenze che potrebbero avere varie forme di democrazia deliberativa (ampiamente trattate dalla pubblicistica soprattutto americana) in un contesto che vede la prevalenza di internet su ogni altro strumento di formazione dell’opinione pubblica. Senza cadere nelle utopie della “democrazia diretta” alcuni correttivi al principio del mandato irrevocabile potrebbero probabilmente essere adottati – soprattutto nell’ambito di un sistema elettorale uninominale – senza travolgere i fondamenti della costruzione della democrazia rappresentativa. Forse sarebbe il caso di parlarne evitando arroccamenti tanto insensati quanto quelli di chi si propone di ridurre il parlamento a “un’aula sorda e grigia” chiamata soltanto a ratificare le decisioni dei partiti di governo. Dejà vu.

 

Franco Chiarenza
10 Gennaio 2019

La legge Salvini sulla sicurezza è discutibile e si presta a molte critiche. Ma in uno stato di diritto non si consente a nessuno di disobbedire a una legge approvata da un parlamento regolarmente eletto e promulgata dal Capo dello Stato, il quale, se vi avesse ravvisato violazioni davvero fondamentali ai diritti costituzionali avrebbe potuto rinviarla alle Camere con le proprie osservazioni. In ogni caso nel nostro ordinamento della sua costituzionalità non decidono i sindaci di Napoli e di Palermo ma la Corte Costituzionale alla quale giustamente si è appellata la Regione Toscana.
Il rifiuto di applicare la legge da parte di un pubblico ufficiale (come sono i sindaci) configura la possibilità di una loro rimozione da parte del consiglio dei ministri. Naturalmente il governo si guarderà bene dal farlo ben comprendendo che si tratta soltanto di un gesto politico spettacolare utile alla popolarità di due sindaci che storicamente non provengono dalle file del partito democratico, anche se le loro amministrazioni ne sono appoggiate, a conferma del fatto che stiamo già entrando in campagna elettorale.

Detto questo va fatta una riflessione sui contenuti della legge. Pur sbagliata negli strumenti che mette in atto essa risponde a una lamentela che ho visto molto diffusa riguardo la situazione precedente; quella che riguarda l’utilizzazione di strutture sociali da parte di immigrati a scapito di cittadini italiani. E’ arduo spiegare a una madre che non trova posto per il proprio figlio negli asili comunali che in base alla normativa vigente può passargli davanti il figlio di un immigrato, magari in base a requisiti che spesso non corrispondono alla realtà (per esempio i redditi provenienti da lavoro nero). Non voglio dire che questo giustifichi il modo rozzo con cui l’attuale maggioranza – in questo come in altri casi – tenta di risolvere il problema; penso però che la sinistra, alla ricerca di un’identità che dovrebbe cercare altrove, sottovaluti l’importanza che assumono certe questioni che incidono sulla vita quotidiana delle parti più deboli della società, quelle appunto che la sinistra dice di volere rappresentare.

 

Franco Chiarenza
7 gennaio 2019.

La retorica del “cambiamento” ha accompagnato il governo Conte sin dalla sua nascita. In questo omogenei, sia Di Maio che Salvini hanno continuamente ripetuto come un “mantra” ossessivo lo slogan della diversità rispetto ai governi precedenti – di centro-sinistra ma anche di centro-destra – ritenendo in questo modo di mantenere un consenso elettorale costruito più su una sommatoria di proteste (spesso tra loro contraddittorie) che non su un credibile progetto alternativo. C’è dunque stato questo cambiamento? E se c’è stato rispetto a che cosa? Ora che la manovra economica è stata finalmente approvata è possibile abbozzare una prima risposta. Anche se bisognerà attendere le leggi attuative per completare il ragionamento.

Rispetto alle istituzioni
Per quanto riguarda la prassi e i riti istituzionali un cambiamento c’è stato sin dagli esordi. Le consultazioni al Quirinale sono avvenute in modo inconsueto e hanno sfiorato pericolosamente la rottura col Capo dello Stato (del quale il leader del partito di maggioranza è arrivato a minacciare l’impeachment). La formazione del governo è stata caratterizzata da una continua alternanza di dichiarazioni ostili seguite da rassicurazioni, quasi che la politica fosse un gioco dove le parole non vanno prese troppo sul serio, come si faceva una volta nelle partite di pallone tra ragazzi e si fa oggi in molti social-network. L’accordo di governo, pomposamente e erroneamente definito “contratto” (che ha un diverso significato civilistico), ha richiesto una lunga trattativa, in parte svolta a Milano sotto l’attenta vigilanza del clan Casaleggio il cui ruolo effettivo nelle scelte del movimento resta ambiguo e molto opaco.
I rapporti tra governo e parlamento sono stati improntati a una completa subordinazione di quest’ultimo agli accordi (spesso poco trasparenti) tra Di Maio e Salvini. In questo caso però un vero cambiamento sostanziale non c’è stato: si faceva così anche nella prima repubblica quando le intese tra i partiti forzavano la volontà dei parlamentari. Ma almeno allora si salvavano le forme mentre oggi non se ne fa mistero e all’intenzione dei Cinque Stelle di aprire il parlamento “come una scatola di sardine” per garantirne la trasparenza e il controllo popolare sembra essere subentrata una realtà molto diversa somigliante all’ ”aula sorda e grigia” che Mussolini nel 1922 minacciava di trasformare in un bivacco di manipoli fascisti. Il colmo è stato raggiunto con l’approvazione della legge di bilancio – la cosiddetta “manovra” – che dopo essere stata votata dalla Camera è stata frettolosamente sostituita da una nuova versione concordata con la Commissione dell’Unione Europea per evitare l’avvio di una procedura d’infrazione e presentata al parlamento come un pacchetto non modificabile sostenuto da un voto di fiducia che impediva a deputati e senatori di svolgere quel lavoro di verifica e di bilanciamento degli interessi che ha sempre costituito un momento decisivo del controllo parlamentare sul governo.
Va anche rilevata la tendenza di alcuni ministri, in particolare Matteo Salvini, a comportarsi in ogni occasione come uomini di parte, esibendo spesso una volgarità anche verbale che forse sarà utile a raccogliere un po’ di consenso sui socialnetwork più cafoneschi ma certo non contribuiscono a dare del nostro paese un’immagine di serietà, almeno istituzionale. Anche Di Maio e i suoi amici rischiano di sfiorare il ridicolo quando si esibiscono in comportamenti da “curva sud”, come i brindisi dal balcone di palazzo Chigi o le rumorose pagliacciate con le quali trasformano il parlamento in un palcoscenico di avanspettacolo di provincia.
Infine: l’esperienza insegna che comizi elettorali e azione di governo sono cose diverse ed è opportuno che così sia. Qualsiasi governo, una volta costituito, riveste una funzione istituzionale che impone rispetto anche nei confronti di chi non lo ha votato perchè rappresenta la nazione intera; conseguentemente l’attuazione del programma politico in base al quale è stato nominato deve seguire procedure più attente e prudenti delle intenzioni proclamate in campagna elettorale, le parole devono essere pesate. In caso contrario si producono effetti che vanno ben oltre i sondaggi di popolarità ormai settimanali che sembrano ispirare ogni atto dell’attuale governo; i mercati finanziari internazionali, per esempio, si innervosiscono e finiscono per indicare livelli di rischio crescenti (il famoso spread) che un paese indebitato come il nostro non può permettersi. Nell’orgia di dichiarazioni incoerenti che hanno accompagnato i primi mesi del nuovo governo è dovuto intervenire lo stesso presidente della BCE per ammonire che le parole, quando sono pronunciate da persone che hanno rilevanza istituzionale, sono come pietre e vanno attentamente pesate; perchè se poi le pietre tornano indietro come boomerang non ci dobbiamo stupire.

Rispetto all’attività legislativa
I provvedimenti fondamentali che dovrebbero certificare il “cambiamento” sono sostanzialmente tre: il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, la riforma pensionistica “quota 100” e la sicurezza (variamente declinata nel contrasto all’immigrazione, la legittima difesa, il sostegno alle forze dell’ordine).

Il “reddito di cittadinanza” è sicuramente una misura di cui non si può sottovalutare l’importanza; se riuscisse davvero ad attenuare il disagio di quelle fasce sociali che consideriamo “povere” e contestualmente promuovesse l’accesso al lavoro e, attraverso l’aumento dei consumi, favorisse la produzione, come sostengono i seguaci di Grillo, si tratterebbe di una rivoluzione di non poco conto. Ma è così? Molti ne dubitano, a mio avviso con fondate ragioni di merito, di metodo e di compatibilità finanziaria che ho già espresso e che comunque mi riservo di approfondire quando la legge attuativa sarà nota e si conosceranno i dettagli. Solo allora si capirà se il reddito di cittadinanza potrà essere davvero considerato un cambiamento radicale o non piuttosto un allargamento e un perfezionamento del “reddito di inclusione” varato dal governo Gentiloni che già si muoveva nella direzione di un sostegno alle fasce più disagiate danneggiate dai processi di trasformazione delle attività produttive. Il fatto è che, soprattutto al sud, il reddito di cittadinanza è stato percepito come un’erogazione indifferenziata e i Cinque Stelle rischiano che i paletti che inevitabilmente la legge conterrà possano deludere molte aspettative con significative riduzioni del consenso elettorale. In ogni caso appare già chiaro che il provvedimento esce ridimensionato rispetto alle intenzioni iniziali: la dotazione è stata ridotta, i centri per l’impiego richiedono una ristrutturazione che richiederà tempi e risorse maggiori del previsto, la platea degli aventi diritto risulterà probabilmente sforbiciata da condizioni più rigide, la decorrenza è fissata al primo aprile (giusto in tempo per essere esibito in campagna elettorale come una grande vittoria del “popolo” pentastellato).
Tutto da vedere: per ora il “reddito di cittadinanza” è soltanto una indicazione della legge di bilancio supportata da una dotazione cospicua ma non tale da coprire le attese, anche se spalmata in otto mesi (anziché dodici).

La riforma delle pensioni dovrebbe consentire di raggiungere la famosa “quota 100” (sommando l’età con gli anni di lavoro). Ma anche in questo caso per arginarne gli effetti deleteri sul bilancio (soprattutto per gli anni a venire) si stanno studiando disincentivi di varia natura (tra cui essenziale quello della diminuzione degli importi), lo spostamento ad aprile del suo avvio, la durata ricondotta a un triennio (dopo di che? Si ritorna alla Fornero?). La misura è accompagnata da un taglio alle cosiddette “pensioni d’oro” che non serve a trovare le risorse necessarie alla riforma (che copre solo in minima parte) ma a soddisfare il rancore vendicativo contro la “casta” dei privilegiati che costituisce una componente importante del consenso elettorale (purtroppo facendo finire sotto tiro anche tanti che hanno onorevolmente servito lo Stato in posizioni di responsabilità). Travestito da “contributo di solidarietà” e limitato a un triennio il taglio alle pensioni di maggiore importo dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, superare l’inevitabile vaglio della Corte Costituzionale la quale già in passato (in occasione di una “limatura” delle pensioni operata dal governo Renzi) si era espressa in proposito ammettendo la possibilità di violare il principio dei diritti acquisiti in casi di comprovata necessità e solo transitoriamente. Anche in questo caso i dettagli fanno la differenza e bisognerà vedere come in concreto il provvedimento sarà attuato.

Per quanto riguarda la sicurezza, trattandosi di leggi a costo zero (o comunque limitato) Salvini è riuscito facilmente a fare passare provvedimenti contro l’immigrazione irregolare. Qui il cambiamento c’è stato ma non per merito del movimento Cinque Stelle all’interno del quale anzi l’anima terzomondista non manca di manifestare un certo disagio. In cambio l’immagine internazionale dell’Italia è passata da un eccesso di “buonismo” (arginato soltanto dalle misure prese e progettate dal ministro Minniti) a una fama (altrettanto eccessiva) di insensibilità per le sofferenze umane di gente che fugge da guerre, fame e condizioni di miseria; il che ha consentito agli altri paesi europei che ipocritamente fingevano di volerci aiutare di chiudere la partita indignandosi nei nostri confronti. La chiusura dei porti alle navi delle ONG che fungevano da traghetti tra la Libia e l’Italia è stata una misura ritenuta necessaria anche da una parte dell’elettorato che non ha votato per l’attuale maggioranza, ma andava accompagnata da una chiara strategia di regolamentazione dell’immigrazione che, superando definitivamente i vincoli assurdi della legge Fini-Bossi, affrontasse in modo organico e senza pasticci demagogici (come quelli in cui si è esibita la sinistra nella vicenda della nazionalità automatica ai figli degli immigrati) un problema di fondamentale importanza per il futuro del Paese. La mia posizione in proposito è nota ai miei pochi e pazienti lettori ma, alla luce di quanto sta avvenendo, dovremo riparlarne.

Sul “decreto dignità”, frettolosamente varato da Di Maio in luglio con l’intento di guadagnare il consenso dei tanti precari che lavorano talvolta in condizioni indegne, è calato un imbarazzato silenzio dopo la bocciatura arrivata da imprenditori e sindacati. Si vedrà nei prossimi mesi se gli effetti saranno quelli auspicati dal movimento di Di Maio o invece un aumento della disoccupazione e del lavoro nero, come sostengono i suoi oppositori.
Ma l’aspetto più grave del provvedimento è costituito dall’inserimento precipitoso nella legge di una drastica normativa che elimina di fatto la prescrizione nei giudizi penali senza tenere conto della complessità del problema. Che la prescrizione andasse modificata (e in parte già lo avevano fatto i governi precedenti) è opinione largamente condivisa, anche sulla scia dell’indignazione mediatica che ha accompagnato alcune scandalose assoluzioni di Berlusconi (a cui va ricondotta la fretta dei Cinque Stelle di esibire il provvedimento come un’immediata soddisfazione per l’opinione pubblica), ma si tratta di un cambiamento da inquadrare in una più ampia riforma della giustizia anche per evitare alcune possibili ricadute negative sullo stato di diritto (e in particolare sulla certezza dei tempi dei processi). Ma, ancora una volta, ciò che contava di più era sventolare la bandiera del cambiamento anche se tutti sanno che su questo provvedimento (come su altri) le correzioni saranno inevitabili, come a gran voce chiede la stessa magistratura.

Un’altra bandiera dei “Cinque Stelle” era l’avversione alle cosiddette “grandi opere” e alle imprese inquinanti. In questo campo la ritirata è stata clamorosa: sull’Ilva di Taranto si è dovuto chiudere la partita con un accordo quasi identico a quello che già il precedente ministro Calenda aveva siglato con l’acquirente Arcelor Mittal, sul terzo valico tra Genova e il Piemonte si è dovuto ammettere che è vitale per il futuro del porto di Genova, il terminale dell’oleodotto TAP in Puglia è stato improvvisamente autorizzato smentendo le promesse fatte in campagna elettorale (impedirne la realizzazione avrebbe comportato penalità eccessive: ma non era prevedibile?).
Resta la TAV in val di Susa, diventata ormai una logora bandiera ideologica che nulla ha a che fare con una seria valutazione dell’opera, ma che per l’ala “movimentista” dei Cinque Stelle rappresenta l’ultima trincea della sua avversione alle grandi opere “inutili”. E’ già chiaro tuttavia come andrà a finire (anche per la pressione della Lega): si scoprirà una cosa che sanno tutti, che non farla costa troppo, e con questa scusa dopo le elezioni europee si procederà come per il TAP pugliese.

Sul condono fiscale, benevolmente ribattezzato “pace fiscale”, e sugli aerei militari F35 (entrambe questioni su cui i Cinque Stelle avevano dichiarato la loro opposizione) la resa di Di Maio è stata totale; nel primo caso a Salvini, nel secondo al governo americano che già in occasione dell’incontro di Conte con Trump aveva espresso le sue “preoccupazioni”.

Rispetto alla politica estera
Anche nelle relazioni internazionali si è assistito ad alcuni sbandamenti, ma dobbiamo al ministro Moavero, il quale si è mosso in piena sintonia col presidente della Repubblica e con lo stesso presidente del Consiglio Conte, se a certe incaute dichiarazioni dei due vice-premier non sono seguiti fatti che avrebbero costituito una rottura della tradizionale politica estera dell’Italia. Da settant’anni in Italia cambiano i governi e le maggioranze ma il contesto internazionale in cui la nostra politica estera è incardinata resta caratterizzato dalla partecipazione all’Alleanza Atlantica e dalla presenza attiva nell’Unione Europea. I maldestri tentativi (soprattutto da parte di Salvini) di rimetterne in discussione gli equilibri fantasticando improbabili assi preferenziali con la Russia di Putin o con i paesi meno “europeisti” del cosiddetto gruppo di Visegrad sono stati accantonati. Mi pare quindi che i cambiamenti ipotizzati dalla nuova maggioranza contro “l’Europa dei burocrati” e il militarismo americano che dovevano portare a una rinegoziazione del trattato di Maastricht e a una revoca unilaterale delle sanzioni alla Russia, siano stati quanto meno rinviati a data da destinarsi.

Rispetto alle forze produttive
Il cambiamento promesso alle forze produttive (soprattutto dalla Lega) al di là dei provvedimenti marginali contenuti nella manovra in linea di sostanziale continuità con quanto già fatto dai governi di Renzi e Gentiloni, consisteva essenzialmente nell’introduzione della “flat tax”. Si può discutere della effettiva validità della sua adozione, della sua costituzionalità, della sua opportunità, ma non vi è dubbio che si trattasse di un cambiamento fiscale rilevante indirizzato a incoraggiare gli investimenti e quindi l’occupazione. La proposta era molto popolare negli ambienti delle piccole e medie imprese anche per le semplificazioni burocratiche che avrebbe consentito, ma si è subito visto che, al di là dei suoi contenuti, essa comportava un onere non compatibile con il contemporaneo avvio del “reddito di cittadinanza” e della riforma pensionistica. Messo di fronte alla scelta tra un favore ai pensionati e un vantaggio per gli imprenditori Salvini non ha avuto dubbi: ha privilegiato il consenso immediatamente monetizzabile in termini di consenso elettorale, cioè le pensioni anticipate. Una scelta che, anche se edulcorata da alcune facilitazioni alle partite IVA di minore importo e da incentivi per nuove assunzioni derivate dai pensionamenti anticipati, mette chiaramente in evidenza la pericolosità di una riforma che per venire incontro a un numero di pensionati che forse sarà più basso del previsto, incrementerà probabilmente l’economia sommersa e danneggerà le imprese. Le quali infatti hanno immediatamente fatto sentire il loro malumore in termini talmente espliciti da suonare per la Lega come un vero e proprio campanello d’allarme.

In conclusione
Il governo del “cambiamento” finora di reali inversioni rispetto ai predecessori ne ha fatte poche, più formali che sostanziali, e quelle poche accompagnate da dubbi e perplessità che non provengono solo dall’Europa e dai mercati ma anche dalle forze produttive del nostro Paese e da segmenti significativi della stessa maggioranza. Ma intanto la politica delle dichiarazioni contraddittorie e roboanti (a imitazione dei tweet di Trump) ha prodotto danni non ancora quantificabili che – secondo alcuni analisti – hanno riguardato soprattutto l’emigrazione di capitali costituiti dal risparmio privato degli italiani.
Mai come adesso vale il proverbio che “il silenzio è d’oro”.

 

Franco Chiarenza
4 gennaio 2019