Venezia ed oltre

L’acqua alta a Venezia non è una novità. Il fatto che quest’anno abbia assunto dimensioni inusuali era prevedibile e infatti era stato previsto sin dall’analogo allagamento del 1966. Che si dovesse perciò trovare un modo per mettere in sicurezza la città lagunare fu oggetto di un dibattito internazionale perchè l’integrità di Venezia è considerata da sempre un valore culturale unico al mondo (al di là dei fin troppo facili riconoscimenti dell’UNESCO). Le “leggi speciali” per Venezia si sono infatti susseguite da quel fatidico 1966 fino ad approdare, dopo lunghi dibattiti che divisero gli ambienti culturali e i veneziani, alla decisione di realizzare il MOSE, un sistema di dighe mobili in grado di sbarrare le inondazioni provocate dall’”acqua alta”. I lavori cominciarono nel 2003 (malgrado la decisione fosse di molti anni prima), sono stati più volte interrotti anche per gli scandali legati alle tangenti, sono costati quasi sei miliardi, e non è ancora in grado di funzionare, come ha dimostrato il disastro di questi giorni. Vi sembra normale?

Opere pubbliche infinite
Non è normale ma non è neanche un’eccezione. In Italia la costruzione delle opere pubbliche, anche quando sono decise e finanziate (il che richiede sempre tempi lunghissimi), procede a singhiozzo con continue interruzioni fino a raggiungere tempi infiniti. Vogliamo ricordare il ponte di Messina la cui costruzione fu deliberata con legge nel 1971 e si dovettero attendere 42 anni perchè un altro governo decidesse di non farlo? Pare che molti vogliano riproporlo, mi vien da ridere, se penso che il ponte sull’Oresund tra la Danimarca e la Svezia è stato costruito in sette anni e la galleria sottomarina che congiunge l’Inghilterra alla Francia in otto anni. O vogliamo parlare dell’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari, decisa dieci anni fa e i cui cantieri si sono finalmente aperti quest’anno, o della grottesca vicenda del traforo della Val di Susa?
Io non entro nel merito dei progetti; ognuno ha i suoi punti di vista ed è lecito discuterne anche a lungo; quello che non funzione è la mancanza di certezze. In uno stato moderno che si rispetti una decisione presa diventa definitiva perchè chi la realizza deve poterla programmare senza interruzioni, senza impedimenti politici, giudiziari, o di ogni altro genere. Ogni interruzione produce danni gravissimi: aumentano i costi, si licenziano le maestranze fino a nuovo ordine, si compromette l’indotto che si attiva attorno a qualsiasi opera di un certo respiro. Da noi è prassi costante che ogni gara d’appalto venga contestata davanti al TAR, ogni ente locale ponga veti e impedimenti per ottenere adegute compensazioni, ogni comitato di cittadini che si ritengono danneggiati chiedano all’autorità giudiziaria di sospendere i lavori, spesso riuscendoci. In questo modo non si va da nessuna parte, le opere pubbliche restano incompiute per decenni, quando vengono realizzate costano il doppio di quanto dovrebbero, le imprese, se non hanno robusti sostegni finanziari, falliscono, la disoccupazione aumenta.

Che fare?
Occorre coraggiosamente disboscare innanzi tutto i tanti enti che a diverso titolo esercitano poteri di interdizione; dico coraggiosamente perchè dietro di essi si nascondono spesso interessi inconfessabili e, nel migliore dei casi, condizionamenti politici. La filosofia del “not in my courtyard” è sempre elettoralmente vincente. Occorre poi separare le responsabilità personali degli appaltatori dalla normale prosecuzione dei lavori; se un magistrato rileva degli illeciti l’opera non venga sospesa, si nominino dei commissari giudiziari che subentrano nella direzione dei lavori, salvo poi, a giudizio definitivo, stabilire le rispettive responsabilità e i danni che ne sono derivati. Basterebbe questo per fare diminuire i tanti ricorsi e denunce strumentali mirati soltanto alla sospensione delle opere (anche nella speranza di poterle rimettere in discussione).
Non si ha idea quanto pesi nella valutazione del sistema-Paese per gli investimenti privati (dall’estero ma anche italiani) questa incertezza del diritto travestita da giustizia. Insieme ad altre cause (lentezza e incoerenza della giurisdizione, sistema formativo inadeguato e non rispondente alle esigenze delle imprese, ecc.) essa è più importante di una tassazione elevata e del costo della mano d’opera. E, al contrario di esse, si tratta di riforme a costo zero, anzi che producono molti vantaggi. C’è chi rema contro coprendo il proprio interesse al mantenimento delle inefficienze del sistema con il richiamo all’onestà (che, secondo loro, richiede controlli e vincoli burocratici sempre più stringenti). Se vogliamo uscire dal pantano bisogna liberarsi di quei rematori e sostituirli con altri che riportino la barca nella corrente della convenienza collettiva. Altrimenti molti cominceranno a pensare che la democrazia non sia in grado di risolvere i problemi del Paese; è già successo esattamente un secolo fa.

 

Franco Chiarenza
17 novembre 2019

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