La questione di Gerusalemme ha sempre rappresentato – più ancora di quella del rientro dei profughi – l’impedimento maggiore a un accordo tra israeliani e palestinesi per mettere fine a un conflitto che si protrae ormai da settant’anni. Problema difficile da risolvere perché in esso, avvolti in una miscela inestricabile, si riproducono questioni religiose e di identità nazionale che vengono da lontano, da una storia millenaria che ha fatto della “città santa” il simbolo irrinunciabile di religioni che, pur avendo una comune origine, si sono combattute fino allo sterminio.
Quando l’ONU nel 1948 riconobbe, in base a un piano di spartizione elaborato l’anno precedente, l’esistenza dello Stato d’Israele, la risoluzione prevedeva per Gerusalemme uno statuto speciale garantito dalle stesse Nazioni Unite che tenesse conto dell’importanza fondamentale che la città aveva per le diverse tradizioni religiose, in modo che ebrei, cristiani e musulmani potessero convivervi senza sentirsi stranieri.
Dopo la guerra che seguì la mancata accettazione della risoluzione da parte dei paesi arabi Gerusalemme restò, al termine del conflitto, divisa a metà tra Israele e la Giordania; la situazione si aggravò nel 1967 quando nella seconda guerra tra arabi e israeliani i giordani furono sconfitti e l’intera città cadde nel regime di occupazione israeliano. Nel 1980 Gerusalemme fu proclamata da Israele capitale dello Stato, ma quasi tutti i paesi (compresi quelli occidentali più vicini alle ragioni di Israele) non riconobbero tale dichiarazione unilaterale per il suo evidente carattere destabilizzante in vista delle trattative che avrebbero dovuto suggellare la pace, e pertanto mantennero le loro ambasciate a Tel Aviv che aveva egregiamente svolto le funzioni di capitale fino a quel momento. Nel frattempo tuttavia Israele, proseguendo nella politica dei fatti compiuti, come nel caso degli insediamenti illegali nei territori occupati, costruiva a Gerusalemme nuovi quartieri interamente abitati da ebrei modificando strutturalmente la composizione etnica della città. Ciò nonostante gli occidentali – Stati Uniti in testa – avevano sempre mantenuto fino ad oggi una posizione molto netta perché lo status definitivo di Gerusalemme facesse parte integrante degli accordi di pace, anche se gli opposti estremismi delle parti in conflitto li rendevano sempre più lontani. In tale delicato contesto la decisione di Trump di infrangere questo precario equilibrio assomiglia all’irruzione di un elefante in un negozio di cristalleria e non poteva che suscitare le reazioni che conosciamo e che sembrano isolare, una volta di più, l’America di Trump dagli altri paesi non soltanto arabi, ma anche da quelli ad essa alleati.

Ma c’è un’altra tesi che prende le mosse dal fatto che la dichiarazione di Trump non accenna a una modifica dei confini e non esclude una soluzione del problema palestinese basata sul principio dei “due stati”. Secondo i suoi sostenitori Trump avrebbe semplicemente “rovesciato il tavolo” per uscire dalle sabbie mobili in cui si erano impantanate le trattative di pace; una manovra spericolata che potrebbe consentire agli Stati Uniti – una volta pagato il prezzo di Gerusalemme agli israeliani – di riprendere l’iniziativa per imporre il ritiro degli insediamenti ebraici illegali nei territori occupati e dar vita finalmente a uno stato indipendente palestinese. Ma tanta astuzia diplomatica è difficilmente attribuibile a un personaggio come il presidente americano, molto più interessato a dimostrare al suo elettorato la coerenza delle sue azioni con le promesse preelettorali piuttosto che a valutare gli effetti internazionali del suo operato.
Oltretutto, giunta in un momento in cui la Russia si propone come il solo interlocutore valido per risolvere i problemi medio-orientali, la decisione di Trump mette in discussione equilibri che vanno ben oltre la questione di Gerusalemme, anche considerando i cambiamenti che si stanno producendo nei paesi arabi dopo la sconfitta dell’ISIS, a cominciare dal Kurdistan e dall’Arabia Saudita. Come sempre Trump sacrifica qualsiasi considerazione di ruolo internazionale alla preoccupazione di recuperare consenso all’interno del Paese e credo che anche questa improvvisa decisione unilaterale su Gerusalemme sia stata ispirata soprattutto all’esigenza di consolidare i rapporti con la potente comunità ebraica americana.

Da un punto di vista liberale – che è quello che a noi interessa – la questione di Gerusalemme, come quella palestinese in generale, al di là della simpatia per uno stato che rispetta le forme della democrazia e garantisce i diritti politici fondamentali al suo interno, non può trovare soluzione fondandosi sulle pretese del soggetto più forte e la negazione delle ragioni altrui. Gerusalemme è effettivamente una città simbolo non soltanto per gli ebrei ma anche per i cristiani e per i musulmani; oltre alle vestigia del tempio giudaico distrutto dai romani (il cosiddetto “muro del pianto”) vi si trovano il sepolcro di Gesù Cristo e le più antiche moschee musulmane. Essa è passata di mano innumerevoli volte dai romani ai bizantini, dai crociati agli arabi, fino alla lunga dominazione turca, ma in effetti bisogna risalire al primo secolo dell’era cristiana – prima della sua distruzione da parte dell’imperatore Tito – per considerarla capitale riconosciuta del popolo ebraico. Certamente essa è rimasta centrale nella tradizione giudaica ma anche in quella cristiana (basti pensare alle sette crociate per strapparla agli arabi) e in quella maomettana per essere stata per secoli considerata la terza città santa dell’Islam dalla quale Maometto ascese al Cielo.
La soluzione più equilibrata e rispettosa dei diritti umani sarebbe quindi quella già delineata dall’ONU nel 1948: uno statuto internazionale e interreligioso almeno per il centro storico e l’attribuzione di Gerusalemme Ovest allo Stato di Israele e di Gerusalemme Est allo stato palestinese. Creare un fatto compiuto fondato sulla prepotenza, come vorrebbero Trump e Netanyahu, non soltanto non risolve il problema ma complica la ricerca di una soluzione condivisa.

 

Franco Chiarenza
12 dicembre 2017

Alfredo Rocco, giurista fascista, nel presentare alla Camera nel 1932 il nuovo codice penale, ebbe a dire: “Noi abbiamo seppellito il liberalismo definitivamente. Esso è morto e non resusciterà né ora né mai.” Per fortuna mai previsione si dimostrò più sbagliata, ma ciò che non riuscirono a fare i fascisti stanno tentando di fare alcuni antifascisti militanti legittimati dalle provocazioni velleitarie di sparuti gruppi di teppisti che – non da oggi – hanno trovato nelle rivendicazioni di estrema destra (più ispirate al nazismo, per la verità, che non al fascismo) la maniera di scandalizzare la grande maggioranza degli italiani che – pur nelle sue diversità – si riconosce nei valori della democrazia e del pluralismo politico. La reazione però di certi antifascisti militanti rischia involontariamente di distruggere un caposaldo della cultura liberale e di favorire sostanzialmente proprio quel neo-fascismo che si vorrebbe contrastare. La tentazione ricorrente di proibire per legge le idee sbagliate e la loro libera manifestazione rappresenta infatti un grave attentato ai principi del liberalismo che fonda la sua superiorità proprio per non ricorrere a metodi totalitari (propri della cultura dei suoi avversari) per difendere se stesso. Salvo naturalmente il caso che la democrazia si trovi realmente in pericolo mortale, il che non mi pare corrisponda alla realtà attuale, almeno nel nostro Paese.
Oltretutto queste leggi e proibizioni pretese dai giacobini dell’anti-fascismo, oltre a cadere nell’inevitabile contraddizione di utilizzare metodi “fascisti” per chiudere la bocca ai fascisti, sono da sempre inutili, inapplicabili e controproducenti.

  • Inutili perché non servono a modificare uno stato di fatto se davvero avesse dimensioni tali da renderlo preoccupante, il che per fortuna non è.
  • Inapplicabili perché la distinzione tra “istigazione” “propaganda” “esibizione di simboli” ecc. è talmente difficile da definire che o si riduce a una reale limitazione della libertà di espressione tutelata dalla Costituzione oppure può produrre la cancellazione della memoria storica (monumenti, opere d’arte, espressioni letterarie: il futurismo, per esempio, e certo D’Annunzio vogliamo inserirli in un nuovo “Indice” democratico?). Si rischia il ridicolo ancor prima dell’inutilità, tenuto conto che viviamo oggi in un mondo che attraverso internet non conosce più frontiere, nel bene e nel male.
  • Ma soprattutto sono controproducenti perché dando visibilità mediatica alle spericolate provocazioni di pochi esaltati finisce per dilatarne l’importanza e apre la strada a un martirologio fascista in nome della libertà di espressione di cui non sentiamo alcuna necessità.

Altri sono i rimedi “liberali” a questa esplosione – limitata ma comunque inquietante – di rifiuto delle forme e della sostanza della liberal democrazia; partendo dalla constatazione che alla sua base c’è soprattutto molta ignoranza.
Vogliamo restituire all’educazione civica quel ruolo fondamentale che dovrebbe avere in una scuola democratica? Vogliamo – attraverso gli stessi strumenti che la comunicazione contemporanea ci mette a disposizione – diffondere i principi di libertà, di rispetto delle diversità, di cosa significa lo “stato di diritto” in cui diciamo di riconoscerci, di quali sono i fondamenti di un’economia moderna e in essi quali le possibili opzioni?
In tale contesto vanno anche richiamati i valori della Resistenza ma non per metterne in rilievo i momenti di divisione, quando ha assunto l’aspetto di una guerra civile il cui ricordo ancora segna la memoria di tante famiglie, ma quelli su cui la grande maggioranza degli italiani si è riconosciuta dopo la guerra per fondare quel patto di convivenza che – con tutti i suoi limiti – è comunque rappresentato dalla Costituzione.
Altrimenti si rischia di ritornare a stucchevoli e superate contrapposizioni in cui riemergerà inevitabilmente anche il ricordo dell’essenza totalitaria del comunismo e delle ambiguità di quanti ad esso si ispirarono, facendo così il gioco dei burattinai che stanno dietro i quattro scalzacani di “Casa Pound”, quello di riabilitare il fascismo come resistenza al comunismo.
Un sillogismo che va semplicemente respinto al mittente.

Franco Chiarenza
10 dicembre 2017

Al di là della comprensibile preoccupazione per i giochi missilistici del padre padrone della Corea del Nord condivisa da ogni persona ragionevole ho l’impressione che l’immagine prevalente in Occidente di un bambino incosciente che gioca con i fiammiferi e che basti un intervento un po’ rude del papà cinese per rimettere le cose a posto (che sembra anche la convinzione di Trump) sia poco convincente.

Alcune domande
Alcune domande si pongono ineluttabilmente: 1) come ha fatto un piccolo paese poverissimo alle prese pochi anni fa con carestie catastrofiche a cui hanno dovuto far fronte aiuti internazionali (anche occidentali) a mettere in piedi non la fabbricazione di una bomba atomica (ormai alla portata di qualunque paese che abbia voglia di investirvi le risorse necessarie) ma la costruzione e il lancio di missili balistici intercontinentali tecnologicamente avanzati e tali da minacciare addirittura lo stesso territorio nord-americano? 2) quali sono le reali finalità di questa ostentata provocazione? Affermare lo “status” di potenza nucleare? E a quale scopo? Difendersi da un’invasione americana è una risposta propagandistica che non ha alcun fondamento perché la sopravvivenza della Corea del nord dipende esclusivamente dalla garanzia cinese (così come quella della Corea del sud non potrebbe rinunciare alla protezione americana).
Cui prodest, a chi giova in realtà tutto questo?

Guardare lontano
La risposta a queste domande non è facile. In apparenza tutto sembra confermare che si tratti dei giochi pericolosi di un dittatore megalomane: la Cina, almeno a parole, prende le debite distanze e accetta le sanzioni decretate dall’ONU contro la Corea del nord, la Russia non sembra particolarmente interessata (almeno per ora), non si vede chi altro voglia aiutare un regime ormai contestato anche dai fratelli e cugini ancora formalmente comunisti, né si comprende quali reali vantaggi verrebbero a Kim Jong-un dal far parte del cosiddetto “club nucleare” (nel quale vi sono paesi come il Pakistan senza che ciò incida significativamente sul loro ruolo internazionale).
Proviamo però a guardare lontano cercando di indovinare le mosse della grande partita a scacchi che si gioca sul futuro in Estremo Oriente (e da lì nel mondo intero). L’obiettivo della Cina, una volta accettato il sistema capitalistico fino a farsene paladina contro il neo-protezionismo di Trump, come è avvenuto al recente vertice dei paesi del Pacifico a Da Nang, è quello di eliminare l’influenza americana e di assumere la leadership dell’intero scacchiere. Per far questo occorre indebolire il Giappone e minarne la stretta alleanza con gli Stati Uniti, impedire la riunificazione della Corea sul modello filo-americano di Seul, riannettersi Taiwan secondo le regole imposte a Hong Kong. A quel punto il gigante cinese potrebbe giocare la partita ad armi pari con i paesi del Sud Est asiatico (india, Pakistan, Indonesia) isolando sostanzialmente le nazioni eredi della tradizione britannica (Australia e Nuova Zelanda) difficilmente assimilabili ma ridotte in termini geo-politici all’impotenza.
La politica non si fa con la fantapolitica, potrebbe obiettare qualcuno. Anche perché se c’è davvero un burattinaio che tira i fili senza esporsi non può ignorare i rischi di una recita così provocatoria. Ma in realtà gli americani, al di là di un probabile riarmo del Giappone e della Corea del sud (su cui qualche apprensione sarebbe giustificata), poco possono fare: non certo una reazione nucleare sproporzionata e con pesanti coinvolgimenti della popolazione civile, e nemmeno un intervento militare di tipo tradizionale perché la Cina non potrebbe mai consentirlo. Dimostrare che gli Stati Uniti sono soltanto una “tigre di carta” (come già ebbe ad affermare Mao Ze Dong tanti anni fa) avrebbe un significato da non sottovalutare soprattutto in Oriente dove l’immagine conta talvolta più della sostanza. Le reazioni scomposte di Trump servono soltanto ad amplificarne il senso di impotenza (“se stanno mettendotelo nel didietro – recita un proverbio esplicito nella sua volgarità – meglio stare fermi; agitarsi non risolve il problema e aumenta il dolore”). Chiedere aiuto alla Cina, se è vera la mia ipotesi, è solo un’ingenuità. E’ certo invece che un indebolimento americano, anche soltanto di immagine, non può che giovare alla Cina. D’altronde la presidenza di Trump, confusa, velleitaria, ma orientata in maniera ormai evidente ad abbandonare le ragioni morali e di principio su cui gli Stati Uniti dopo la guerra avevano fondato la loro egemonia – culturale prima che politica, militare ed economica – sembra avere accettato una riduzione anche drastica del suo ruolo in Estremo Oriente, e ciò non può che avere incoraggiato il dittatore nord-coreano e i suoi eventuali occulti protettori.

Fantasie? Come diceva l’ineffabile Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.

Franco Chiarenza
30 novembre 2017

Finalmente Veltroni l’ha detto. La sinistra è in preda a convulsioni che non accennano a diminuire perché ci troviamo di fronte a una “resa dei conti”. Una resa dei conti che parte da lontano e parte proprio da lui – da Veltroni – quando il suo progetto di costruire un nuovo partito democratico che finalmente tagliasse i residui legami con l’eredità comunista e si proponesse come una grande forza in grado di raccogliere consensi anche in quel serbatoio dell’elettorato di centro che pure in Italia – come altrove – rappresenta sempre l’ago della bilancia elettorale, fu contestato e affondato dall’ala sinistra rappresentata da D’Alema e Bersani, preoccupati che i tempi necessariamente lunghi di una rivoluzione palingenetica come quella proposta da Veltroni comportasse una rinuncia alle proprie origini e probabilmente – almeno in tempi brevi – una sconfitta elettorale.
Il conflitto è continuato riproponendosi con Renzi che del progetto veltroniano aveva colto il punto essenziale, sia pure con modi e toni indisponenti che certo non appartenevano al vecchio leader. E ancora una volta la vecchia sirena del “far qualcosa di sinistra” (anche se sbagliata) ha ripreso a suonare appigliandosi alla scarsa disponibilità del giovane segretario al “dialogo”. Anche se bisogna ricordare che “non essere disponibili al dialogo (o al confronto)” nel linguaggio della sinistra italiana significa non accettare la resa incondizionata alle idee della minoranza, sia essa politica o sindacale. E in effetti Renzi, pur avendo recentemente cambiato forma nei modi (che spesso in politica diventano sostanza) non sembra disponibile a cedere sul merito delle scelte programmatiche su cui ha caratterizzato il proprio governo (e che rappresentano anche la continuità del governo Gentiloni). Qualche incidente di percorso c’è stato, per esempio nel modo perentorio e ostinato con cui Renzi ha cercato di imporre una soluzione discutibile a una questione delicata come lo jus soli, e la successiva aggressione alla Banca d’Italia al momento del rinnovo del governatore, casi entrambi che hanno creato imbarazzo e difficoltà a Gentiloni e su cui un atteggiamento più soft avrebbe probabilmente sortito effetti più soddisfacenti.

L’eredità di Veltroni
Veltroni ha quindi ragione ma anche torto. Ha ragione quando denuncia che si tratta essenzialmente di una resa dei conti, ma ha torto se ritiene che si tratti di una questione personale. Non lo è oggi e non lo è stato ieri. Ed è per questo che i tentativi dei “pontieri” variamente configurati (come Fassino e Pisapia) sono destinati probabilmente a naufragare; e se dovessero riuscire si fonderebbero su compromessi ingestibili che mostrerebbero la corda già poche ore dopo le elezioni. Ha quindi ragione Roberto Speranza, giovane leader degli oltranzisti di sinistra? Credo di sì.
Il progetto del PD renziano (che peraltro comprende un fronte che va ben oltre il segretario) consiste essenzialmente in un programma socialdemocratico (anche se il termine è impronunciabile nei salotti della sinistra) fondato su un rilancio della produttività come condizione per la ripresa dell’occupazione (anche a costo di qualche attenuazione dei diritti dei lavoratori) nella consapevolezza che il modello sociale del passato fondato su un lavoro stabile e permanente non rappresenta più un obiettivo conseguibile per le trasformazioni profonde che il sistema capitalistico ha avuto in tutto il mondo; trasformazioni ancora in corso e che faranno emergere nuovi problemi con i progressi dell’automazione. In un contesto siffatto le protezioni sociali dovranno essere rafforzate ma anche modificate per essere funzionali al cambiamento, l’intervento dello Stato dovrà essere concentrato sulla costruzione del futuro attraverso la formazione e la ricerca, le grandi infrastrutture, l’eliminazione delle corporazioni, tutto ciò che serve a rendere attrattivi gli investimenti perché solo così si creano nuove opportunità di lavoro qualificato per i nostri giovani. Una prospettiva che guarda lontano e nel cui contesto l’appartenenza all’Europa non soltanto non può essere messa in discussione ma anzi rappresenta un’opportunità da rafforzare anche per fare fronte ai grandi cambiamenti sociali che si prospettano a livello mondiale e che comporteranno certamente anche una forte conflittualità politica. In questo quadro la questione degli immigrati va affrontata senza cedere a paure irrazionali in una visione del problema che guardi al futuro non soltanto in Africa ma anche da noi dove la contrazione della natalità comincia a far sentire i suoi effetti che diventeranno travolgenti nei prossimi vent’anni.

Progetti incompatibili
Se davvero questo è in sostanza il progetto di Renzi si tratta di una prospettiva su cui anche chi proviene da matrici culturali liberali può trovare delle convergenze ma che poco ha a che fare con una sinistra che mette al centro dell’attenzione il disagio sociale (sicuramente esistente) pensando di risolverlo con un aumento della spesa pubblica senza considerare gli effetti dirompenti che tale politica avrebbe sul piano internazionale e nella percezione della solvibilità del sistema Paese; come se non avessimo già visto come è andata a finire in Grecia dove Tsipras, andato al potere sull’onda di una protesta populista e anti-europea, ha dovuto andare a Canossa per interrompere un processo di insolvenza già in corso ottenendo soltanto così, dopo due anni di sacrifici e con l’aiuto dell’Europa, una ripresa consistente dell’economia la cui crescita quest’anno supera di un punto quella tanto sbandierata del nostro Paese. Se la sinistra pensa in questo modo di recuperare almeno una parte dell’elettorato scivolato nel territorio grillino si illude. Il successo di Grillo è dovuto solo parzialmente alle condizioni economiche e sociali del Paese mentre trova il suo fondamento nell’inaffidabilità e nella perdita di credibilità della classe dirigente dei partiti tradizionali (di cui Bersani e D’Alema fanno parte) dimostrate dalla corruzione endemica, dalla incapacità progettuale, dall’arrogante mantenimento di privilegi inaccettabili, dalla mancanza di una cultura di governo fondata sulla manutenzione, cioè quegli aspetti che per molti possono sembrare politicamente insignificanti ma che invece indirizzano molta parte dell’opinione pubblica e che sono anche alla base di una astensione elettorale che ha ormai raggiunto le dimensioni di una protesta di massa.

Quale maggioranza per il futuro?
A questo punto ci si domanda: se – come è prevedibile – dalle elezioni non uscirà una chiara maggioranza di governo sarà possibile trovare a sinistra quell’accordo di programma che è stato inutilmente cercato prima? E sarà numericamente sufficiente?
E se una maggioranza di centro-sinistra (o di centro-destra) non sarà possibile quale sarà lo scenario prevedibile? Grillo cambierà atteggiamento, e in favore di chi? Oppure si profila un’intesa Renzi-Berlusconi in nome del superiore interesse del Paese, magari patrocinato dal Quirinale, come molti commentatori prevedono? In questo caso però ci sarebbe il rischio che buona parte dell’elettorato non capirebbe e forse sarebbe meglio andare a nuove elezioni, magari con un diverso sistema elettorale che garantisca la governabilità (per esempio l’uninominale senza ballottaggio).
Ma è presto per fare previsioni; la data delle elezioni non è stata ancora fissata e molte cose possono ancora succedere.

 

Franco Chiarenza
27 novembre 2017

Non sapendo come differenziarsi in maniera comprensibile e senza utilizzare quei linguaggi criptici e quelle affermazioni generiche che richiamano i riti partitocratici del passato, la sinistra alternativa per smentire la calunnia che la propria alterità consista soltanto in una avversione personale nei confronti di Renzi, ha riesumato il fatidico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato in maniera sostanziale dal cosiddetto Jobs Act varato dal governo nel 2015. Per tornare a discutere di un eventuale accordo elettorale la sua restaurazione nella forma originaria sembra essere per questi movimenti conditio sine qua non, venendo così incontro alla richieste della CGIL che prosegue senza esitazioni nella sua lotta contro ogni forma di flessibilità nel lavoro.

Un feticcio ormai superato?
Molti politici e qualche economista sostengono che quello dell’articolo 18 sia un problema ormai scarsamente rilevante e che hanno torto coloro che lo sventolano come una bandiera (ormai un po’ consunta) ma anche quanti hanno pensato che eliminando i licenziamenti senza giusta causa (ché di questo sostanzialmente si tratta) sarebbero tornati gli investimenti e con essi nuovi posti di lavoro. Ragionamento che di fatto suggerisce di essere condiscendenti su tale questione se questo è il prezzo da pagare per un’intesa tra le diverse componenti della sinistra.
Se con ciò si intende affermare che le cause della disoccupazione sono altre e riguardano questioni complesse a cui non si è mai seriamente messo mano (formazione non corrispondente alla domanda, sperequazioni regionali, scarsa attrattività per gli investimenti industriali, eccesso di controlli e ostacoli burocratici, difesa di interessi corporativi, ecc.) chi sostiene tale tesi ha perfettamente ragione. Ma davvero l’articolo 18 è un residuo ideologico del passato che si può trattare con indifferenza per la sua sostanziale irrilevanza?
In realtà, a quanto mi hanno spiegato diversi imprenditori, il problema non riguarda tanto le grandi e medie imprese (quelle, per intenderci, che superano i cento dipendenti) dove in effetti i diritti dei lavoratori sono abbastanza garantiti, i contratti di lavoro vengono rispettati, e i tempi delle discriminazioni politiche (che avevano allora spinto all’adozione dell’art. 18) sono finiti da un pezzo. Diversa invece è la situazione delle piccole imprese, soprattutto di quelle dove la dimensione quasi artigianale ancora consente un contatto diretto della proprietà con i lavoratori; in esse il venir meno dell’elemento fiduciario, comunque motivato (non sempre con ragioni dimostrabili giuridicamente) rende impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Ecco perché la trasformazione del diritto automatico alla riassunzione in indennizzo economico è stato accolto con favore e non ha suscitato, se non in alcuni elementi legati alla CGIL, particolari reazioni negative.
Il mantenimento del Jobs Act, quindi, al di là di qualche aggiustamento marginale, è fondamentale per il sistema imprenditoriale italiano (notoriamente costituito da aziende di dimensioni medio-piccole) e coinvolge un punto qualificante del programma di Renzi tendente a diminuire la conflittualità sindacale e consentire un aumento della produttività, unica seria ricetta per richiamare gli investimenti (e quindi creare nuovi posti di lavoro).

Politiche del lavoro
Di “politiche del lavoro” tutti si riempiono la bocca, ma quando si arriva al dunque le misure proposte appaiono incongrue perché non affrontano il problema alla radice.
Il dilemma è semplice e le forze politiche farebbero bene a renderlo chiaro prima delle elezioni politiche: la globalizzazione è quello che è, può piacere o no, ci ha dato internet con tutte le sue applicazioni, ha aumentato i consumi, ha mantenuto bassi i prezzi. La libera circolazione dei capitali e delle persone però ha anche prodotto una competizione che, in mancanza di una efficace regolamentazione internazionale, genera un aumento della precarietà e una diminuzione dei posti di lavoro non qualificati; tendenza che sarà rafforzata dalle nuove tecnologie robotiche che nei prossimi anni sostituiranno molta mano d’opera non specializzata.
Si può rifiutare la globalizzazione? Certamente sì ma bisogna comprenderne le conseguenze che non sono quelle che i populisti in cerca di facili consenso fanno credere. Chiudersi nei propri confini e regolare con dazi, dogane, accordi bilaterali, la circolazione di persone e merci comporta una probabile diminuzione delle esportazioni, la fuga di molti capitali all’estero, e, in tempi non molto lunghi, un aumento dei prezzi al consumo e una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie; inoltre per compensare la diminuzione dell’iniziativa privata e per garantire quella sicurezza del posto di lavoro che i demagoghi hanno promesso è probabile che si dovrà allargare ulteriormente l’intervento pubblico. Insomma c’è il rischio concreto che – realizzando il sogno di Zalone – finiremo tutti felicemente poveri ma con la certezza di un posto fisso (pubblico naturalmente).

Europa
Io sono europeista per ragioni ideali, culturali, politiche e via enumerando. Ma quello che mi stupisce è che ci siano ancora tanti che invece di vedere nell’Europa la soluzione dei problemi che ci mettono in balìa di una globalizzazione incontrollabile, la considerano un nemico da rimuovere per rifugiarsi nelle proprie presunte certezze nazionali – e magari regionali – senza capire che al di fuori di sistemi che garantiscono e regolano il libero scambio sarebbero condannati a subire le decisioni e le regole imposte da chi, per dimensioni, per potenza finanziaria, per influenza politica internazionale, è in grado di farlo.
La soluzione del problema quindi, se vogliamo mantenere quanto abbiamo e trasmettere ai nostri figli qualche certezza, è duplice: fare pulizia a casa nostra (non soltanto su corruzione e malavita) e portare avanti il processo di integrazione europea; qualcuno non ci sta? Avanti lo stesso, vedrete che prima o poi si accodano scodinzolando.

 

Franco Chiarenza
13 novembre 2017

La vera novità di questo inizio di campagna elettorale che stiamo vivendo è la discesa in campo di Pietro Grasso. La candidatura del presidente del Senato si rivelerà probabilmente determinante per lo schieramento di sinistra per diversi motivi:

  1. si tratta di una personalità che per prestigio istituzionale può in qualche misura superare i veti reciproci tra PD e MDP.
  2. facendo asse con Giuliano Pisapia, Laura Boldrini e forse Luciano Violante può rappresentare il perno di un virtuale comitato di garanti con la benedizione dei padri nobili della sinistra, Walter Veltroni e Romano Prodi.
  3. può costituire motivo di attrazione nei confronti di forze collaterali come il movimento per gli Stati Uniti d’Europa messo in campo da Emma Bonino.
  4. può contare probabilmente di appoggi mediaticamente significativi come quello di Roberto Saviano.
  5. infine last but not least può utilizzare la propria immagine di ex procuratore nazionale anti-mafia per contrastare la campagna dei Cinque Stelle che, come sempre, punterà su una generica damnatio di tutta la classe politica.

Rose e spine
Naturalmente non saranno rose e fiori; al contrario, le spine sono molte e si faranno sentire. Renzi rischia di restare confinato in un angolo anche perché Grasso, nelle sue prime mosse, non gli ha fatto sconti ritenendolo responsabile della crisi del PD. Già in difficoltà dovendo impostare una campagna elettorale alternativa alla destra ma sapendo che probabilmente dopo le elezioni con essa, o con una sua parte, dovrà fare i conti, cerca disperatamente di raccogliere consensi su temi tipicamente populisti come quello dell’avversione alle banche (fino al contrasto esibito muscolarmente con la Banca d’Italia), senza tenere conto dei rischi istituzionali che ciò comporta e della debolezza inevitabile di un discorso fatto da chi per parentele ed amicizie con banche in difficoltà ha avuto a che fare.
Anche per ciò che riguarda il programma la pretesa dell’estrema sinistra di rimettere in discussione il jobs act e la riforma scolastica Giannini (senza parlare delle pensioni e di altri temi su cui la pubblica opinione vibra con sensazioni diverse e spesso opposte) non consente molti margini di manovra per un accordo. Resta l’esigenza di un’unità delle sinistre che la legge elettorale rende imprescindibile anche a costo di riserve mentali pronte ad esplodere un’ora dopo aver conosciuto i risultati elettorali, seguendo la strategia che Berlusconi ha imposto al centro-destra. Una strategia utile per vincere e arginare l’ondata dei Cinque Stelle ma non per governare il Paese e compiere le scelte difficili che lo attendono.

Scenari
E’ presto per andare oltre nelle previsioni. Certo è che rischia di venir meno quel progetto varato alla “leopolda” nel quale Renzi si proponeva al governo del Paese trasformando il partito democratico in un “partito della Nazione” sulla base di principi sostanzialmente liberali sia in economia (difesa dell’economia di mercato con regole severe che ne tutelino il corretto funzionamento, rimozione delle corporazioni che inceppano lo sviluppo del Paese, fisco orientato a favorire la produttività) che in politica estera (maggiore integrazione europea) e nella formazione (scuola e università che premino il merito). Un percorso su cui il governo Renzi si è faticosamente inoltrato, andandosi però a fracassare su una riforma costituzionale frettolosa, mal costruita e senza tenere conto che il patto con l’opposizione (patto del Nazareno) per riformare le istituzioni attraverso scelte condivise poteva funzionare soltanto comprendendovi l’elezione del Capo dello Stato e soprattutto rinunciando a quei toni spavaldi da piccolo Cesare che hanno costituito parte rilevante della sua rovina.

 

Franco Chiarenza
10 novembre 2017

La vicenda è nota: Paolo Giordana, capo di gabinetto della sindaca di Torino Chiara Appendino (Cinque Stelle), ha dovuto dimettersi per avere sollecitato la cancellazione di una multa inflitta a un conoscente. Poca cosa ma indice di un costume assai diffuso dove l’esercizio del potere è sempre connesso all’eccezione privilegiata, spesso anche esibita. E’ significativo che l’episodio sia avvenuto a Torino e non – come ci si aspetterebbe – in una cittadina della provincia meridionale.

La purezza degli amministratori
Qualcuno ha pensato che la vicenda possa danneggiare l’immagine dei Cinque Stelle dimostrando la loro incapacità a scegliersi i collaboratori (confermando così l’impressione negativa della collega sindaca di Roma). Credo che non sia così.
L’elettorato dei Cinque Stelle è essenzialmente costituito da gente che si ribella al potere (politico e amministrativo) soprattutto per i privilegi che esibisce, per la corruzione diffusa ad ogni livello, per il clientelismo che domina incontrastato in ogni settore della pubblica amministrazione, e conseguentemente contesta il principio di delega considerando delegittimata la classe politica. Se così è l’episodio torinese si inquadra perfettamente nelle aspettative dei militanti del movimento e susciterà consenso e approvazione.
E’ davvero incredibile la resistenza che i politici degli altri schieramenti oppongono a qualsiasi intervento che ne limiti i privilegi, senza capire che il problema non è di valutare quanto essi siano giustificati da circostanze obiettive e quanto invece frutto di demagogia ma semplicemente di prendere atto che questi sono i sentimenti prevalenti nell’elettorato, e non soltanto in quello “grillino”. D’altronde i dati reali giustificano l’indignazione: trattamenti pensionistici che continuano ad essere privilegiati, auto blu due o tre volte più di quelle in dotazione alla classe politica di altri paesi comparabili, scambio di favoritismi (comprese le assunzioni), concorsi truccati, e chi più ne ha più ne metta. Demagogia? In parte forse sì, ma è quello che si merita una classe politica cieca e sorda a fronte del mugugno che sale dal Paese dove la classe media si trova alle prese con problemi inediti (come la disoccupazione giovanile) e aspettative tradite. Le ragioni delle difficoltà sono tante, complesse e in gran parte derivanti da fatti esterni ma ciò non toglie che l’opinione pubblica le attribuisca anche alla incapacità e all’incompetenza di chi ci governa.
Per questo forse l’asserita incompetenza dei Cinque Stelle diventa secondaria; forse che gli altri hanno dimostrato di essere più capaci?

Pagare le multe
Dobbiamo cominciare dal basso: pagare le multe invece di cercare l’amico che ce le cancella, fare la fila invece di saltarla, pagare il biglietto dell’autobus anche se il controllore non passa mai, e man mano salendo di livello, non pretendere dalla scuole promozioni non meritate, attuare la raccolta differenziata dei rifiuti, ecc. Ripristinare la legalità nei comportamenti quotidiani è un problema che riguarda tutti ed è la premessa per governare i cambiamenti che certamente si imporranno, ma l’esempio deve venire dall’alto, da chi pretende di rappresentarci. E’ veramente drammatico per la nostra democrazia che sia dovuto scendere in piazza un brillante comico per ricordarlo e per mobilitare il consenso su questi temi.
Naturalmente sappiamo tutti che per governare non basta essere onesti; lo sanno pure loro, i Cinque Stelle. E per questo, avendo messo in piedi un sistema di selezione della classe dirigente demagogico e inadeguato che apre l’esercizio del potere a dilettanti allo sbaraglio, stanno cercando di costituirsi un supporto di competenze tecniche che sia in grado di aiutarli. In realtà le cose non funzionano così: le competenze politiche non si acquisiscono “andando a scuola”, altrimenti avremmo tutti i docenti di scienze politiche al governo invece che in cattedra. Occorre macinare esperienze, cominciando dai circoli di quartiere e procedendo in responsabilità crescenti con responsabilità amministrative e politiche locali, regionali e infine nazionali. E’ questo il modello che dai tempi della repubblica romana ci tramandano le grandi democrazie occidentali. La politica è anche una professione, illudersi che consista soltanto nella registrazione degli umori popolari ha come unica conseguenza un rafforzamento del potere reale dei “tecnici” ai quali si finiscono per delegare quelle scelte e quelle mediazioni che ogni attività di governo comporta.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2017

I referendum celebrati in Veneto e in Lombardia per chiedere maggiore autonomia non hanno evidentemente nulla a che fare con quello organizzato dagli indipendentisti catalani; li avvicina soltanto la coincidenza temporale e il fatto che sembrano entrambi segnalare un diffuso malcontento nei confronti degli stati nazionali.
C’è anche un altro aspetto che li accomuna: si tratta di regioni “ricche” che chiedono di separarsi da quelle più povere, e non è questione secondaria.

Gli “statuti speciali”
Ciò che in realtà chiedono veneti e lombardi (in parte) non è una indipendenza che sarebbe difficile e costosa da gestire e può essere pretesa soltanto sulla base di ragioni sentimentali, storiche, linguistiche che in Catalogna convivono con la convenienza economica, mentre non hanno serie motivazioni né in Lombardia né in Veneto, ma piuttosto il riconoscimento dello “status” di regioni a statuto speciale per i vantaggi economici che comporterebbe. La vicinanza con Regioni e Province a statuto speciale come il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino hanno giocato in questo senso un ruolo fondamentale. Perché a Trento tanti vantaggi economici e nell’adiacente provincia di Belluno no?
In effetti gli “statuti speciali” rappresentano nel nostro ordinamento una componente irrazionale di differente origine e diversissime motivazioni: il primo risale al 1945 e fu concesso alla Sicilia allora percorsa da un fremito indipendentista in cui confluivano velleità culturali, interessi poco limpidi, sentimenti autonomistici, nostalgie storiche variamente colorite e persino connivenze col brigantaggio. Al Trentino il riconoscimento “speciale” è arrivato come conseguenza di quello alto-atesino quando la minoranza di lingua tedesca ottenne a favore della Provincia lo svuotamento dei poteri della Regione Trentino/Alto Adige (che De Gasperi aveva voluto per mantenere la prevalenza italiana). L’autonomia sarda non poteva mancare in presenza di quella siciliana e aveva alle sue origini motivazioni culturali, storiche e linguistiche molto forti. Anche la Valle d’Aosta rappresentò un tributo pagato alla Francia a protezione della sua minoranza linguistica, mentre il Friuli/Venezia Giulia fu il frutto di una politica di convivenza nei confronti della Slovenia e della Croazia dopo la dolorosa amputazione dell’Istria e venne costruita a tavolino mettendo insieme realtà storiche e culturali assai diverse come Trieste e Gorizia da una parte e Udine dall’altra con Pordenone. Anche in questo caso la domanda dei veneti è: cosa c’è di diverso tra Conegliano e Pordenone che distano tra loro 30 km in un contesto sociale e culturale identico?
Un quesito che pongono naturalmente le Regioni più ricche perché si fa loro credere che la possibilità di disporre di tutte o quasi le risorse che producono le favorirebbe evitando di dovere in qualche misura “soccorrere” quelle del sud bisognose di assistenza. Atteggiamento immorale, egoistico, e, oltretutto, fondamentalmente sbagliato (se non altro perché al sud, alle sue risorse umane, al risparmio ivi raccolto, ai suoi mercati, lo sviluppo delle regioni settentrionali deve molto).
Ma, giusto o sbagliato che sia, il problema si pone.

La riforma regionale
Messo in imbarazzo dalla convivenza con la Lega, Berlusconi ha fondamentalmente colto nel segno quando ha detto “facciamo tutte le Regioni a statuto speciale”. Un paradosso che contiene tuttavia l’unica soluzione del problema (già posto, ma in maniera confusa e grossolana, nella fallita riforma costituzionale di Renzi). Tutti “speciali”, nessuno speciale. Rivediamo le competenze, attribuiamo a tutte le Regioni una parziale autonomia fiscale, istituiamo una cassa comune di compensazione per finanziare i progetti infrastrutturali nel Mezzogiorno (che rappresentano una convenienza per l’intero Paese), diamo al Senato una visibilità regionale, possibilmente senza ricorrere ai consiglieri regionali itineranti partoriti dalla fervida fantasia di Renzi, e aboliamo di conseguenza i privilegi che oggi sono concessi alle Regioni a statuto speciale, compreso l’Alto Adige. Per la pace etnica e linguistica abbiamo già dato e molto; adesso la massima autonomia deve restare garantita per quanto attiene questioni culturali, linguistiche, organizzative, ma basta con vantaggi fiscali diversi da quelli di ogni altra Regione. Sono sicuro che una riforma siffatta, proposta senza altre aggiunte, chiaramente motivata e illustrata, troverebbe ampio consenso, soprattutto se nascesse da un’intesa trasversale per evitare che un partito o una maggioranza se l’attribuisca.

Franco Chiarenza
30 ottobre 2017

Siamo l’unico paese – tra quelli più importanti coi quali pretendiamo di confrontarci – che cambia spesso la legge elettorale. Il che è una componente non secondaria del distacco tra società civile e classe politica di cui, a parole, continuamente ci si lamenta.
E non soltanto perché da qualche tempo, col venir meno del voto di preferenza, il parlamento sia composto da “nominati” piuttosto che da “eletti” (problema tutto sommato secondario in un sistema proporzionale, come dirò) ma per la fondata impressione che importanti “regole del gioco”, quali certamente sono quelle che definiscono i sistemi elettorali, vengano di volta in volta modificate in funzione di veri o presunti interessi di parte.

L’elettorato non è stupido
Ma talvolta il gioco non riesce perché si fonda su previsioni che possono risultare errate; può così avvenire (ed è successo) che norme studiate per “punire” gli avversari si ritorcano contro chi le ha immaginate e imposte perché anche gli elettori (non tutti ma quanti bastano) qualche volta ragionano e cambiano voto proprio in funzione della legge elettorale. L’effetto tuttavia più dannoso della variabilità delle regole elettorali è proprio quello che riguarda l’immagine della classe politica, di qualunque colore, finendo per coinvolgere la credibilità dello stesso sistema democratico.
Non entro nel merito del cosiddetto “Rosatellum”, celermente approvato dal parlamento a colpi di mozioni di fiducia (altra grave scorrettezza istituzionale; il voto di fiducia dovrebbe sempre riguardare l’attività di governo non le regole istituzionali). Si tratta di un sistema elettorale né peggio né meglio di altri, essendo poi a conti fatti un “Mattarellum” modificato aumentando la quota proporzionale e in tal modo avvantaggiando le coalizioni; per questo il movimento di Grillo, notoriamente contrario a qualsiasi alleanza, lo considera uno strumento creato per precludergli la possibilità di andare al governo. In realtà ogni sistema proporzionale comporta la necessità di creare alleanze per costituire maggioranze di governo; non si capisce perché i Cinque Stelle fossero favorevoli al sistema tedesco che, essendo fondamentalmente proporzionale, rende necessarie le coalizioni di governo, come dimostra l’esperienza della Merkel che, pur avendo vinto le elezioni, è alle prese con una difficile trattativa per realizzare una nuova maggioranza. A meno che la differenza non consista nel fatto che il “Rosatellum” impone la scelta delle alleanze prima del voto mentre il sistema tedesco consente di affrontare il problema dopo le elezioni; ma in tal caso è legittimo il dubbio che la declamata trasparenza dei “grillini” altro non sia che un lasciare le mani libere ai propri capi. Perché – da sempre – in politica sono le alleanze che determinano la credibilità dei programmi sventolati in campagna elettorale.
Ma anche la “furbata” (come si direbbe a Roma) messa a segno dai partiti che si accingono a combattersi senza esclusione di colpi (almeno a parole) mettendo intanto fuori gioco il movimento di Grillo dimostra una debolezza che potrebbe rivelarsi pericolosa.
Accantonare mediante artifici istituzionali un problema di moralità politica, a torto o a ragione ritenuto fondamentale da ampie parti dell’elettorato (e in gran parte intercettato dal movimento di Grillo) invece di affrontarlo alla radice eliminando dal costume politico e amministrativo quelle forme di corruzione e di clientelismo che si sono diffuse nel corpo sociale come metastasi inarrestabili, serve soltanto a rafforzare la rappresentanza della protesta che ormai i Cinque Stelle si sono assunti (e sulla quale riescono a mantenersi uniti). Non vorrei che a forza di giocare ai quattro cantoni si finisca per arrivare al crollo dei cantoni e che chi sta in mezzo finisca per avere partita vinta.

Come uscirne
La sinistra pone la questione delle preferenze come discriminante per una “accettabilità democratica” di qualsiasi sistema elettorale. Ma tale affermazione è quanto meno ingenua. Chiunque ricorda le elezioni delle prime legislature repubblicane quando si votava con un sistema proporzionale (leggermente corretto) sa benissimo che gli eletti erano quasi sempre i primi delle liste predisposte dai partiti, anche quando non si ricorreva alla diffusa prassi fraudolenta di aggiungere le preferenze alle schede che ne erano prive (sono stato rappresentante di lista in ancor tenera età e lo ricordo bene). In un sistema proporzionale per liste quindi le preferenze sono poco più di una formalità che peraltro comporta gravi rischi di voto di scambio, pressioni clientelari, costi non indifferenti; abbiamo dimenticato che il referendum vinto da Mario Segni nel 1991 (vinto col 96% dei voti e 63% di partecipazione) riguardava proprio la soppressione delle preferenze.
L’unico modo per uscirne è ancora quello proposto in quegli anni dal “manifesto dei 31” in cui si chiedeva l’adozione di una legge elettorale uninominale a doppio turno (come quella sostanzialmente adottata con successo per l’elezione dei sindaci). E’ il solo sistema che rende gli eletti responsabili davanti ai loro elettori, garantisce la governabilità e se anche talvolta può discostare la composizione del parlamento da una puntuale rappresentanza dell’elettorato ha il vantaggio di determinare con certezza chi vince, con quali alleati, con quali programmi. Viene da molti anni adottato in Francia e da sempre e senza nemmeno il ballottaggio in paesi di antica tradizione liberale come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. In Germania il sistema è misto ma la presenza di tre forti partiti tradizionali (democristiani, socialisti e liberali) ha sempre impedito una frammentazione parlamentare; quest’anno alcune “new entry” hanno già messo in crisi la governabilità e la Merkel sta incontrando molte difficoltà a formare un nuovo governo stabile.

Se da noi si vuole cercare un compromesso si potrebbe approfittare dell’esistenza di due camere per adottare per esempio un sistema proporzionale (corretto da una consistente soglia di sbarramento) per la Camera e eleggere i senatori in collegi uninominali su base regionale.
Ma tutto ciò, in un paese come il nostro, non basta. Occorre rendere definitivi i sistemi adottati costituzionalizzandone i contenuti, per evitare ad ogni elezione di tornare a discuterne.
E, con l’occasione, riformare alcune competenze del Senato su cui non sarebbe difficile trovare un accordo ampiamente condiviso se si rinuncia all’idea bislacca di renderlo non elettivo e costituito da consiglieri regionali in trasferta. Se proprio se ne vuole evitare l’elezione diretta si può adottare con qualche modifica il modello del Senato francese.

Franco Chiarenza
28 ottobre 2017

La crisi in Catalogna ha riacceso l’attenzione su un vecchio tema, già sollevato a suo tempo da Altiero Spinelli, poi riproposto sempre più debolmente in diverse occasioni, fino a scomparire dall’agenda europea negli ultimi anni: quello della cosiddetta Europa delle Regioni. L’idea su cui si fonda la proposta nasceva – non a caso subito dopo la seconda guerra mondiale – partendo dalla constatazione dei danni prodotti dall’esasperazione dei nazionalismi sfociata in due conflitti che avevano sostanzialmente emarginato l’Europa rispetto alle nuove egemonie mondiali. Ci si chiedeva se l’Europa da rifondare non dovesse articolarsi in forme diverse dagli antichi stati nazionali che in fondo altro non erano che costruzioni, talvolta arbitrarie, prodotte dalla cultura statocentrica che il Vecchio Continente aveva ereditato dalla rivoluzione francese. Una nuova Europa quindi formata da grandi entità regionali omogenee per storia, cultura, condizioni economiche, unite tra loro da una federazione modellata sostanzialmente sull’esempio americano. Il tutto però – come appunto negli Stati Uniti – accompagnato da un potere federale forte espresso da un presidente eletto direttamente dal popolo e da un parlamento strutturato in una camera che rappresenti l’elettorato e una seconda costituita dagli stati federati. Un’idea che privilegia le autonomie e che trovò accoglienza nella costituzione che gli anglo-americani imposero alla Germania (per l’evidente preoccupazione che rinascesse il nazionalismo) con la quale vennero di fatto ricostituite entità regionali (lander) in gran parte corrispondenti agli antichi stati esistenti prima dell’unificazione realizzata nel XIX secolo dalla monarchia prussiana, dotate di poteri di governo che trovano il loro limite soltanto in quelli esplicitamente attribuiti al parlamento e al governo federali.
La tendenza a trasformarsi in stati indipendenti è emersa negli anni successivi in diverse parti d’Europa: non soltanto in Spagna (Catalogna e Paesi Baschi), ma anche in Francia (Corsica), in Belgio (Fiandra), in Gran Bretagna (Scozia, Galles e Ulster). Alcuni stati come la Jugoslavia creati – per la verità un po’ artificialmente – dopo la prima guerra mondiale, sono implosi scatenando sanguinose guerre civili e dando luogo a una frammentazione che ha trovato la conclusione di secolari conflitti inter-etnici rendendo indipendenti Slovenia, Croazia, Serbia, Kossovo, Bosnia, Macedonia, Montenegro. Anche la Cecoslovacchia ha visto separarsi (per fortuna consensualmente) la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Pure l’Italia non è stata risparmiata, cominciando dai tentativi separatistici della Sicilia e dell’Alto Adige fino alle fantasiose creazioni “padane” della Lega di Bossi.
La crisi catalana sembra dimostrare che l’argomento è ancora attuale. Ma lo è davvero?

Stati-nazione, realtà ineliminabili
In realtà, malgrado le spinte separatiste, quasi ovunque (almeno in Europa occidentale) gli stati nazionali hanno risolto i problemi delle minoranze ricorrendo ad autonomie anche molto accentuate ma senza mai compromettere le competenze nazionali in politica estera, militare e di controllo sull’economia e la finanza (che, semmai, sono state devolute in parte a strutture sovra-nazionali come l’Unione Europea); anche regioni di comprovate tradizioni storiche, linguistiche, religiose, giunte molto vicine dalla secessione dagli stati in cui la storia li aveva collocati, hanno, alla fine, fatto un passo indietro.
Perché le cose sono andate così? (e andranno così probabilmente anche in Catalogna?)
Perché le motivazioni di orgoglio identitario diventano prevalenti solo quando si associano a meno nobili ragioni economiche, soprattutto quando queste ultime sono manipolate da pochi o molti demagoghi scaltri; non a caso le regioni con velleità secessioniste sono quasi sempre le più ricche. Basta far credere che chiudersi nei propri confini significhi disporre liberamente delle risorse prodotte in loco evitando che vengano utilizzate altrove o per finalità non immediatamente corrispondenti agli interessi della propria comunità. Il che è palesemente falso perché in tempi di globalizzazione non conta soltanto la ricchezza prodotta, ma anche – e forse di più – le norme che regolano gli scambi commerciali e la certezza del diritto per gli attori (sempre più mobili) dell’economia e della finanza internazionale. Nella partita che si gioca per stabilire le regole conta molto la dimensione (fisica, economica, politica, militare) dei soggetti che vi partecipano ed è inevitabile che gli equilibri vengano misurati sulla forza complessiva degli stati, formalmente tutti uguali ma dove qualcuno è più uguale degli altri. Potrebbe – per esempio – la Germania svolgere il suo ruolo egemonico in Europa se ai tavoli che contano invece della Repubblica federale sedessero come entità indipendenti la Sassonia, la Baviera, e gli altri 14 lander che la costituiscono? Qualcuno può pensare che nel direttorio della BCE il governatore della banca centrale slovacca conti quanto quello della Francia? Quanto potrebbe fare la Catalogna indipendente per difendere da sola la propria agricoltura rispetto alle possibilità di essere parte importante di un paese come la Spagna senza il cui accordo nessuna decisione può essere presa? Il mondo degli affari, la finanza, gli imprenditori, l’hanno capito da un pezzo: meglio contare all’interno di uno stato forte e autorevole che non rischiare di restare isolati e impotenti per un riguardo a tradizioni localistiche rispettabili ma oggi politicamente insignificanti ed economicamente motivate soltanto da un egoismo sociale tanto immorale quanto impraticabile. Fiscalità di vantaggio? E’ un’arma a doppio taglio se praticata in paesi che devono investire molte risorse in infrastrutture e deve fare i conti con l’Unione Europea (salvo chiamarsene fuori con tutti i problemi che ciò comporta).

Decidere da sé
A queste obiezioni gli “indipendentisti” rispondono che vogliono decidere da sé il loro destino pur ammettendo che i poteri nazionali sono ormai alquanto diluiti per effetto della globalizzazione e del decentramento, e (almeno in Catalogna), anche per questo, dicono di volere in ogni caso restare in Europa e continuare a far parte dell’Eurozona. Doversi far carico delle funzioni nazionali più impegnative e costose (politica estera, rete diplomatica, spese militari) renderebbe assai meno conveniente l’indipendenza; ignorarle contando sulla propria marginalità nella certezza che altri comunque provvederanno alla loro sicurezza toglierebbe a questi nuovi mini-stati qualsiasi credibilità (e possibilità di contare nelle sedi dove si decidono le strategie internazionali). Se, alla fin dei conti, ciò che dovrebbe cambiare riguarda l’istruzione, la giustizia, la sicurezza interna, l’ordinaria amministrazione, si tratta di materie che possono essere regolate nell’ambito di statuti regionali (come oggi già avviene).
A questo punto l’indipendenza diventa poco più che una soddisfazione sentimentale, perseguita in maniera convinta soltanto da gruppi (minoritari spesso anche all’interno degli schieramenti indipendentisti) che ritengono in una dimensione più ridotta di potere più facilmente effettuare esperimenti istituzionalmente innovativi, in senso autoritario o “socialmente avanzati”; premessa inevitabile di conflitti che possono rapidamente precipitare in un caos di cui le guerre balcaniche ci hanno dato un terrificante esempio.

Catalogna divisa
Un’ultima osservazione. I referendum hanno sempre dimostrato che le secessioni spaccano i paesi pressappoco a metà: creare un’indipendenza condivisa è in tali condizioni un’impresa assai ardua. Decenni (e qualche volta secoli) di unità statuale hanno prodotto inevitabilmente mescolanze, interessi, contaminazioni, strutture burocratiche, legislazioni comuni che è molto difficile dissolvere; il che, se l’indipendenza va in porto, determina tensioni, complicazioni, creazione di nuove minoranze dissenzienti. Lo dimostra quanto sta avvenendo in Catalogna, ma anche le vicende della Brexit; dove lo scioglimento di legami assai meno forti rispetto a quelli consolidati all’interno di stati nazionali secolari, si sta dimostrando difficile e pieno di incognite. Gli osservatori politici sono in proposito concordi: alla fine del percorso ne usciranno tutti più deboli, il Regno Unito ma anche le istituzioni di Bruxelles.

 

Franco Chiarenza
25 ottobre 2017